Nel giardino della Sfinge

di Saverio D’Eredità

Prologo

Lo zapping dopo mezzanotte può sempre rivelare delle piacevoli sorprese di fine giornata. Me lo concedo ogni tanto, a cercare uno spunto prima di rassegnarmi al sonno, magari un quesito insoluto con il quale rimuginare nella fase di dormiveglia. Bisognerebbe sempre andare a dormire con un dubbio, qualcosa di incompleto, per dare senso alla giornata.

Poco prima di arrendermi definitivamente al vuoto del palinsesto mi imbatto in documentario su Lou Reed. Interessante, penso. Le cose interessanti le piazzano sempre in sesta serata. Come se la gente non fosse in grado di capire certe cose. L’imbarbarimento comincia senz’altro dall’alto.

Lou Reed è sempre stato un maestro oscuro e silenzioso. Ne possiedo una discreta discografia e puntualmente negli anni ha accompagnato lunghi tragitti in auto come certi momenti di transizione. Non è musica da hit, questo si sa. Non ha il passo epico di gruppi coevi e forse proprio per questo affascina. È un bardo umile ed introverso, uno che ti dice le cose non per farti piacere, ma perché così le vede lui. Uno capace di mettere nello stesso album la acida “European Son” con la ninna nanna di Sunday Morning (la canzone di ogni domenica mattina dopo una sbronza), e album come Metal Machine e Berlin.

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A Lou le mode non interessavano, nonostante avesse vissuto nel cuore dandy degli anni’70. Ci è passato attraverso, con quel cantato/parlato quasi ipnotico, che entra in testa da una porta di servizio e si siede accanto a te a bere del whiskey mentre tu cerchi ancora un posto dove passare la notte. Sicuramente una canzone di Lou deve essere presente nella compilation del mio funerale. Mentre componevo la colonna sonora del funerale pensando a cosa mettere dopo Perfect Day, il conduttore del documentario si soffermò su una definizione calzante

perché il rock, per Lou, non voleva dire solo comporre musica. Il rock è cercare strade insolite, strade scomode

Rimasi ancora qualche minuto in piedi finché mi accorsi che le ore di sonno si stavano assottigliando eccessivamente rispetto agli impegni del giorno successivo. E se non fosse questa una bella definizione per il nostro alpinismo senza gloria? Andai a dormire con un certo orgoglio per queste nostre scelte in controtendenza, ma senza il salutare dubbio che forse stavo facendo l’ennesima cazzata.

Qualche ora dopo io e Nicola assaggiavamo sulla nostra pelle la durezza delle “strade scomode” e ci rassegnavamo a buttare le doppie dopo appena venti metri di arrampicata vera e propria e un’ora e mezza di tentennamenti. La strada per la Hall of Fame è sempre lunga e non credo questo giorno sarò celebrato al famoso funerale al quale nel frattempo avevo aggiunto “Coney Island Baby” seguita da “The Great Beyond” dei R.E.M con Michael Stipe che mi confessa di spingere un elefante per le scale cercando risposte dal Grande Oltre.

Dopo esserci sorbiti uno zoccolo infame e decisamente senza gloria e avere constato che la “pietra è bella, ma non è che sia così appigliata e nemmeno proteggibile” e comunque non asciutta, la nostra giornata volgeva ad una rapida chiusura. Un attimo prima dell’equinozio coglievamo così un’altra batosta dopo quella del solstizio ed inframmezzata pure da quella di mezza estate.

Un camino, dei tanti
Un camino, dei tanti

Tre mesi fa, infatti, a parte invertite la scena si ripeteva sui compatti calcari del versante sloveno del Mangart dove per cercare una strada insolita si era creata una situazione che lo era altrettanto. Con le mani di legno e le punte delle scarpette insaponate di fanghiglia, avanzavo cautamente per una placca che doveva essere quinto e forse lo era anche, ma a me pareva la placca Messner anche perché come un genio avevo deciso di salire senza chiodi appresso, che più che essere imprudente secondo me porta più che altro sfiga. L’ultimo friend, ai piedi, era stato messo scavando con lo stesso friend nella terra con il risultato di avere una protezione oscena e la placca sporcata da me stesso. Direbbe Emiliano “come cagar in mano e buttar per terra!”

Quindi la scena seguente vedeva una platea di apprezzabili alpinisti che, come i gruppetti di genitori alle partite dei bambini, mi incitava dal basso con le mani in tasca, mentre Carlo mi faceva sicura invisibile a tutti dentro il buco del crepaccio. Questo finché non scattò il consueto l’impeto d’ira e minacciai che se non mi avessero mandato su i chiodi il martello l’avrei usato in altro modo. Si ripeté così la scena madre dell’alpinismo, già andata in onda sul Pilone Centrale tra Boninghton e Desmaison con Piussi guastatore, ma a differenza dei poco “fair” britannici decisi di chiodare selvaggiamente quei due metri di 8a alias “quinto grado” e lasciare tutto ai successivi immediati ripetitori.

Sarei stato orgoglioso del risultato se poi non avessimo buttato giù le corde dopo altro mezzo tiro al limite dell’harakiri dove anche Carlo valutò la propria vita decisamente più importante della ricerca della strada insolita. Questo alpinismo rock n’roll, riflettevo, dava ben poche soddisfazioni.

Oggi la magrissima soddisfazione è quella di ridiscendere l’infame zoccolo senza abbandonare materiale, anzi raccattando pure un chiodo buono. La Est della Cima Gjai rimaneva perciò una piccola bestia nera, nonostante la parete non fosse così male. Solo che era difficile raccontare che eravamo tornati indietro da un posto che nemmeno si sa dove sia. Eppure non me la presi quel giorno. E nemmeno quello prima sul Mangart.

Perché nel cercare queste strade scomode insolite e qualche volta pericolose, c’è tutto il senso di incertezza che sta ancora nel cuore di un certo alpinismo. Che non è sempre quello che apre vie, magari insinuandosi tra reticoli di linee  o che si può permettere due spedizioni all’anno.

Perché c’è un avventura quasi filologica, che sta nell’andare a ritrovare vecchie strade come si farebbe con una città perduta o mettendo il naso in cose nuove per capire se stiamo andando avanti, indietro o semplicemente da nessuna parte. Certo, in mezzo ci stanno pure parecchie doppie, soldi buttati nel cesso, solenni incazzature e sfanculamenti. Ma come dice un ragazzo ghanese che veste sempre con degli eleganti gilet anche in piena estate “Anche questo fa parte della vita”.

Così, mentre ciascuno cercava di scaricare certe colpe sull’altro o sul malocchio che ci perseguita impedendoci di portare a termine una via, riflettevo sul fatto che tutto ciò è in fondo parte di questa forma di alpinismo che ci siamo scelti, nostro malgrado. Per non essere abbastanza bravi da osare di più o troppo presuntuosi per accontentarci. O forse semplicemente per quel gusto della scoperta che si può interpretare in molte maniere diverse.

Un po’come una caccia al tesoro, diciamo. Perché l’avventura, alla fine, è tutto quello che ci permette di sfuggire all’omologazione.

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Riguardammo la parete seduti sui gradini già freddi del rifugio. La parete era sì bella, lo zoccolo non un mostro invincibile. Con le mani fatte di resina più che di magnesio, potremo forse ritornare.Forse buttando un’altra giornata. Di certo per fare un altro giro, sul lato selvaggio.

Eh, sì. Proprio come scelse di fare Lou, ci siamo fatti un giro dalla parte selvaggia. A raccogliere le storie che si nascondono dietro queste strade, dietro un chiodo arrugginito che può raccontarti paura o prudenza, dentro un ometto che sa sempre qual è il miglior modo per tornare a casa, dietro un’intuizione o un istinto di libertà.

Perché il lato selvaggio non deve essere necessariamente adrenalinico, estremo, spinto. Come ci insegnava il buon Lou il lato selvaggio era quello di passare attraverso la vita e farsi attraversare delle storie che passano. Con Holly, Candy e Little Joe e tutte le loro vite minime eppure preziose.

E così, camminando su questo lato selvaggio, quello che non leggerete mai dentro una relazione, abbiamo ritrovato come le briciole di Pollicino tanto piccole storie. E una è la nostra, che pian piano cercheremo di raccontare.

Continua…

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