Perchè i tempi stanno cambiando

di Nicola Narduzzi

“Your old road is
Rapidly agin’.
Please get out of the new one
If you can’t lend your hand
For the times they are a-changin’.”
“La vostra vecchia strada
Sta rapidamente invecchiando.
Per favore andate via dalla nuova
Se non potete dare una mano
Perché i tempi stanno cambiando.”

Così cantava negli anni ’60 un giovane un po’ ribelle e con i capelli scompigliati, sfidando
quell’America conformista e borghese figlia del secondo dopoguerra. Oggi, più di cinquant’anni più tardi, questo motivetto continua a frullarmi in testa da quando una foto pubblicata su un social network ha catturato la mia attenzione, svegliandomi dalla sonnolenza pomeridiana di una noiosa giornata di pioggia.
Ci sono riusciti ancora: il vecchio leone e il suo giovane apprendista hanno lasciato ancora una volta il segno sui monoliti incrostati di ghiaccio della Patagonia. Forse non dovrei usare aggettivi come “vecchio” o “giovane”, in fondo i due hanno sono un anno di differenza. Eppure in una terra estrema, sia geograficamente che climaticamente, come la Patagonia è come se un abisso di decennili separasse.


Il vecchio leone è Colin Haley, ormai un local a El Chaltèn. Uno che ha ridefinito il concetto di limite su queste montagne spesso spazzate dalle furiose tempeste che caratterizzano la punta estremo del Sudamerica. Un tipo da Fitz Roy in giornata da macchina a macchina, oppure da veloci concatenamenti in solitaria, tanto per intenderci.
Il giovane apprendista invece forse non ha bisogno di presentazioni. La sua foto sulla Thank God Ledge all’Half Dome è diventata in poco tempo una delle più classiche icone dell’arrampicata moderna, un po’ come la foto di Gullich in free solo su Separate Reality. Eppure in Patagonia anche un mostro sacro dell’arrampicata nella Valle come Alex Honnold torna ad essere un principiante.

Alex Honnold in cima all'Aguja de la Silla
Anzi, forse quasi un principiante. Perchè in fondo la mitica “Race for the Nose” o la Triple Crown (Mount Watkins, Half Dome, El Capitan) in un giorno, prima in cordata e poi da solo, non sono solo un modo per reinventare l’arrampicata in Yosemite ma sono anche, e soprattutto, un modo per conoscere le proprie potenzialità. Quindi è quasi sembrato normale che al suo primo viaggio dall’altra parte del mondo il grande Alex “No big deal” Honnold riuscisse assieme ad un altro mostro sacro, il Tommy Caldwell della Dawn Wall, dove fior fior di alpinisti esperti come Rolando Garibotti e lo stesso Haley avevano fallito: la traversata del massiccio del Fitz Roy. E per di più sminuendo gli articoli entusiasti dei mass media parlando di 5 giorni di “campeggio estremo”, come se stessero parlando di un’altra salita veloce di una big wall nella assolata valle californiana e non di
un estenuante concatenamento in ambiente alpino.
Grandi cose accadono quando una forza inarrestabile trova sul suo percorso qualcuno che la incanali verso una direzione precisa, e questo è quello che è successo, che sta ancora accadendo.
Cosa poteva succedere combinando l’esperienza decennale di Haley su queste cime con l’immenso livello tecnico di Honnold? I due, così tanto per aperitivo, si sono pappati la traversata integrale del gruppo del Torre in giornata. Roba da riscaldo, eppure solo dieci anni prima sembrava utopia ed era stato lo stesso Haley, in cordata con un altro veterano come Garibotti, a dimostrarne la fattibilità.

The wave effect direct in una foto del sito PATAclimb, bibbia della arrampicata in Patagonia
Anche se in pochi ci avrebbero creduto, non poteva risolversi così facilmente, con un singolo one day push, la vacanza a El Chaltèn di uno come Honnold. Neanche il tempo di lasciar digerire ai media e al “pubblico” la notizia ed ecco che il dream team l’ha fatto di nuovo, ha ancora una volta ridefinito lo standard dell’arrampicata patagonica scalando “The wave effect direct”, ovvero il secondo grande skyline del massiccio del Fitz Roy. Una linea ideale che congiunge i monoliti di granito dell’Aguja Desmochada, Agua de la Silla e lo stesso Fitz Roy con un’infinita arrampicata di quasi duemila metri di dislivello.
Eppure, forse neanche questo è davvero un limite per il magico duo, che in sole 17 ore si è mangiato questa linea di cresta, scalando oltretutto in libera tutte e tre le vie che la compongono, con difficoltà fino al 6c+. Ma in fondo i numeri non sono altro che un metro di paragone dei progressi, e la vera bellezza di queste realizzazioni sta nella leggerezza e velocità con cui vengono eseguite. Mi piace immaginare Haley e Honnold che passeggiano per le strade battute dal vento di El Chaltèn guardando l’orizzonte con lo stesso stupore di un bambino, per poi prendere lo zaino e andare dove gli occhi si sono posati. Su e giù per le montagne che coronano l’orizzonte, quasi non si
conoscesse gravità o attrito, ma solo l’inebriante sensazione dello scalare leggeri e veloci. Perchè leggero e veloce è bello, divertente, forte, ed è il futuro.
Spengo il pc, si è fatto tardi. Prima di spegnere la luce prendo dallo scaffale un vecchio libro. Parla della Patagonia degli anni ’60. Parla di tempeste feroci e avvicinamenti estenuanti, di salite contestate, sofferenza. Leggo parole come eroismo, battaglia, lotta, e non riesco più ad andare oltre.
Lo poso e spengo la luce, pensando nell’attimo prima di chiudere gli occhi che sì, “la vostra vecchia strada sta rapidamente invecchiando, perchè i tempi stanno cambiando”.

Colin Haley in discesa dalla cima del Cerro Torre. A sinistra, la mole del Fitz Roy copre con la sua mole le altre cime del collegamento

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