Un Ragazzo – Una intervista non ordinaria a Tom Ballard

di Saverio D’Eredità

Nervoso?

Un po’

Deve essere meglio per te stare su del misto tecnico sulla Nord del Cervino piuttosto che qui no?” “Definetely! Sì, se in questo momento mi trovassi sulla Nord starei decisamente meglio. Io, le picche, una linea e tutta una montagna da scalare. Più tranquillo di sicuro!”

Tom Ballard sulla Colton McIntyre
Tom Ballard sulla Colton McIntyre

C’è un momento, che credo conoscano molto bene gli attori o i cantanti, che si verifica pochi istanti prima di salire sul palco, ed è un momento molto particolare, un po’ come il famoso occhio del ciclone in cui l’aria è immota. In questo momento il pubblico ha già gremito la sala e c’è tutto un vociare disordinato che per te che sei lì, che stai per salire sul palco è una specie di campo minato della concentrazione che sembravi aver acquisito pochi istanti prima (la prima parola da dire, il tono da usare, la sequenza giusta) e che ora va a rotoli – puff! – dimenticata.

Si riparte dalla pagina bianca, si improvvisa a braccio. Ecco è in questo momento strano in cui tutti sono lì per una sola persona – e quella persona sei tu – ma nessuno ti vede. Un po’ come la lettera rubata di Allan Poe. E allora si crea uno singolare momento nel momento, una sorta di intimità confidenziale quasi paradossale in mezzo al caos e sapendo che da lì a poco terrai la tua prima conferenza in pubblico. E conta poco aver scalato, da solo in inverno, in un solo inverno!, le 6 Nord delle Alpi, le più leggendarie, simboliche. Mitiche.

Solo che in questo momento ci sono anche io, che sono il traduttore (all’incirca) o forse più il mediatore e non capisco se sono io (che appunto non sono un traduttore) o lui a dovermi preoccupare di più. Tom è in piedi davanti a me, le braccia incrociate (solo ora realizzo che razza di braccia e spalle che ha e le collego immediatamente alle migliaia di colpi dati su un couloir o le ore e ore agganciati sulle punte delle picche in strapiombi di dry), lo sguardo verso il basso inframmezzato da lunghi sospiri. Appare molto semplice, un ragazzo appunto, con una faccia pulita, i capelli biondi pettinati e gli occhi della mamma. Insomma, come uno dei tanti nel quale difficilmente riconoscerti un astro nascente dell’alpinismo.

Rimaniamo in silenzio alcuni istanti, e mi sto dando del cretino: uno perché potrei fare qualcosa per rilassarlo che ne so una battuta, un argomento a caso, due perché ho l’occasione di chiedergli almeno un miliardo di cose sulle vie, sulle montagne che ha scalato e tipo cosa si prova a stare sotto la nord delle Jorasses da solo, proprio lì tra lo sperone Walker e il Whymper come tra gli occhi delle Sfingi della Storia Infinita. Oppure come si scala sulle placche della Cassin sul Badile impiastrate di neve e ghiaccio. O anche delle cose stupide, tipo che guanti usa o come si fa a scalare sul sesto con meno 10 e cosa pensa la mattina alle 5 quando esce dalle coperte che è poi quello che fa veramente la differenza con noi altri pavidi. Insomma, son qui davanti ad un astro nascente dell’alpinismo, come trovarsi davanti – che so – ad uno tipo Mark Twight, ma più tranquillo, quando aveva appena cominciato e non era ancora nessuno o qualcuno per pochi e potrei carpirgli un sacco di informazioni (inutili visto che è assai probabile che non farò manco una delle vie che ha salito lui): o almeno poter dire che io Tom Ballard ah! L’ho conosciuto che era un ragazzo.

Tom su
Tom su “Tomb Raider” 7c

Invece no, stiamo lì in silenzio uno davanti all’altro preoccupati ciascuno della brutta figura che potremmo fare come due ragazzini alle prime armi. E che ci piacerebbe stare in silenzio all’attacco di una via piuttosto – ognuno sulle proprie ça va sans dire – e mi sento come un bambino che sta di fronte ad un campione, e invece di chiedergli tutto quello che avrebbe voluto chiederli stando davanti alla tv rimane zitto quasi imbarazzato e sperando che qualcuno lo faccia per lui. Ma è Tom a rompere il ghiaccio.

“Hai mai fatto una roba del genere?” mi chiede forse a cercare aiuto, un appoggio per iniziare tranquillo, fuori dalla sua rete di protezione. “Mah, Tom…proprio così non direi proprio” – gli dico, deludendolo un po’ – “però vai tranquillo. Per lavoro di queste robe ne faccio un sacco. Tutto sotto controllo. E qui è comunque più rilassante!”. Le luci si spengono parte il filmato. La voce di Tom riemerge dal buio, come quello del primo fotogramma in cui esce dal bivacco nella prima luce invernale al fumo della frontale e in quel silenzio crocchiante di neve si avvia da solo eppure a suo agio verso una qualche parete.

“Sin da piccolo, il proposito dei miei genitori era di far vivere a me e a mia sorella una vita avventurosa”.

La domanda, ovvia, sarebbe quella di chiedere qualcosa come “c’è ancora uno spazio di avventura nelle Alpi?” o qualcosa che inneschi una qualche discussione che ci porti alla deriva ad esempio sugli spit, il trad, lo sportivo e il classico e altre amenità. Ma Tom non è proprio quel genere di alpinista. E nemmeno uno che ama parlarne troppo. Nel solco di una lunga tradizione (piuttosto pragmatica e in questo senso anche abbastanza inglese) rappresenta il classico uomo d’azione che esprime nelle sue scalate pensieri e stili piuttosto che dilungarsi in sofismi da carta patinata.

La risposta viene dal pubblico, da chi lo ha seguito sui social network quest’inverno, e che è rimasto affascinato da questa sfida gratuita – e perciò stesso genuinamente alpinistica, proprio come diceva un altro inglese di grande stile, G.W. Young – e che ha riacceso l’interesse per una certa forma di alpinismo che pensavamo superata, travolti dalla corsa con il cronometro, da concatenamenti sempre più complessi, dalla ricerca sempre più spinta di itinerari al limite. Ma in definitiva sempre meno coinvolgenti, distanti anni luce dall’alpinismo di tutti i giorni. Quello di Tom, invece, pur essendo di altissimo livello è ancora (o meglio, di nuovo) nel solco della tradizione che non è conservazione, quanto piuttosto quella grande narrazione dell’alpinismo che ha alimentato generatori di sognatori più o meno capaci.

Le 6 nord fanno parte dell’ immaginario collettivo di un alpinismo “dell’epoca d’oro” la cui sostanza risiedeva soprattutto nella ricerca intima, nel rapporto schietto tra l’uomo e la montagna, non ostacolato dalle sovrastrutture successive. “Si, è vero è questo quello che mi affascina di più, sicuramente” – mi dice – “questo il  tipo di alpinismo in cui mi ritrovo. È la dimensione globale, l’esperienza della montagna che vi si può sperimentare ad attrarmi.”

Bivacco in Dolomiti
Bivacco in Dolomiti

Eppure Tom ha iniziato solo qualche anno fa progredendo man mano su tutti i terreni e quasi sempre in una chiave esplorativa. Pochi sanno delle sue aperture sull’Eiger, delle sue ripetizioni in libera di vie poco note e di ribalta ma di altissimo valore, specie se affrontate con uno stile “pulito” reinterpretando il classico in chiave moderna. Il tutto condito da alcune performances notevoli sia in termini di continuità che di tempi effettivi di salita.

“Pensi possa essere questa l’evoluzione futura, Tom?” gli chiedo mentre ammazziamo il tempo in attesa del panino (“la birra ora no, se no non riesco a parlare” mi dice) ed esorcizziamo la tensione pre-conferenza.

“Potrebbe essere. La velocità non è però un obiettivo a sé stante. Essere veloci è importante. Perché minimizza i rischi, l’esposizione al pericolo. Però non è tutto. Anzi, qualche volta, come sul Dru, mi sono dovuto imporre di rallentare e non bruciare troppo i tempi come faccio di solito. Anche perché qualche volta nemmeno riesco a godermi i paesaggio, i vari momenti della scalata. Sono troppo concentrato sul salire e basta!”

Quindi quale potrebbe essere la frontiera?

“Senz’altro qualcosa di più difficile, salendo di grado. Qualcosa di sempre più tecnico, con mezzi tradizionali ed equipaggiamenti ridotti. Magari in quota. Piccole spedizioni in stile alpino su pareti o cime “minori” ma di grande interesse alpinistico. In Himalaya sulle cime di 6 o 7.000 metri c’è ancora moltissimo da fare.”

Alison Hargreaves fece parte, nel 1986, di una spedizione con Mark Twight, Tom Frost e Jeff Lowe sul Kantega. Era la prima spedizione himalayana di Alison e fu un successo seppure poco celebrato. Alison e Mark stavano già precorrendo i tempi con una spedizione leggera in stile alpino su una parete molto tecnica, valutabile oggi di M7. Un livello già molto spinto. Nella foto che mostra Tom si vedono Alison e Mark procedere a poca distanza in prossimità della cima con l’Everest a far capolino. Fu quella la prima grande ossessione himalaiana di Alison che forse quel giorno non pensava che di lì a poco sarebbe stata la prima donna lassù. Non esattamente la prima in assoluto, ma la prima a farlo da sola, senza ossigeno e senza supporti esterni. Prima di lei, soltanto Messner. Un’impresa eccezionale portata a termine con una caparbietà fuori dal normale. Alison, che è scomparsa sul K2 nel 1995, inghiottita da una tempesta nel corso della discesa della seconda cima più alta del mondo, è la mamma di Tom. Nel buio della sala la carrellata di immagini si ferma sull’ultimo scatto che ritrae Alison sulla spalla del K2. È l’ultima immagine che abbiamo di lei.

Quando la voce di Tom si ferma si crea un altro strano silenzio, cui segue una pausa irreale, rotta da un applauso liberatorio. Un gesto spontaneo, per nulla artefatto e per questo ancor più toccante ed umano. Perché è il gesto, istintivo, di una platea che sembra voler abbracciare Tom in quel momento. Non l’alpinista, il caparbio salitore delle 6 Nord in invernale, ma il Tom bambino che gioca con le macchinine al campo base dell’Everest e aspetta la mamma al rientro dalle sue scalate.Come un fatto di famiglia, una vacanza come altre, la normalità che Alison ha voluto lanciare quasi come una sfida ad una comunità alpinistica in fondo misogina e comunque tradizionalista. Quell’applauso è quasi un ringraziamento per aver riportato alla luce un pezzo di storia alpinistica straordinario, ma con la tenerezza e la dolcezza che solo un figlio possono restituire. Tom parla con calma e lucidità. Non si fa tradire dall’emozione. Eppure il ritratto di Alison che ne esce è pieno di affetto “Questa è Alison. Che è stata una delle più grandi alpiniste della storia. Ma prima di tutto era mia madre”. E allora il pubblico che applaude sembra quasi voler abbracciare Tom, per non lasciarlo solo, nel buio della sala. La storia di Alison si intreccia a quella di Tom, come rapporto tra madre e figlio, ma anche come fonte di ispirazione e come continuità nello stile e nelle scelte delle sfide. Tom racconta come l’idea delle 6 nord sia senz’altro stata ispirata dall’impresa della mamma (che le scalò sì da solo e in una sola stagione, ma in estate), ma come sia nata dentro di lui in maniera del tutto spontanea. Sembra quasi un filo conduttore a legare le due imprese a distanza di 22 anni.

Tom su Matador - M11
Tom su Matador – M11

Tuttavia “Starlight and storm” è un progetto diverso, classico nell’ideazione ma moderno per stile e realizzazione. Nonostante sia stato molto veloce in alcune occasioni (soprattutto sulla Nord del Cervino e sulle Jorasses, con tempi di poco superiori ai primati stabiliti negli ultimi anni) Tom ha soprattutto atteso i momenti e studiato delle condizioni. Anche tornando indietro, umanamente vorremmo dire, quando non è riuscito a trovare la giusta concentrazione (sul Dru, approcciato due volte) o addirittura in alcuni casi azzardando la salita in assetto iper-leggero (come sulla Grande di Lavaredo, dove invece è stato costretto ad un imprevisto bivacco in discesa, e senza materiale). Per chi ha potuto assaggiare le “Sei mitiche” la domanda è quasi d’obbligo.

“Quale via di queste, Tom, ti è sembrata la più difficile? Quella che ha richiesto maggiore impegno, tecnica, concentrazione?”

“Difficile a dirsi. Ma ero partito da sempre con l’idea che la Cassin fosse quella più impegnativa. In effetti è una via particolare, svolgendosi su una parete molto inclinata e formata da grandi placche dove più facilmente la neve si incolla e persiste nell’inverno. Tra l’altro di questa via la prima invernale solitaria risale solo a pochi anni fa. E ce n’è stata solo una! Per questo mi ero fatto l’idea che il momento migliore per salirla fosse proprio l’inizio dell’inverno. Ho azzeccato le condizioni, ma nel complesso la via presenta una grande varietà di passaggi ed è dura trovare tutto in buone condizioni. Ho bivaccato all’altezza del secondo bivacco Cassin, i passaggi che ho trovato sono stati di tutti i tipi, fino ad M7, mentre la parte finale che mi aspettavo più dura è stata sorprendentemente scorrevole. La via più difficile in assoluto è comunque la Comici in Lavaredo, almeno per il grado e la continuità dei tiri. Conoscevo la via, come anche la Cassin, però arrampicare con il freddo quei tiri è un’altra cosa. Le condizioni erano però eccellenti, molto secco e pulito, a parte i diedri terminali (ho seguito la variante Costantini, infatti nella parte finale). Poi mi è toccato passare la notte, la più lunga dell’anno!, sotto un piccolo strapiombo e senza materiale in discesa”.

Tom arrampica prevalentemente da solo. Non è un gesto di asocialità o di affermazione di uno stile particolare. Sembra semplicemente che Tom sia “abituato” a questa dimensione che gli permette una certa intimità con la montagna. Tuttavia non disdegna affatto la compagnia, come dimostra ad esempio l’apertura di una via come “Baptism of Fire” sulla Est del Catinaccio con Stefania Pederiva, a dimostrazione della ecletticità di Tom capace di passare indifferentemente dal dry alle aperture su roccia (anche in inverno, in questo caso) e su pareti classiche.

È molto piacevole arrampicare in cordata” – dice – “perché si provano sensazioni diverse. La corda non è soltanto un elemento fisico ma anche morale. Percepisci il senso della cordata, che è una cosa molto bella, perché ti permette di condividere le sensazioni e provarne delle nuove”. Nuovamente torniamo su Starlight and Storm. Da buoni “classicisti”, alla fine, siamo ancora affascinanti dai racconti sul “Ragno” dell’Eiger o sulle placche scistose della Schmidt più che soffermarci sulle ultimi disquiszioni sulle gradazioni o particolari ipertecnici. Anche se queste oggi non sono più vie di “copertina” riescono ancora a stregare gli occhi degli alpinisti. La conversazione a questo punto diventa estremamente naturale, come chiacchierare con una birra in mano (in fondo è proprio quello che stiamo facendo!) o alla fine di una giornata di arrampicata delle vie che abbiamo fatto.

“La Nord del Dru mi ha impressionato particolarmente. È una via molto tecnica, con tanti tipi di terreno diversi. All’inizio dopo un tratto misto mi è toccato risalire un camino  (io odio i camini!) che mi ha stancato particolarmente soprattutto con lo zaino e le corde in spalla. Comunque sono stato abbastanza veloce li ma stavo tirando troppo e ho dovuto impormi di procedere con più calma”.

La Nord del Dru è in effetti una delle salite più trascurate e meno considerate del “circolo magico” delle mitiche. Ma Allain quella volta fece qualcosa di eccezionale considerando i tempi. Non deve stupire del resto. Allain era un precursore, già arrampicava con l’ottica della libera e applicarla a quella parete repulsiva è stato notevole per l’epoca. È una via d’avventura, forse discontinua ma in ambiente davvero severo, che fa da contraltare ai colori fiammeggianti della Ovest. O di quel che ne rimane.

“Ma Tom, ci sarà una via in cui invece ti sei proprio divertito!”

“Direi la Colton, senz’altro. Ero arrivato sotto la parete per scalare il Croz, proprio come mia madre. Quando lei lo salì era nota come una via di roccia, ma lei lo scalò applicando per la prima volta la tecnica dell’arrampicata su misto”. Come reinventare una via, penso subito. “Solo che quella mattina, sotto le Jorasses, la linea della Colton-McIntyre era in condizioni perfette. Sembrava dire: Scalami! È una salita perfetta, di assoluto divertimento per me. Per buona parte si sale questa linea di neve-ghiaccio per quasi 1000 metri. Ripetendo i movimenti con un ritmo costante che ti permette di andare molto veloce. Solo la parte superiore è più tecnica dove si avvicina al Walker. Ecco lì mi sono proprio divertito.”

In definitiva, cosa trovi nelle linee classiche che ti affascina più del resto?

“Perchè sono belle vie! Credo sia il fatto che queste vie seguano essenzialmente logiche naturali. E per questo stesso motivo sono eleganti. Se le guardi bene, se osservi dove passano, queste linee sono anche molto estetiche. La direttiva più logica per la vetta”.

Questa confessione di Tom mi piace particolarmente. Non tanto perché ridona una certa “nobiltà” a quelle salite che oggi pensiamo superate, ma anche perché ripropone una filosofia (riassunta in maniera celebre da Detassis) del “cercare il facile nel difficile” che nasconde in sé una eleganza intrinseca e forse sottovalutata. Una via come la Schmid al Cervino, ad esempio, pur “svalutata” negli anni dalle direttissime (Bonatti in primis, ma anche Gogna e Cerruti) mantiene ancora oggi un notevole fascino. Quello di addentrarsi in una parete repulsiva dal suo indizio naturale. Ed è questo che ancora oggi cattura il cuore degli alpinisti.

La folla è seduta, ormai credo si inizi. Tom mi guarda perplesso. Forse tocca a me motivarlo.

E comunque vai tranquillo! La gente è qui per te e qualunque cosa tu dica o faccia saranno comunque contenti. Saranno felicissimi di conoscerti. Fai conto di aver già vinto!”

Sorride, le luci si affievoliscono, Marco dall’altra parte della sala ci fa cenno che si inizia. Lo guardo prima che scappi a raggiungere la postazione, ci lasciamo con un cenno d’intesa. E tutto sommato capisco che siamo su una stessa lunghezza d’onda e fa quasi tenerezza vederlo mentre inizia a parlare.

Così semplicemente, come uno di noi. Un ragazzo.

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