Sette anni: il Laila, il NOF e noi

di Saverio D’Eredità

Sette anni fa, il Laila Peak è entrato nelle nostre vite prendendo il posto della nostra innocenza. Non tanto perché fossimo più giovani e nemmeno perché fossimo così ingenui da pensare di essere immortali. Ma, questo è certo, qualcosa in noi è cambiato. Il giorno in cui il Laila è entrato, trasformandosi dal sogno della cima più bella alla cruda realtà di una notizia secca ed inappellabile, si è portato con sé anche una certa consapevolezza. Il giorno in cui abbiamo capito che Leo, il più bambino il più entusiasta di tutti, non sarebbe tornato ecco, forse quel giorno tutti siamo diventati un po’più grandi. Ma non meno innamorati.

Poteva finire tutto, e invece non è stato. Potevamo rimanere lì, attoniti come quando ricevetti il messaggio, sentire quella brezza leggera che sembrava soffiare sulle cose di colpo finire lasciando un vuoto, un silenzio, un non sapere cosa dire. Un mese dopo o poco più, ricordo bene, eravamo al Gilberti, sempre lì dove c’eravamo lasciati, pronti a riprendere il filo delle cose. Non come se nulla fosse stato, ma proprio perché qualcosa c’era stato. E toccava a noi alzarsi da quella pietra e andare avanti.

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Quello che mancava

di Saverio D’Eredità

Alcune cose, c’è da dire, sono cambiate in meglio.

Ad esempio la libreria è molto più in ordine. I volumi sono accostati per genere, colore e dimensione. Non li devo più cercare per casa, ora in bagno, ora sulla sedia della cucina, sul comodino o chissà dove perché letti, appoggiati, riaperti e lasciati. Le pagine delle guide sono meno consumate di prima e sanno di patinato, niente più foglietti sgualciti, reduci da appallottolamenti in tasche di giacche (e magari pure lavati), ma chissà perché non buttati. Niente riviste accumulate e fogli strappati con relazioni di vie in vattelapesca che chissà mai avrai tempo e voglia di andarci. Le odio, le biblioteche ordinate, comunque. Mi sanno così di finto. Di così poco amore.

Ad esempio passo molto meno tempo a consultare i siti meteo. Non è un’impressione, è proprio il rilevatore di benessere digitale dello smartphone a dirmelo. I siti meteo si trovano molto in giù nella cronologia, sostituiti da più seri quotidiani online e posta. Meno ore passate a capire i modelli, incrociare i dati, fare congetture e piani a, b o c. Il meteo è un’idea più vaga, meno ansiogena e piuttosto occasionale. Sempre più spesso in questi ultimi tempi mi sono alzato la mattina, ho guardato il cielo e deciso se mi andava o meno di fare qualcosa. Mi preoccupa semmai il fatto che il tempo sia sempre uguale da mesi, ma quella è un’altra storia che ci riguarda molto da vicino anche se non sembra.

Di sicuro c’è che i programmi sono diventati più semplici. Niente contorsionismi per incastrare occasioni di socialità, impegni familiari, pranzi cene o peggio brunch (no, ecco, i brunch teneteveli proprio che manco la parola, sopporto). Meno corse in auto, meno farfugliamenti sulle mete, più disponibilità. Forse persino più serenità.

Eppure, nonostante tutto, qualcosa mancava.

Carlo Piovan sulla seconda parte della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Arrampicare non è (o era) “tutta” la mia vita. E’ tanto facile incappare in questa trappola, quanto difficile poi è uscirne. Mi sono sempre tenuto alla larga da questa totale immedesimazione, se non altro come forma di prudenza, del tipo che non si sa mai. Che se poi qualcosa va storto, della tua vita, che ne è? No, non è tutta la vita. Ma una parte di essa sì. Ed una parte è pur sempre qualcosa che consideri tuo. Che se manca, ecco, se manca te ne accorgi. Non puoi fare finta di niente. Non puoi mentire a te stesso.

Funziona così con le passioni, le passioni vere intendo. Che non saranno poi tutta la tua vita, è vero, ma se non ci sono ti rimane addosso la sensazione di qualcosa che manca. Un pensiero strisciante, insistente, simile a certi pensieri di ogni giorno (avrò chiuso la macchina? Ho le chiavi di casa?) che quando vai in giro ti senti un po’nudo e un po’ incompleto. Come uscire in ciabatte.

Cosa era che mancava quindi? La consultazione del meteo, delle guide o di un programma? Niente di tutto questo e tutto questo insieme.

Carlo Piovan all’uscita della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Le mie cartine topografiche, ad esempio. Ho passato più tempo su quei fogli colorati della tabacco – consumare dita e occhi su linee di sentieri rossi o neri, calcolare curve di livello o semplicemente ammirare affascinato le gradazioni di colori ed immaginare forme – che non su molti libri di scuola. Erano tutta la tua vita? No, certo. Ma erano parte di essa.  Era qualcosa di tuo.

Osservo Federico prenderle ogni tanto dal cassetto e aprirle sul pavimento. Mi chiede dove siamo e io gli dico “lì” anche se è una vallata dolomitica a caso. Mi chiede se quella è la nostra montagna e dove è il fiume. Credo che lui, come me, non veda tanto una cartina e dei colori. Quanto delle possibilità. Ciò che noi possiamo fare di noi stessi.

Sarà per questo che si dice “ho fatto” una via e non ho scalato? Che senso ha il fare di un qualcosa che semplicemente ti limiti a percorrere? Me lo sono sempre chiesto.

Quello che mancava più di tutto erano gli ultimi metri prima dell’uscita. Quelli che sono più belli perchè sempre più facili, che senti odore di cima, di aria che cambia, di luci diverse. Percorrendoli, quella mancanza mi è sembrata chiara. Quello che mancava è la capacità di rendere ciò che si è immaginato reale. Mano su mano, piede su piede, “creare” quindi “fare” o sarebbe meglio dire “fare sé stessi”. Ed era questo quello che mancava.

Quello che mancava era la inspiegabile leggerezza che ti accompagna poi, per ore, giorni, forse settimane. Come di un peso tolto dalla bocca dello stomaco che ti fa improvvisare respirare, come prima mai. Che ti fa sembrare tutto di nuovo aperto, possibile. Come Federico che guarda le cartine e mi chiede dove andiamo domani.

In questo periodo dell’anno, puntualmente, nella mia playlist ricompare October, che ascolto quasi fosse una ricorrenza. I giri semplici, incalzanti, di basso e batteria, rimandano luci e aspre e intense come quelle di certi autunni di fuoco. Erano due anni, quasi, che non lo ascoltavo. Quello che mancava forse allora era ascoltare October nella luce che si assottiglia sulle montagne del ritorno, la batteria di Larry Mullen jr al minuto 2.41 di Rejoice e pensare che sì, ancora tutto è possibile, c’è ancora tutto un mondo da immaginare ancora.

Traverso sulla via “Like a Vergin” – Media Vergine (Alpi Giulie) – foto E.Zorzi

Annozero (sul Nevee Outdoor Festival e altre cose)

di Saverio D’Eredità

“Che vergogna, sarà mica accoglienza questa! Tovagliette di carta e nemmeno una carta dei vini!”

“Ci siamo persi, i segnavia erano sbiaditi e non mi prendeva il GPS!”

“Quella ferrata è pericolosa: c’è un tratto in cui il cavo è allentato e nessuno ha messo un cartello. Andrebbe chiusa!”

“Nel programma era previsto di arrivare in cima alle ore 12 e invece non l’abbiamo nemmeno vista!”

Avete già sentito commenti come questi? Non è raro intercettarli in qualche bar di fondovalle o fuori dai rifugi. Senza parlare delle pagine dei social. Forse alcuni vi sembrano esagerati, ma non siamo poi tanto lontani dalla realtà. E la realtà è che – ci piaccia o meno – tutto quello che gravita attorno alla montagna è né più né meno che un prodotto di mercato. Che sottostà a regole di marketing più che meteorologiche. Dove le condizioni naturali sono sostituite dall’offerta. Dove si fruisce e non si vive.

Potrebbe sembrare la solita lamentala di un nostalgico amante di un’arcadia ormai perduta (e forse mai esistita). Ma credo che tante volte il liquidare così ogni tipo di riflessione sia solo un modo per eludere il problema. Problema di cui siamo tutti parte: prima ancora che come “appassionati” (tralasciando le definizioni o meglio “nicchie” per usare ancora una volta un termine economico), sicuramente come cittadini per non dire consumatori. Perché quello siamo. Consumatori del prodotto montagna, con tutto il corollario che va dall’ultimo aggiornamento tecnologico che ci portiamo dietro all’abbigliamento, dall’attrezzatura tecnica ad un determinato “stile” che adottiamo (o compriamo?) per sentirci in quel contesto, in quel momento, inseriti, accettati per non dire apprezzati. E che altro non è che conformismo.

Credo sia questo il punto: non tanto demonizzare il risvolto economico del turismo (ricordandoci che la prima forma di turismo alpino fu proprio l’alpinismo dei benestanti inglesi nell ‘800), né per contro, inneggiare ad una non meglio definita libertà che si tramuta in sterile anarchia. Il punto è aver pian piano fatto sfumare il senso profondo della montagna (anzitutto per quello che è, ovvero spazio naturale) fino a farlo diventare del tutto secondario rispetto al “prodotto montagna”.

Ne avevamo già parlato su questa pagina quando, nella surreale primavera del 2020 si era posto il problema della agibilità dei rifugi (e persino della percorribilità dei sentieri!) in pandemia. Ma di quel dibattito ricordo soprattutto l’incredibile spostamento del discorso da un tema di “sicurezza sanitaria” ad uno di “qualità dei servizi”. Come se un rifugio fosse un resort che doveva “garantire” uno “standard”.

Se ci pensate non è tanto diverso dal dibattito odierno. All’indomani del cataclisma (perché quello è stato) della Marmolada, il dibattito mediatico ha deviato la sua traiettoria da una urgente riflessione sugli effetti del cambiamento climatico (ovvero la causa), per concentrarsi sulla regolamentazione delle attività che si svolgono in quota, quasi fosse quello il problema. E al di là della deprecabile morbosità quando si conta la perdita di vite umana, la conclusione è stata che bisogna in qualche maniera “porre dei limiti”. Insomma, se del caso, vietare. E così mentre ci lamentiamo che mancano i cartelli o il rifugio non propone un adeguato menu, un giorno ci alzeremo e scopriremo che in montagna potremo andarci solo sulla base di un’autorizzazione emessa da qualcuno al quale avremo delegato la nostra capacità di scelta. E magari ci starà anche bene, nel frattempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Nevee Outdoor Festival? Dopo due anni di stop forzato e con il rischio di perdere quell’atmosfera festosa (e la voglia di ricrearla) che aveva caratterizzato un’occasione del genere, quest’anno il NOF riparte. Dalle origini. Da quella che era la grande festa pensata da Leo (e per Leo) come un raduno di ragazze, ragazzi, bambini e adulti accumunati da quelle passioni in cui la Natura è parte integrante.

Il NOF di quest’anno si libera di programmi, percorsi segnati, tabelle e appuntamenti. Un unico, grande raduno di due giorni il cui cuore pulsante è il Rifugio Gilberti. A parte le attività organizzate per i bambini (da sempre elemento distintivo di questo ritrovo), il resto si svolgerà a schema libero. Avete un crash pad? Portatelo su, cercatevi un masso, massacratevi i polpastrelli per risolvere un blocco! Vi piace camminare? C’è un pianeta Canin da scoprire, vi basta un passo per entrare nel Parco Prealpi Giulie. Amate le vie a più tiri? Credo che in Giulie e forse nelle Alpi orientali non esista roccia come quella del Bila Pec. Ci sono inghiottitoi per chi vuole esplorare gli abissi, linee di slack da tirare, manca solo la neve quest’anno, ma speriamo si sia solo presa una pausa.

Cosa c’entra quindi il NOF? Il NOF vive un nuovo annozero, in cui ripensare tutto di nuovo. Che nel suo piccolo lancia un messaggio: viviamo la montagna per quello che è. Viviamo la Natura indipendentemente da una tabella, un programma, un pacchetto. Non facciamoci imboccare, incasellare, guidare. Se rinunciamo a questa autonomia, il cui altro lato è la responsabilità delle nostre azioni, avremo rinunciato – e per davvero – alla libertà. E non quella vuota, svogliata, libertà “di fare quello che voglio”, ma la libertà del prendersi cura di noi stessi, degli altri, dell’ambiente. Una libertà piena e consapevole.

Dipende da noi, ora più che mai.

Note: il NOF 2022 si terrà il 23 e 24 luglio a Sella Nevea. Le attività organizzate e guidate saranno dedicate esclusivamente ai bambini (under15), quali arrampicata, speleologia e slack line e partiranno dalla mattina di sabato (ore 10) al tardo pomeriggio (ore 17), analogamente la domenica. Il resto a schema libero, nella meravigliosa cornice della conca Prevala.

Info sul NOF al sito e sulla pagina Facebook

http://www.neveeoutdoorfestival.com/ https://www.facebook.com/NeveeOutdoorFestival

La Dinamica

Rimozione. Colpevolezza. O consapevolezza? Sono queste le domande che sorgono quando apriamo il libro nero degli incidenti in montagna. Quello che non vorremmo sfogliare mai. Eppure sappiamo bene come quelle pagine, per quanto dolorose, siano in realtà la chiave per comprendere meglio e aiutarci a decidere e valutare le nostre azioni.

L’alpinismo, lo scialpinismo, l’escursionismo e l’arrampicata sono attività di natura pericolose in quanto ci espongono ai rischi (oggettivi della montagna e della natura) e soggettivi (delle nostre azioni ed omissioni). Ma sono anche attività che arricchiscono di conoscenza come poche. Diceva Massimo Mila che l’alpinismo è una forma di conoscenza superiore in quanto prevede sia la teoresi che l’azione. Peccato che una volta a casa raramente ripensiamo a cosa abbiamo fatto e se l’abbiamo fatto bene. Affidarsi alla fortuna come elemento di riduzione del rischio non è un’idea saggia, tanto come pensare di esser esenti da rischi solo perché facciamo le cose “in sicurezza”. Cosa vuol dire sicurezza? E’ un protocollo codificato o forse la somma di esperienze pratiche sul campo, razionalizzate ed analizzate?

La verità, scomoda, è che non ci piace aprire quel libro. E che quando “succede” l’istinto sia quello di rimuovere i traumi per andare avanti. E’umano. Ma non ci fa evolvere in quella conoscenza che dovrebbe essere parte integrante dell’esperienza. Così facendo lasciamo il campo alla colpevolezza (chi si fa male, si sa, ha sempre torto per l’opinione pubblica), che ci amareggia quando tocca leggere i soliti commenti pressapocchisti e superficiali di chi quella conoscenza non ce l’ha e si permette di giudicare. Finita l’era (o quasi) della montagna assassina intrisa di retorica, la società securitaria odierna reagisce agli incidenti (siano essi fatali o no) con un miscuglio di moralità e contabilità. Moralità quando si tratta di giudicare come “stupide” queste attività (salvo poi essere elogiate e reclamizzate quando si fa marketing dell’outdoor…) e contabilità quando il tutto si riduce ad una nota spese degli interventi di soccorso (come se il soccorso stesso non fosse espressione della solidarietà naturale non solo di chi frequenta la montagna ma degli esseri umani!). Ecco quindi che la risposta non può che venire dalla consapevolezza. Di ciò che accade, di come accade e di come possiamo migliorare. Sapendo che l’imponderabile esiste e può fare male. Che il rischio non si azzera, ma solo si riduce. Che il bello, se volete, di ciò che viviamo in quei giorni in montagna è proprio imparare, esplorando spazi interiori di consapevolezza.

Il progetto di Fabio Gava, “La Dinamica” è una novità in questa pagina così poco approfondita delle attività in montagna. Sono storie di incidenti di arrampicata, alpinismo, scialpinismo e canyoning, raccontate direttamente dai protagonisti e condivise per contribuire ad aumentare la sicurezza in montagna.

La formula è quella del podcast ed è una risposta per chi crede che sia necessario sviluppare, tra i frequentatori della montagna, una cultura che faccia sentire le persone libere di rendere pubbliche le proprie esperienze negative senza essere giudicate, colpevolizzate o umiliate. Lo scopo di questo podcast è di ridurre il numero di futuri incidenti in montagna, attraverso i racconti degli incidenti passati.

L’ideatore del progetto è disponibile ad essere contattato da chiunque voglia raccontare la propria esperienza. Ascoltate le prime uscite. Si parla di incidente in arrampicata o sci, direttamente da chi li ha vissuti e può riportarli, e soprattutto da semplici appassionati “della domenica”.

Sito web: http://www.ladinamicapodcast.it

Instagram & Facebook: @ladinamicapodcast

Link agli episodi su Spotify:

https://open.spotify.com/show/01y8ShLjhHqNmtBZXg2LSo

(il podcast è disponibile anche su tutte le principali piattaforme di podcasting, quali Apple Podcast, Google Podcast e Amazon Music)

The Julian connection – scalate in letargo

di Emiliano Zorzi

A quanto pare l’inverno bussa alle porte e quindi la scalata su roccia si avvia al letargo, specialmente quella rivolta a nord. Dato il luogo in cui sono nate, profondamente giulio, e la connessione di eventi che hanno portato alla loro gestazione e svezzamento, No Pellarini – no patry e Pari o dispari, ormai attenderanno il disgelo 2022 per poter conoscere il mondo.

L’estate 2020 ne ha visto la nascita, l’estate 2021 le prime scalate da parte dei genitori e qualche sporadica visita di amici, parenti e aficionados; per quella del 2022 potranno camminare con le loro gambe…o meglio, far muovere le gambe dei futuri ripetitori che apprezzino le loro fattezze, ovvero:

  • camminata di due orette circa in ambienti solitari e idilliaco-severi allo stesso tempo;
  • scalata su quel caratteristico calcare duro e arcigno delle pareti ombrose giuliane;
  • presenza di bel tempo (possibilmente caldo) stabile data la lunghezza delle vie e delle discese.

Insomma un assaggio in chiave sportiva delle nord nostrane.

Nello specifico qualche notizia:

Quinta Rondine mt.1848 – No Pellarini, no party

380 m, 7a (obbl. 6b), 15 lunghezze

Relazione qui: http://quartogrado.com/friuli/Fuart/Quinta%20Rondine_No%20Pellarini%20no%20party.htm

Si sviluppa sulla parete a forma di pala, rivolta a nord-ovest, della Quinta Rondine. Queste rocce, ben visibili da tutta la Saisera, sovrastano il morbido ambiente boscoso e prativo della Sella Prasnig. Pur in questo quadro ameno, la scalata è a tratti arcigna, anche se sempre protetta sistematicamente a fix. Nei 15 tiri entra un po’ di tutto: lunghezze verticali-strapiombanti fisiche su roccia ottima, tratti di media difficoltà su simil-placca, qualche tratto molto facile su terreno sporco e/o friabile come tipico condimento del posto.

La via è stata conclusa in extremis pre-inverno nel novembre 2020, prima scalata a fine giugno 2021 (G. Barnabà, E. Zorzi, U Iavazzo), a cui sono seguite un paio di altre scalate di cui abbiamo notizia. Dopo la conclusione della via è stata individuata, sull’altro versante, una discesa “normale” (terreno selvaggio ma max. I e II) attrezzata con qualche sosta di calata e taglio di mughi, in modo da evitare una lunghissima serie di doppie lungo la via di salita.

Per circa 10 metri, la via incrocia Caccia al tesoro di Roberto Mazzilis e Lisa Maraldo. Un ringraziamento a Roberto che ci ha permesso di mettere due fix sulla sua via, per non creare un “buco” troppo lungo fra le protezioni di No Pellarini, no party.

Il nome deriva dalla festa di compleanno a sorpresa organizzata da benemeriti amici durante il soggiorno al rifugio.

Quinta Rondine – Nono tiro di “No Pellarini no party” – foto Archivio E.Zorzi

Cresta Berdo , Pilastro Gloria (top.proposto) mt 2076 Pari o dispari

350 m, 6c (obbl. 6b), 12 lunghezze

Relazione http://quartogrado.com/friuli/Montasio/Cresta%20Berdo_Pilastro%20Gloria_Pari%20o%20dispari.htm

Si svolge a cavallo del netto spigolo dello sperone che scende dalla Cresta Berdo verso il grandioso circo sottostante la parete nord del Montasio-Cima Verde. L’idea è nata a seguito della ripetizione di una via vicina (O là o rompi), alla vista dello spettacolare spigolo tagliamare, simile alla scura pinna di squalo. Per una mera casualità, le lunghezze dispari sono quelle caratterizzate da una scalata tecnicamente più impegnativa e “sportiva” su roccia ottima; quelle pari sono invece più adatte allo scalatore “classico”. Date le difficoltà inferiori su roccia sempre buona e ripulita ma che necessita di un po’ più di occhio.

La via è stata conclusa nell’agosto 2020; la prima salita (R. Geromet, E. Zorzi, M. Buzzinelli) è dell’agosto 2021 a cui sono seguite alcune altre ripetizioni note. Curiosamente (considerando che il luogo è molto isolato, lontano da sentieri battuti), qualcuno aveva già tentato la scalata della via prima della sua pubblicazione. Abbiamo rinvenuto una maglia rapida di calata verso la fine del quinto tiro. Lì il destino beffardo (per gli aspiranti ripetitori) ha voluto che la sosta si trovi nascosta alla vista a destra oltre uno spigoletto, mentre dritti sulla parete ci sono due tasselli senza piastrina (di un nostro tentativo abortito) che devono avere ingannato gli ignoti-ignari scalatori. Ora, post-letargo inverno 2021 e svezzamento, gli aspiranti potranno avere più fortuna.

Sul nono tiro di “Pari o Dispari” alla Cresta Berdo – foto Archivio E.Zorzi

Like a Virgin – Notizie e ringraziamenti dal Vallone di Riofreddo

di Emiliano Zorzi

Come d’uso per il blog, Sav mi ha chiesto un breve testo-storia per accompagnare la notizia dell’apertura di “Like a virgin”, sulla solare faccia sud-est della Media Vergine. Data la pigrizia e il fatto che mettersi a raccontare si va a finire a dire sempre le stesse cose, butto giù semplicemente una serie di ringraziamenti e incoerenti notizie sulla via e dintorni.

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Ritorno al Futuro – arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo

di Saverio D’Eredità

Trad, tred…o cosa?

Si chiama “Trad” si legge “Tred”, ma gli alpinisti di un tempo mi direbbero “alla vecchia”! Sono poi così importanti le definizioni e le etichette quando si fa qualcosa, soprattutto quando lo si fa per passione e un pizzico d’amore? Del resto, un vecchio trucco del marketing è proprio quello di cambiare nomi alle cose per farle sembrare nuove. Ma noi, che esercitiamo sempre e comunque il libero pensiero, non ci faremo trarre in inganno. Parlare di arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo come fosse qualcosa di nuovo, in effetti, è solo una mezza verità. Perché tutto sommato qui la storia era iniziata proprio così. Con un pugno di dadi (all’epoca si trattava soprattutto dei mitici “eccentrici” oggi quasi del tutto scomparsi dall’argenteria alpinistica, anche se le fessure carniche li apprezzerebbero ancora…), un po’di sana follia e tanto pelo sullo stomaco. Oggi lo chiamiamo “trad”, ci siamo anche dati delle regole (è un po’un vizio dei nostri tempi), ma dovremmo sempre guardare le cose più per come sono che non per come vogliono apparire. E scoprire che in ogni storia nuova c’è un seme antico.

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Col Monton, lungo la via Zonta, Gnoato, Bertan.

di Alessandro Rossi

Il Col Molton è l’altura che sorge appena a sud del paese di Cismon, a destra di chi guarda dal bar “al Pescatore” (altrimenti detto Ristorante Val Goccia), punto di ritrovo fondamentale per chiunque sia diretto ai Lagorai o alle più lontane Pale di San Martino. Questa massiccia protuberanza del Monte Grappa, così vicina alla civiltà eppure così selvaggia (è abbastanza difficile e impervio raggiungerne la vetta per la via “normale”, attraverso alpeggi abbandonati e tracce di camosci) fu la prima che attirò l’attenzione degli alpinisti, se si trascura la misteriosa via di Ottorino Faccio sulla opposta parete che sovrasta Collicello aperta tra il 1935-36. Nel 1968 C. Zonta e A. Gnoato scalarono con numerosi chiodi a pressione la grande placca scura sul lato sinistro della parete e terminarono alla grande cengia sormontata da strapiombi. Due anni dopo, nel 1970, Zonta e Gnoato con l’aggiunta di E. Bertan terminarono l’itinerario scalando anche i grandi rigonfiamenti sporgenti attraverso una strapiombante fessura-diedro: nacque la Zonta-Gnoato-Bertan, la prima via del Canale del Brenta, molto impegnativa e di grande interesse tecnico già allora.


Nel 1972 il Col Molton venne preso di mira anche da altri forti dolomitisti: i fratelli Cappellari con Vittorio Lotto e Renzo Timillero che aprirono una via lungo la parte destra della parete ove sorge un pilastro triangolare e che sale per fessure fino al pianoro sommitale, itinerario ardito quanto il
precedente ma che purtroppo non incontrò il favore degli arrampicatori. Oggi giace abbandonato.
Altre due vie nacquero poi sulle pareti del Col Molton tra gli anni ’70 e ’80 e furono la “Enrico Ferrazzuto” di A. Campanile ed E. Bassetto del 1977, che sale 4 tiri indipendenti sulle placche nere appena destra della Zonta e probabilmente mai ripetuta e la “gola profonda” dello stesso Zonta assieme a G. Nicente del 1984, che sale il ben visibile camino nero a destra della parete principale e il seguente canale, anch’essa mai ripetuta. Nel 1979 la prima libera della Zonta-Gnoato-Bertan venne effettuata da A. Campanile e da U. Marampon e quest’ultimo, per ricordare il padre di un amico, aprì da solo una via lungo lo spigolo nord e la dedicò ad Emilio Rizzon, nel 1999, via che conta una ripetizione.
Dopo molti anni di abbandono la Zonta-Gnoato-Bertan è stata richiodata nel 2013 da Ermes Bergamaschi, nell’ambito del progetto Valsugana e Canale del Brenta che mira a valorizzare gli itinerari più belli della valle. La richiodatura è stata fatta nel rispetto più profondo delle difficoltà originali dell’itinerario, aperto in prevalente arrampicata artificiale, e resta quindi impegnativa.

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Viaggio a Uqbar

di Saverio D’Eredità

“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia.” (J.L.Borges, “Finzioni”)

Verso la fine degli anni ’90 sulle pareti del Winkel Mario Di Gallo disegna due itinerari di ispirazione “borgesiana”. Pur diverse come tipologia di arrampicata, queste due vie hanno in comune la caratteristica di dipanarsi lungo linee effimere, appena intuibili. O forse inesistenti.

Alcuni anni fa, circa a metà della via “Rosacroce” smarrimmo improvvisamente la traiettoria di diedri e fessure, perfettamente scolpiti, della parte bassa per trovarci a cercare indizi in un mare di placche bombate ed imperscrutabili. Forse non fummo abbastanza attenti, o forse era questa la ragione del nome. Ci rimase il dubbio. Come di un sogno di cui ricordi qualcosa ma che più ci pensi e più ti sfugge. Rispetto a Rosacrcoe, “Viaggio a Uqbar” conserva lo stesso fascino surreale che proviene dall’immaginario del grande scrittore argentino, svolgendosi in senso apparentemente opposto alle linee naturali della parete. In effetti, quando a pochi metri dalle certezze offerte dai regolari diedri della “Guerrino Di Marco” ci si trova in equilibrio su queste placche delicate viene da pensare che tutto questo sia un assurdo gioco senza senso. La tentazione di darsi alla fuga è forte. Ma per trovare Uqbar bisogna rinunciare alle certezze e offrirsi all’immaginazione. Scoprendovi un’alternativa possibile. La grande placca di metà via, dove due fessure parallele consentono una traversata non facile, ma possibile riassume bene il senso della via e il fascino di queste scalate “surreali”.

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Erico Mosetti sui diedri iniziali di “Rosacroce” – foto S.D’Eredità

Questo pezzo di roccia – che insieme alla Chianevate e al Bila Pec possiede la roccia forse migliore che si può trovare in Friuli – offre salite di grande valore e sicura soddisfazione. Difficile non innamorarsene e altrettanto difficile resistere alla tentazione di tornarci ancora una volta. Non staremo a fare la contabilità, ma ci soffermeremo ancora una volta, increduli e riconoscenti sulla cengetta che come un salvacondotto porta fuori dalla parete. O sul grande altopiano sommitale, dove ci si risveglia come da uno strano contorto sogno che ci appare improvvisamente lontano. Ad ognuna si legherà un ricordo. Un giorno di compleanno, le chiacchiere in sosta con un amico, un tiro di corda particolare (sempre lo stesso, uguale nel tempo, che si ripete) e un piccolo errore. Cose senza importanza.

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Andrea Fusari sul breve traverso in placca del quarto tiro di “Viaggio a Uqbar” – foto S.D’Eredità

A ben vedere, su questa parete, non c’è una linea più ideale delle altre, come nei racconti di Borges è difficile capire quale mondo sia reale, se Uqbar o Tlon, e chi sta parlando di cosa o per conto di chi. Che ricorda che nell’arrampicare un po’tutto sia effettivamente possibile seppure non logico. E quindi, in fin dei conti, nemmeno così importante.

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In uscita dal tiro chiave di “Viaggio a Uqbar” – foto S.D’Eredità

Viaggio a Uqbar – Quota 2208 del Cavallo di Pontebba (parete Nord Est)

Una delle più belle salite del gruppo del Cavallo, aperta da M.Di Gallo e P.Pedrini nel 1995 segue una linea apparentemente non naturale nel centro della parete, ma che man mano svela una sua logica intrinseca alla ricerca di movimenti estetici su roccia di ottima qualità. Leggermente meno impegnativa della vicina “Rosacroce” anche se diversa come scalata, prevalentemente su placca tecnica e di equilibrio. Parzialmente attrezzata a spit alle soste e lungo il tiro chiave (2 spit e un provvidenziale lungo cordone che permette di assicurarsi sul passo più impegnativo), offre comunque eccellenti possibilità di protezione a friend di ogni misura. La via incrocia in due punti la classica “Guerrino” e quindi la possibilità di deviare in caso di necessità. Discesa (comoda) per la via Schiavi o la normale del Cavallo (preferibile ad inizio stagione).

Difficoltà: V, VI, due passi di VII-

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Sul penultimo tiro della via “Guerrino Di Marco” – foto S.D’Eredità

La via che non c’è più

di Saverio D’Eredità

Sto salendo in auto i tornanti che mi portano nella parte alta di Belluno e sono ovviamente in ritardo. La riunione inizia tra cinque minuti e non ho la minima idea di dove si trovi. Tengo il navigatore acceso – non lo faccio mai – solo per avere la certezza del mio ritardo. “Via Attilio Tissi” – dice il collega a fianco a me guardando fuori dal finestrino – “…senatore…”. Inchiodo. “Come scusa?” chiedo al collega. “Via Attilio Tissi…conosci? Mai sentito”. Guardo il cartello: riporta la data di nascita e morte. “Se è quello che penso, credo proprio di sì” dissi.

Perchè è un po’così, con gli alpinisti. Ripercorrendo le loro salite, immedesimandosi nelle paure o sensazioni provate da loro stessi nel toccare quelle pietre, pare quasi di finire per conoscerli davvero. Anche se ormai quelle tracce sono antichissime e tutto – indumenti, materiali, parole, valori – sembrano appartenere quasi ad un’altra specie. Ogni via è un viaggio nel tempo e nell’animo di qualcuno che ci ha preceduto. Continua a leggere