Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Un autunno estivo

di Saverio D’Eredità

L’autunno è quella stagione dei boschi che cambiano colore, del foliage, delle giornate più corte ma non proprio cortissime, che fa fresco la mattina ma poi a mezzogiorno si sta da dio. L’autunno è quella stagione che, in montagna, è bellissima, si sa. Quella che se “potessi le ferie le farei solo in autunno” e si fanno le cime panoramiche che l’aria è più secca e si arrampica al sole su quelle vie non tanto lunghe, anzi corte, però non cortissime insomma quelle che vie che normalmente quando sei nel trip nemmeno consideri, ma sono pure belline.

L’autunno è quella stagione che forse meglio dire era. Perchè sto sudando come una capra (non so se le capre sudino, ma puzzo, si, di capra o sarà che sto salendo lungo le palline di escrementi caprini) e mi faccio largo tra erbe che saranno alte fino al ginocchio e dopo un po’di reticenza ho capito che o mi ci ficcavo dentro o sta parete ce la potevamo scordare.

Stefano Salvador sul primo tiro di Stelle Filanti – foto S.D’Eredità

L’autunno è quella stagione che era, perché un po’sarà che siamo arrugginiti noi, sarà che di vie ne abbiamo fatte un po’ – mica tutte – e quindi iniziano a scarseggiare le idee e ci muoviamo confusi, ma oggi pare estate – che dico – agosto pieno e ‘sta placca pare uno specchio incandescente. L’autunno c’erano i colori, un po’ci sono eh, ma non quelli che ricordavo. L’erba che tappezza anche le rigole di pietra, prospera nei terrazzini, avanza ovunque è verde e non risente di alcun cambio di stagione. Nell’aria fluttua la foschia che appartiene ad altri mesi e la bocca è secca ed impastata, ma non per le difficoltà che in fondo oggi abbiamo accuratamente evitato. Sento bisogno di una birra grande.

Insomma l’autunno c’era una volta e con esso anche un momento dell’anno che ritengo essenziale per sistemare le idee, assorbire esperienze e guardare al futuro. Dall’alto della sosta posta sull’unica fascia verticale della placconata osservo le venature scolpite nella pietra che danno il nome alla via “Stelle Filanti”. Eppure oggi – sarà ‘sta sete, sarà questa specie di ansia climatica che mi sta salendo – mi paiono più ruscelli di pietra, memorie di tempi che presto dimenticheremo. Se osservo da vicino la pietra (cosa che oggi posso anche permettermi mentre faccio finta di piazzare un friend) posso quasi sentire il movimento dell’acqua nel calcare, percepirne il gorgoglìo, il movimento verso il basso in obbedienza all’unica legge inevitabile, quella della gravità.

C’era l’autunno e quella stagione lì, oggi non so nemmeno se ci sarà ancora. Scaliamo in autunno estivo, confusi e spiazzati, eppure incantati da questa scultura di roccia che vorrei non finisse mai e continuasse altri 10 tiri almeno e verso non so dove, cercando di dimenticare qualcosa che non c’è.

Sul tiro “chiave” di Stelle Filanti

Placche del Coston di Stella (gruppo del Coglians)

Stelle Filanti (Pezzolato-Gojak,2005)

Difficoltà: prevalentemente IV, 1 p.V+, 1 p.VI

Lunghezza: 200 mt

Itinerario 175 della Guida Alpi Carniche Occ.li (D’Eredità-Zorzi)

Un luogo minore e appartato nel vasto ed articolato versante sud del Coglians, dove vaste fasce rocciose si alternano a conche pensili e boschi abbarbicati, sotto la muta presenza del “Tetto del Friuli”. Secondarie rispetto all’esplorazione alpinistica, son state “evidenziate” da De Rovere prima, da Paolo Pezzolato e Sara Gojak poi, infine ancora frequentate da locali quale Alex Corrò in tempi recenti. Qui nessuna vetta particolare (se si eccettua la policroma sagoma della Torre di Coston Stella), ma un ambiente che si direbbe arcadico. La grande placconata è unica nel suo genere, solcata da una miriade di rigole che hanno creato intarsi particolarissimi e caratteristici: lungo queste l’arrampicata scorre fluida (un solo salto, leggermente strapiombante, impone impegno) ma tecnica e in pura aderenza. Ideale per le cosidette “mezze stagioni” o comunque quando non si cerca particolare ingaggio e una comoda logistica. Via comunque alpinistica nonostante la rassicurante presenza di spit sui passi impegnativi.

Questione di stile – per un’estetica delle classiche

di Saverio D’Eredità

A cosa pensiamo, esattamente, quando pensiamo a un “classico”? É una domanda che mi pongo spesso e che mi è tornata in mente una mattina ascoltando alla radio gli accordi di uno dei riff di chitarra più famosi della storia, ovvero l’attacco di “I can’t get no (satisfaction)” dei Rolling Stones. Quante volte avrò ascoltato questo pezzo? Se avessimo un contatore personale delle riproduzioni sicuramente supererebbe quota mille. Eppure anche quella mattina, alla radio, non ho girato stazione. Perché il riff di Keith Richards, nonostante le migliaia di riproduzioni è ancora qualcosa che alla radio si impone e ti dice “ehi, amico, non cambiare, senti un po’ qua”. Per dio, sta canzone ha 56 anni e ancora la ascoltiamo dicendoci “bè, non c’è che dire, proprio un bel pezzo”! Ecco, forse, un buon modo per definire un “classico”: qualcosa che nonostante il tempo, l’usura, la ripetizione riesce a risultare ancora “fresco”. Come se fosse fatto di una qualche materia inossidabile e resistente. Destinato ad essere sempre attuale.

Quando si parla di “classiche” nello scialpinismo, talvolta c’è la tendenza a snobbarle o darle per scontate: quasi che una salita (e discesa) perdesse di interesse per il solo fatto di rispondere a canoni di bellezza universali o di esser stata percorsa migliaia di volte. In altre parole, quasi sapesse “di vecchio”. Eppure la linearità di un percorso, l’esposizione, la morfologia e il contesto sono tutti ingredienti che fanno dell’esperienza dello sci qualcosa di diverso da una semplice gita. A ciò si unisce anche l’appartenenza ad una sorta di patrimonio collettivo di esperienze ed emozioni in cui tutti ci riconosciamo. Sulle classiche è normale non essere da soli, è vero, ma è raro che questo possa veramente rovinarne la bellezza. Un classico è qualcosa che va al di là dell’essere “primi” o essere “di moda”, perché ciò che conta è più l’esperienza complessiva della montagna che la competizione con qualcosa o qualcuno. Insomma, anche se classico in senso stretto è ciò che riguarda la “parte migliore” di una certa categoria, finisce per diventare qualcosa di molto democratico nella realtà.

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