Inverno Liquido – reimmaginare l’inverno è possibile?

di Saverio D’Eredità

Una perturbazione si avvicina alle Alpi. Inizia a nevicare. Dapprima a quote alte, altissime. Sotto i 2000 piove. Ma siamo quasi abituati. Purché nevichi. Purché piova. Domani forse vedremo nuovamente l’arco alpino nella sua veste più consona. Per qualche giorno volteremo le spalle alla realtà, ci accontenteremo della neve caduta, delle sciate finalmente di nuovo possibili. Durerà qualche giorno, forse. Il tempo per dimenticarsi che il problema è ancora lì. Presente. Futuro. Non passato.

Domenica 12 marzo 2023 si sono tenute diverse manifestazioni in varie località dell’arco alpino e appenninico dal titolo “Re-imagine winter”, promosso dal movimento di “The Outdoor Manifesto” (https://www.theoutdoormanifesto.org/azioni/reimagine-winter-basta-nuovi-impianti/). Neanche a farlo apposta (ma non ci voleva molto) in molti di questi luoghi erano già fioriti i crocus e lo scenario più tardo primaverile che invernale sembrava uno sfondo ideale ai temi della manifestazione. Re-immaginare l’inverno. Prendere coscienza del cambiamento. Intervenire. Cambiare.

Il movimento che – genericamente – definiremmo “ambientalista” (anche per affibbiargli una categoria e liquidarlo così più facilmente) negli ultimi anni ha cambiato pelle. Merito o causa di una generazione diversa (vorrei ora dire, con un pizzico di rivendicazione: la nostra) che ha preso in mano quelle cause e ha saputo aggiornarle ai tempi odierni. A quei movimenti ho sempre rimproverato una certa auto-referenzialità e l’incapacità di catturare un pubblico diverso da quello che già crede o si riconosce nei suoi valori. Rischiando sempre di rimanere a parlarne tra quattro gatti. Ma le cose stanno cambiando. Una generazione più a suo agio con la comunicazione di massa, forte dei dati (ormai incontrovertibili) che certificano un netto cambio delle tendenze climatiche, e forse anche più disinibita, sta cercando di portare il discorso su un altro livello.

Ricordate Mountain Wilderness? I blitz sui piloni della funivia del Bianco? Ecco, quel tipo di movimentismo è forse passato, all’azione “dimostrativa” si va via via sostituendo una proposta ponderata. Razionale. Basata sui dati e sui modelli economici.

Ecco, qui sta il punto. Se agitare spettri di apocalisse, predicare decrescite (felici o infelici che siano), drammatizzare sullo stato (effettivamente comatoso) degli ecosistemi può non far presa sulle coscienze (perché – diciamolo – fare i rompiscatole quando vorremmo goderci una giornata sulla neve senza pensieri non è esattamente il modo per farsi ascoltare), forse la strategia può essere diversa. Agire sulla leva economica. Usare codici e parametri tipici della nostra società (capitalista, liberale e aperta) per iniziare a ragionare verso prospettive diverse. Mercati diversi.

In queste settimane ho avuto modo di leggere un libro-inchiesta, piuttosto interessante e oggettivo, che andrebbe letto serenamente, proprio per documentarsi e senza che questo imponga a prescindere una posizione. “Inverno liquido – La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa” (Maurizio Dematteis e Michele Nardelli, ed. Derive Approdi, 2022) è un saggio-inchiesta su un modello economico e culturale che oggi pare avviato alla sua fine. Questo non implica necessariamente la sua scomparsa. Ma un suo aggiornamento. Per dirla in termini imprenditoriali un “cambio del modello di business”. Lo sci, prodotto che in termini economici possiamo definire “maturo”, necessita di un cambiamento. Che non può per ragioni ancora più che climatiche (per chi non vuole crederci, nonostante i dati) bensì economiche reggersi su quei parametri che lo hanno sorretto finora. Ovvero sull’investimento “pesante” fatto di infrastrutture, di bacini di raccolta delle acque per l’innevamento artificiale, di consumo di suolo. Un modello altamente dispendioso, “energivoro” come si usa dire oggi e soprattutto con enormi limiti di “ritorno” del profitto. Parliamoci chiaro: quanti investitori oggi punterebbero i propri capitali su questo tipo di turismo? Con le prospettive di aumento delle temperature e riduzione delle precipitazioni che generano sempre maggiori costi di gestione? E’ ancora, quello del turismo invernale di tipo sciistico, un prodotto promettente?

Sembra di no. Ed ecco perché il cambio di discorso, porre il problema su questo piano può essere davvero l’approccio giusto per innescare il cambiamento. Parliamo di un modello economico che ha letteralmente tirato fuori dalla povertà buona parte dell’arco alpino. Ma rischia di diventare la causa di un nuovo impoverimento. Cosa faremo quando dalla semplice alternanza di annate buone e meno buone, passeremo a bienni o trienni di assenza di precipitazioni?

Il libro compie un viaggio per le Alpi, toccando nel cuore le ferite, andando a scoprire i costi dei comprensori e scoprendo che spesso è il sistema pubblico (la collettività!) a tenere artificialmente in vita queste economie. E che – qua e là, proprio come i crocus – stanno emergendo alternative non solo affascinanti, ma anche economicamente attraenti. Val Maira, Valpelline sono solo alcuni esempi di come fare ancora ricchezza grazie alle attrattive naturali, ma diversificando l’offerta. E scoprendo che al “cliente” non va imposto un prodotto, ma data possibilità di scelta. E tutto sommato noi, su queste pagine, ne avevamo parlato in tempi in cui l’argomento era – come al solito – relegato tra le fila dei “menagrami” che dicevano “no” a tutto. Non era esattamente così. https://rampegoni.wordpress.com/2016/02/02/miopia-bianca/

Non siamo ingenui: tutti noi abbiamo imparato a sciare prendendo almeno uno skilift e su una pista battuta. Diverso è però il cosidetto “accanimeto terapeutico”, laddove la materia prima manca del tutto. Diverso è dire che è questa l’unica soluzione. Che è inevitabile. Oggi, di inevitabile, c’è solo questa pioggia che tocca quota inimmaginabili. Di inevitabile c’è l’adattarsi a condizioni sempre più difficili.

Mi soffermo ancora un momento sull’ottica del cliente, senza annoiarvi: è vero che ci sono tanti modelli di turismo sostenibile che si potrebbero tenere workshops e pubblicare papers per i prossimi 5 anni. Ma i “clienti” siamo noi (ci piaccia o meno definirci così). Ed è la nostra testa che va cambiata. Nel surreale inverno della pandemia 2020-21, un inverno beffardamente ricco di neve, i boschi e le vallate erano – nei limiti delle restrizioni – affollati di persone di ogni tipo. Gli “elitari” avranno storto il naso. Io invece lo trovavo consolante. Persino promettente. Di fronte all’assenza di impianti e pacchetti preconfenzionati le persone erano tornate a passeggiare. Scoprendo la bellezza semplice di un bosco. Non serve dire altro.

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Skipedia – appunti per un’enciclopedia minima dello sci di montagna

di Saverio D’Eredità

In fondo non sono che parole. Ma le parole sono la nostra bussola nel mondo, in questo caos che cerchiamo di decifrare. La nostra più semplice ed efficace attrezzatura per affrontare i difficili percorsi della vita.

Quali sono le parole dello sci? Ne conosciamo molte, più spesso legate alla qualità della neve, alla morfologia della montagna, alle qualità degli attrezzi. Ne usiamo tante, di parole, nello sci. Ma quali sono i concetti che caratterizzano e differenziano lo sci, lo sci di montagna in particolare, da tutto il resto? Perché i semplici numeri (dislivelli, inclinazioni, scale più o meno dettagliate) non spiegano tutto e l’esperienza dello sci (che vogliamo restituire alla sua origine, ovvero lo sci “di montagna” piuttosto che affibbiare l’etichetto di “sci-alpinismo”, incompleta e limitante come accade con tanti -ismi) sembra essere qualcosa di più. Più profondo, più vasto.

La letteratura non manca di certo. Più raro però che anche gli sciatori, i grandi sciatori fossero essi i precursori della disciplina dello “ski-tour” o i “ripidisti” oggi meglio noti come “estremi”, abbiano saputo dare forma a quelle sensazioni. Non è mai facile, quando si è immersi nell’azione. Può risultare meno vivido, quando mediato dal tempo e dall’esperienza. Ci rimangono, quindi, parole. A guidarci attraverso i diversi approcci e stili, sia che siamo freerider che amanti dello sci ripido. Sci-turisti o sci-escursionisti. Guerrieri del “ravanage” o amanti di più miti ondulazioni. Lo sci di montagna è una grande comunità in cui ognuno usa però gli stessi strumenti sullo stesso terreno. Ci deve essere quindi, da qualche parte, una piccola enciclopedia da consultare, dove ritrovare parole che raccogliamo lungo le nostre tracce sulla neve. Una specie di indagine in cui raccogliamo le prove.

Ho provato a prendere solo alcune, segnalando per alcuni di questi, il luogo del ritrovamento. Questa quindi non è una scelta di itinerari (ancora!) e nemmeno una monografia. Potreste farne ognuno di voi una vostra, nei vostri luoghi, sulle vostre tracce. Ma, se volete, potete usare questa breve lista dei luoghi.

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L’uomo sulla piroga

di Saverio D’Eredità

Al di là di ogni tentativo di trovare una definizione o una categoria, per quanto ci si sforzi di descrivere le sensazioni che si provano, credo che sciare sia, essenzialmente, una possibilità. Non una cosa utile, né tantomeno necessaria. Divertente, spesso. Altre, a dire il vero, un po’frustrante. Altre ancora un tentativo o forse una scommessa. Eppure.

Eppure succede ogni volta di nuovo. Che quando hai quei due assi ai piedi, quando il “clak” degli attacchi sancisce il tuo legame, quando hai davanti un pendio, in quel preciso istante ciò che hai davanti è soprattutto qualcosa che ha a che fare con le possibilità. Di sicuro qualcosa succede, in te. Qualcosa che d’un colpo amplia la sfera del possibile e – in qualche modo – la sfera di te stesso. Anche se lì per lì assomiglia più ad un istinto incontrollabile, animale quasi, a metà tra infantile incoscienza e consapevole coraggio. Qualcosa che ci aggancia alla parte nascosta di noi, quella che ricacciamo sempre dentro a pugni. Perché non è bene. Perché non si fa. Perché. Perché.

Non ci sono perché, qui. Ci sono due assi attaccati ai piedi, c’è uno spazio da creare. Lasciare una traccia è un venire al mondo di nuovo. Anzi, è un modo di stare al mondo. Ancora di più, più preciso. È un modo di stare con il mondo. E ‘stabilire una relazione e quindi – ecco, sì – creare un po’ sé stessi. Rendersi possibili.

Creste Bianche – foto Saverio D’Eredità

A me, sciare, il percorrere uno spazio bianco decidendo – solo io, e solo per quel momento – la mia traiettoria, ricorda sempre la sensazione che ho provato il giorno in cui ho imparato ad andare in bici. Ve lo ricordate, voi, quando avete imparato ad andare in bici? Vi avranno tolto il ruotino senza dirvelo o un adulto premuroso vi avrà tenuto per il sellino, immagino. Io me lo ricordo bene, ahimè, un po’perché ero già grandicello e poi perché a dire il vero non c’è stato né ruotino né adulto premuroso. Ho imparato su una bici che non aveva freni e a casa di un compagno di classe, un 25 aprile della terza media. Del resto, la sola bici che poteva prestarmi l’amico era uno scassone senza freni e poi – a pensarci bene – per imparare qualcosa non deve essere sempre tutto perfetto. Non dobbiamo avere sempre tutto.

Ecco, il momento in cui son riuscito a fare due pedalate in equilibrio è stato soprattutto un momento in cui ho percepito delle “possibilità”. Ricordo che ho iniziato a prendere tutte le strade che mi capitavano e il mio amico Paolo mi inseguiva e rideva di me che pedalavo come un forsennato perché i freni non ce li avevo e non potevo che pedalare e basta. Ecco con lo sci è più o meno lo stesso. Cioè è ogni volta come imparare ad andare in bici la prima volta. Non so se mi riuscirà la prima curva. Non so se riuscirò a non cadere. È questo che lo rende interessante a mio modo di vedere. C’è uno spazio non del tutto noto. Un universo di possibilità.

Deve essere qualcosa che si è sovrascritto nei geni dell’essere umano. Almeno dal momento in cui il primo uomo ha intuito come un tronco potesse trasportarlo sull’acqua. Ve lo vedete il primo uomo su una piroga? Qualche volta me lo immagino, quell’essere un po’rozzo e non molto evoluto che – inconsapevole di varcare una soglia epocale – con uno sguardo determinato, spinge quel tronco scavato nell’acqua e ci si getta sopra. Me lo vedo si, quello sconosciuto antenato dai denti storti, la pelle sporca, i peli ruvidi e gli occhi colmi di stupore, che si allontana sull’acqua, il cuore un tumulto di paura e mistero verso quella sponda ignota che lo attende. Lo sapeva, quell’essere umano di migliaia di anni fa, che quello stesso gesto, quello stesso sguardo, quelle stesse indecifrabili sensazioni si sarebbero ripetute un numero infinito di volte per centinaia e centinaia di generazioni? Che quella piccola spinta avrebbe determinato il futuro del pianeta nudo che aveva davanti?

Come l’uomo sulla piroga, anche lo sci ci offre un varco attraverso il quale ci è dato espandere la conoscenza e la consapevolezza dello stare al mondo. È una possibilità che si ripropone indefinite volte, basta saperla cogliere. Saperla leggere, come possibilità.

Tutto sommato però sciare non è che una delle declinazioni possibili di questa possibilità. Un modo come molti altri (bè, forse più affascinante, di altri) di attraversare quel varco che ci permette di proiettarci verso dimensioni nuove e diverse di noi stessi. Qualcosa di necessario. Talvolta quel varco, quel breve spiraglio in cui intravediamo una possibilità, è l’unica cosa che ci rimane. E a cui ci aggrappiamo con tutte le nostre forze.

Scendendo da Forca La Val – foto Marco Battistutta

Sto esagerando. Non è solo lo sci che ti permette di varcare quella soglia. Ma la sensazione, ecco, quella sensazione – ci siamo capiti – potete cercarla dove vi pare, con chi vi pare, con l’attrezzo che preferite o anche senza niente. E la cosa sorprendente è che accade senza che tu possa deciderlo. In qualsiasi momento e ovunque. Una mattina d’estate in una stanza senza suoni e senza finestre. Lungo strade polverose, dove ti chiedi se ancora qualcosa di puro è rimasto. Può essere dietro ad una telefonata, tra le carte di un ufficio, all’uscita da scuola lungo la strada che fai sempre e un giorno – clack, il suono degli scarponi che ritorna, tin-tin, i bastoncini che sbattono a scrollarsi la neve, l’occhio che coglie una luce particolare su un particolare insignificante – invece ti apre quella possibilità. E sei di nuovo l’uomo sulla piroga.

Un giorno siamo saliti sul solito monte dove vanno tutti. Dove siamo andati centinaia di volte e torniamo quasi come se ci fosse, tra le strade, nelle indicazioni stradali, nei nostri umori, una sorta di declivio che ci lascia scivolare da quella parte. Siamo saliti lungo la solita strada, misurato per l’ennesima volta passi, curve, dossi, alberelli e radure. Notato, nell’intercapedine degli anni, qualcosa che ci era sfuggito e qualcosa che non c’è più. Siamo arrivati in cima, il solito giro di panorama, il solito commento che pare veniamo qui per ridire le stesse cose sempre. Ma stavolta su quel monte ci siamo girati dall’altra parte. E la vista di quel pendio – e la solita domanda: hai mai provato a scendere di là? – è stata irresistibile. Come sempre. Ma come nessuna altra volta prima di allora, abbiamo voltato le spalle alle tracce conosciute e ci siamo rivolti a quel fazzoletto sospeso verso non-so-dove. Non abbiamo bisogno sempre di saperlo, come non abbiamo sempre bisogno di tutto. Come i freni della bicicletta quando ho imparato ad andarci.

Quel gesto, quell’unico gesto, ha cambiato tutto. Come una lampadina accesa d’improvviso in una stanza buia, ci ha fatto capire che non eravamo venuti per percorrere la stessa traccia, ma per vagliare delle possibilità. Abbiamo chiuso gli scarponi, allineato le tavole, pulito gli attacchi dalla neve. In quella cura c’era la nostra responsabilità. In quella scelta un principio di libertà.

Proprio come l’uomo sulla piroga, lasciandoci scivolare lentamente sul pendio abbiamo ripetuto quel gesto antico. Allontanato la riva andando verso spazi bianchi, senza sapere esattamente cosa ci sarebbe stato oltre la linea d’orizzonte. Come avremmo attraversato il limite di quel bosco che pareva un muro senza crepe. Se ci sarebbe stato possibile raggiungere la valle da lì. Per sentirci nuovamente, selvaggiamente, il primo uomo o ogni uomo sulla Terra, una mattina di cinquemila anni fa da qualche parte in Indonesia o forse chissà in Mesopotamia. O anche adesso, in ogni luogo dove qualcuno cerca una via d’uscita. Un po’più vicini a quell’uomo, e forse un passo più lontani dal morire. O almeno, illudendoci di esserlo.

Quattro chiacchiere e un po’di “jamming” con Samuel Straulino

di Saverio D’Eredità

Quando si parla di Carnia, in fatto di scalata, di solito vengono in mente le placche e rigole di Avostanis, o gli esigenti monotiri della Scogliera in Pal Piccolo. Gli alpinisti che masticano vie classiche avranno sicuramente passato momenti “riflessivi” sugli spalmi e altri meno riflessivi, ma piuttosto avventurosi, cercando di venire a capo delle ostiche fessure, ora esaltanti ora disperanti, specie quando – succede sempre- la roccia presenta i bordi svasi che sembrano non andare d’accordo né con le mani né con le protezioni. Insomma, la fessura carnica è una categoria a sé stante, sicuramente un bel banco di prova per quanti li affrontano e che, una volta superatolo, non temeranno di misurarsi con i luoghi di elezione di questo tipo di scalata come il Piemonte, la Val Di Mello, il Bianco o perchè no, la mitica Yosemite.

Ho incontrato per la prima volta Samuel alla base del Salto, struttura rocciosa strapiombante nell’area del Pal Piccolo. Notammo questo ragazzo intento a scalare con calma e determinazione, una fessura dall’apparenza ostile. I sassetti che cadevano ci fecero capire che non stava salendo qualcosa di molto ripetuto. Margherita, che lo assicurava alla base, ci disse infatti che stavano aprendo dei tiri in stile trad (http://quartogrado.com/cargiul/relazioni%20montecroce/Pal%20Piccolo_Falesia%20del%20Salto.htm)e ci invitò a provare una fessura che poteva fungere da variante d’attacco alla via del Sandwich che nelle nostre intenzioni più “plaisir” ci accingevamo a salire quel giorno. I 3 friends appesi al nostro imbrago sarebbero stati sufficienti per quei 15 metri. E in effetti lo furono, dato che potemmo piazzarli in maniera ottimale sul fondo della fessura. Meno sufficiente fu la mia tecnica, di colpo costretta a misurarsi con quel tipo di scalata per noi inusuale, pregiudicando un po’ la resa sui tiri successivi. Non siamo certo specialisti! Rimasi quindi colpito dallo stile di Samuel che, scoprii dopo, con Margherita Della Pietra si stava dedicando ad aperture in stile “yosemitico” sulla difficile roccia di Carnia. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere in stile “jamming”, quella particolare tecnica che si applica sulle vie di fessura, parlando del suo percorso, le sue aperture, scoprendo come anche in Carnia ci si può confrontare con questa scalata “occidentale” immaginando quella “valley uprising” che popola i sogni di tanti di noi.

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Straulino su Ain’t no easy way out, sulla Creta di Collina – 340 mt, VIII

Quando si parla di Carnia non si pensa di certo alle fessure: eppure tu sei uno specialista di questo tipo di strutture, con un bel carnet di itinerari aperti con questo stile di scalata su queste montagne. La domanda che sorge spontanea è: come hai capito il potenziale dell’arrampicata in fessura in Carnia? E cosa ti ha spinto a specializzarti?

Quando ho cominciato a scalare il pane quotidiano per me erano i video di master of stone e tutti i video riguardanti lo Yosemite e le mitiche imprese di Tommy Caldwell e Dean Potter: quindi per me la scalata era scalare in fessura! Da qui poi ho cominciato a ripetere tutte le grandi classiche delle Carniche, scoprendo come le vie in montagna di stampo classico differiscano dalla falesia proprio per la ricerca dei punti più deboli delle pareti. Sfruttando prevalentemente fessure, camini e diedri ho iniziato a comprenderne la logica e a quel punto mi si è aperto un mondo: avevo “trovato” la mia Yosemite in Carnia! Più esperienza facevo e più cercavo di ripetere vie di maggiore difficoltà. Avendo poi scalato tanto con Roberto Mazzilis e quindi imparato moltissime cose da lui e dallo stile con cui apre le sue vie in montagna, ho cominciato a fantasticare e a cercare nuovi itinerari nello stile che mi piace di più. Così ho scoperto che le nostre pareti carniche hanno ancora delle linee che non sono state scalate con fessure strepitose!

In cosa differisce questo tipo di scalata sulle pareti carniche da quella più classica che si può trovare altrove, tanto su granito quanto su dolomia? Come ti muovi per affrontarle? Tecnica, protezioni, materiali…

Certamente c’è una gran differenza tra le fessure granitiche rispetto a quelle calcaree e dolomitiche. Innanzitutto per le caratteristiche della roccia: il granito presenta fessure regolari che corrono su pareti generalmente lisce (a seconda della grana più o meno grossa), quindi per scalarle si ricorre a tutti i tipi d incastri, da quello di mano alle tecniche di incastro su fessure “offwidth”, mentre nei calcari le fessure sono irregolari e per loro caratteristica offrono appoggi e tacche in parete, quindi non sarà sempre necessario incastrare mani e piedi. Per quanto riguarda la proteggibilità, il fatto che su granito le fessure sono più regolari fa si che sia più facile e immediato usare protezioni veloci, mentre su calcare e dolomia serve maestria nel piazzarle, spesso in fessure che risultano molto “svase”. Io cerco sempre di usare il più possibile friend e dadi per proteggermi, dove non è possibile ovviamente uso martello e chiodi.

E ora una domanda classica e scontata: dicci il tiro più bello e la via più bella (sempre parlando di fessure) che hai scalato!

Come tiro direi “Separate reality”(*) in Yosemite , mentre parlando di via direi Astroman (**)sempre in Yosemite.

(*) Separate Reality: celebre monotiro scalato da Ron Kauk nel 78 (diff. originaria 5.12, 7a+), immortalato in numerose foto che hanno fatto la storia dell’arrampicata americana. Mitica la prima free solo di Gullich nel 1986.

(**) Sulla Washington Coloumn, Astroman è una delle vie più importanti dello Yosemite, aperta nel 1959 da Warren Harding, Glenn Denny e Chuck Pratt, valutata 5.11 c (corrisponde all’incirca a un 6c+ in scala francese, ma su una scalata molto specifica)

Parlaci di te, del tuo percorso e delle tue esperienze: hai viaggiato molto per andare a provare le scalate “iconiche” in fessura, ad esempio. Quali sono i luoghi da non perdere per questo tipo di scalata?

Fin da bambino ho iniziato a frequentare la montagna sia con escursioni estive che d’inverno sugli sci assieme ai miei zii. Ho cominciato a scalare a vent’anni da autodidatta e divorando tutti i video che trovavo sullo Yosemite e tutte le più famose bigwall al mondo, quindi per me la scalata era…scalare in fessura! Dopo pochi mesi ero già pronto per andare a ripetere vie classiche in montagna, la falesia era solo allenamento per riuscire ad alzare il grado sulle vie. Durante i primi anni di scalate ho avuto la fortuna di conoscere il fuoriclasse Roby (Roberto Mazzilis) e da li è cominciata una vera e propria saga di vie nuove aperte insieme a lui. Scalando con Roberto ho imparato tante cose e sopratutto ho avuto la fortuna salire dove nessuno era stato prima. Quella sensazione di novità, avventura e di mettersi totalmente in gioco che si prova soltanto in montagna mi ha rapito fin da subito. Quindi ho cercato di far più esperienza possibile per poi trovare le mie nuove linee, cercando le fessure ancora inviolate sulle pareti vicino casa. E appena ho potuto sono volato oltre oceano per visitare la mitica valle che ho sempre sognato: lo Yosemite. Qui ho ripetuto tante vie classiche e anche monotiri che hanno fatto la storia, come Separate Reality. Una grande avventura è stata la via “Astroman”, sia per la via in sé, una bellissima scalata tra diedri infiniti ed incastri in fessure di ogni larghezza, sia per il fatto che avevamo portato pochissima acqua con noi per non avere tanto peso con la conseguenza che arrivammo in cima disidratati e sfiniti. Un altro posto molto bello per le vie lunghe è il Zion National Park, dove consiglierei Moonlight Buttres e Tatooine. Il viaggio è finito con le fessure più perfette che si possano desiderare, in un ambiente magico quale il deserto a Indian creek, dove ho scalato veramente tantissimo ripetendo un sacco di vie dalle classiche “iconiche” a quelle meno conosciute. Sicuramente ci tornerò, secondo me sono posti magici!

Poi però sei tornato a casa, dove hai continuato una incessante opera di individuazione ed apertura di vie di stampo tradizionale, prediligendo lo stile “americano”, quindi arrampicata tendenzialmente “clean” e ricerca di fessure. Domanda d’obbligo: quale tra le vie da te aperte consideri la migliore?

Tra quelle che ho fatto, direi proprio l’ultima sulla parete sud della Creta di Collina, un luogo speciale per me (qui Samuel ha aperto Ain’t no easy way out e Hotshots, nonché raddrizzato la classica Viaggio ad Oxford – ndr) dove ho aperto “Be the Change”, 230 mt difficoltà massima di VIII+. Qui ho trovato dei tiri in fessura davvero spettacolari, ma anche passi in placca non da meno. Peccato solo che la parete di per sé non sia molto alta, se vogliamo è l’unico difetto che posso trovarle. Però ci tengo a ricordare anche un’altra via, che ho soltanto ripetuto, ma che ha rappresentato molto per me. Si tratta di “Laura”, sulla sud del Gamspitz (via storica, aperta da Mazzilis e Di Gallo nel 1984 dove per la prima volta su queste montagne si è sfiorato l’ottavo grado: la via infatti presenta un passo di VIII- e conta pochissime ripetizioni tutt’ora -ndr): non la più dura che ho salito, ma la più desiderata sicuramente. Ripeterla con l’autore, Roberto Mazzilis, è stata un’emozione particolare.

L’arrampicata cosiddetta “trad” sta avendo un grande interesse negli ultimi anni: secondo te come mai?

Io penso che l arrampicata “trad” possa darti molto di più a livello di “avventura” e quindi di coinvolgimento mentale, dove oltre al gesto tecnico sei tu a decidere dove e quanto proteggere un tiro. Oltre al fatto di riuscire a farti crescere mentalmente e stimolarti a ripetere vie sempre più dure.

Come vedi l’evoluzione di questo stile applicato alle falesie come ad esempio fanno da sempre in Uk, ma anche tu hai aperto dei tiri trad in Pal Piccolo. Secondo te avrà futuro o sarà sempre una nicchia?

Certamente in Uk c’è una lunga tradizione sul fatto di scalare “clean”, ma c’è anche una roccia diversa dalla nostra, quindi forse più “portata” a questo stile. Non va dimenticato comunque che anche da noi negli anni ottanta, assieme alla nascita delle falesie attrezzate a spit in Pal Piccolo sopravvivevano parecchie fessure protette solo con nut ed exentrics. Successivamente – purtroppo secondo me – anche da noi si è un po’abusato di questo strumento: su placche altrimenti impossibili da proteggere va benissimo, ma su moltissime fessure non li avrei usati. Questo perché oltre a sminuirle nell’impegno, tolgono anche la possibilità a molti di imparare ad usare le protezioni veloci e a conoscere un modo diverso di scalare. Infatti qua da noi in Friuli poca gente ha una serie di friend nella propria attrezzatura, quindi almeno qui da noi il “trad” farà molta fatica ad avere successo, se non tra i pochi appassionati.

Tu sei anche guida alpina: se un cliente volesse iniziare a provare a scalare tiri in fessura, cosa consiglieresti? come lo guideresti?

Le fessure carniche non sono certo come le fessure che si possono trovare in granito, dove si ha una scalata in fessura più completa, però secondo me si potrebbe tranquillamente cominciare con le nostre pareti, magari proprio in Pal Piccolo zona “Scogliera” per poi passare alla mia falesia trad e finire con l arrivare a ripetere qualche multipitch zona Salto (vedi https://rampegoni.wordpress.com/2020/12/06/ritorno-al-futuro-arrampicata-trad-sulle-pareti-del-pal-piccolo/). Se invece si cerca il granito, la”Mecca” qui in Italia è il Piemonte con la valle dell Orco, dove ci sono sopratutto multipitch, oppure le falesie di Cadarese e Yosesigo con i suoi monotiri e le fessure perfette!

Insomma, non resta che fasciarvi le mani, appendere i friends all’imbrago e lanciarsi in quell’avventura intensa e leale che questa arrampicata sa regalare. Immaginando per un momento di trovarsi in una nostra piccola Yosemite a nordest.

Samuel in apertura sulla falesia del Salto

Il futuro non è scritto – la corsa, Joe Strummer e la riscoperta del limite

di Saverio D’Eredità

Di base a me non piace affatto correre. Lo trovo noioso, mi fa sentire pesante, con le ossa pesanti. Quando corro me le sento una ad una, le ossa, e mi dico “eh, ma che ci vuoi fare hai le ossa pesanti” – e invece è quella frase fatta che ripetevo da bambino per giustificare la mia non esile corporatura. Anzi, siamo onesti: io proprio odio correre. Perché correre mi fa pensare troppo, specie sui lungoni delle strade di periferia. C’è tutta una folla di pensieri che mi entra ed esce di continuo, che non so tenere a bada, cui non so rispondere. Una volta mi son dovuto fermare, perché pensavo troppo.

Ma credo che ogni tanto sia salutare rimettere in discussione le proprie convinzioni e magari i preconcetti. E anche non prendersi troppo sul serio. Magari provando a cambiare completamente prospettiva. Spostarsi in un altro campo da gioco. Imparare nuove regole. Sarà stato per questo che circa un anno fa mi son detto: “sai che c’è? Il prossimo anno mi iscrivo ad una gara di corsa”. Io, che quando arrivo al km 5 ho già le scatole piene, io che quando mi girano le tabelle sui programmi di allenamento divento aggressivo e quando mi chiedono “quanto fai al km” cazzo, vengo alle mani.

Poi, ad essere sinceri, sono anche un pochino prevenuto. Ho visto troppi compagni di cordata prendere la strada delle gare, invaghirsi di questa cosa dei pettorali e del traguardo, delle ripetute e del passo medio e quindi fondamentalmente faccio un po’ come quelli cui sta sulle balle tutto quello che fanno gli ex-fidanzati. E se anche vado a correre lo faccio in maniera (volutamente) disinteressata, con le scarpe prese al Decathon dieci anni fa e che ora hanno i buchi, vestendomi nella maniera peggiore (che tanto vai a correre, mica ad un congresso) e manco a dirlo nessuno spirito competitivo. No, Strava non entrerà mai nella mia APP store, per intenderci.

La scorsa estate – ricordo bene – stufo di fare il convalescente, ad un certo punto avevo deciso di uscire per una camminata che fosse un po’più lunga del giro dell’isolato. Così ho percorso il tratto di sentiero lungo la rosta verso la falesia dello Strabut. Dovevo riavvicinarmi a qualcosa di naturale dopo giorni di ospedale e tubicini, sentire odore di terra, ricordarmi come si faceva a stare in piedi, a camminare da solo anche solo per un quarto d’ora. Arrivai in fondo al quel banale chilometro di passeggiatina tenendomi il costato per i dolori delle fratture, con i punti che tiravano e il fiato corto.  

C’è una sovrabbondante narrativa circa storie di recuperi, sopravvivenza o come si suol dire oggi “resilienza”. Ecco, non intendo ammorbarvi con stucchevoli slogan motivazionali del tipo “credi in te stesso” o “supera i tuoi limiti”. Al contrario, ho iniziato a riflettere sul fatto che non volevo superare alcun limite. Semmai riappropriami dei miei limiti. Riscoprirli. Ed è curioso che mi sia accorto di quanto importanti siano i nostri limiti proprio nel momento in cui la mia resistenza non andava oltre quella passeggiata a fianco delle recinzioni delle case.

Sarebbe stato facile iniziare a sognare chissà quali montagne. Sarebbe stato entusiasmante. Ma quello faceva ancora troppo male. Iniziai invece a pensare a qualcosa che non mi era mai passato minimamente per la testa. Ovvero una corsa, una gara di corsa, quelle col pettorale e col traguardo, magari proprio un trail. Quelle cose che odiavo.

Ho letto una volta che Joe Strummer, il celebre cantante e anima dei Clash, fu anche un maratoneta occasionale. Ne corse ben 3 di maratone nella sua vita. La prima durante un periodo di crisi artistica e personale, quando fuggì a Parigi sperando di stare lontano dai giri per un po’ e finendo per correre in un tempo più che dignitoso la maratona cittadina. Ve la immaginate una delle icone del punk, che mai metteresti vicino non dico ad un atleta, ma nemmeno ad uno sportivo, in pantaloncini e pettorale per 42 km? Quando chiesero a Joe come si fosse allenato disse che non poteva rivelarlo, perché il metodo era troppo rischioso. Ovvero non fare assolutamente nulla il mese precedente e scolarsi 10 pinte di birra la sera prima. In fin dei conti una risposta molto punk che mi ha ringalluzzito sull’idea che potevo correre anche io una gara. Con le scarpe rotte, la maglietta brutta e senza (troppa) preparazione. Il mio obiettivo era riconquistare un limite.

Percorrendo l’ultimo chilometro del trail del Calvario – cercando pure arrogantemente di allungare, al 17esimo km e con i 700 di dislivello alle spalle ma solo perchè la gente ti guarda – ripensai a quanto odiassi correre (anche in quel momento, anzi soprattutto), ma anche come quegli ultimi metri rappresentassero una riappropriazione. Passata attraverso i dolori delle prime corsette di venti minuti e poi dalle disagiatissime sessioni semi notturne delle 6 col Clok, sui lungoni di periferia dove allunghi per sfuggire alle ombre e soprattutto dal timore che qualcuno dei cani ai passeggio con i loro padroni mi puntasse. Passata attraverso giorni in cui ho persino desiderato correre, correre nel bosco, specie quando piove e sotto il cappuccio il mondo è attutito. Che dopo un po’entri in uno stato quasi meditativo e non sembra nemmeno di correre, ma di conquistare uno spazio. Dove i pensieri si mettono quasi di lato per farti passare senza chiederti più nulla.

Nell’ultimo mezzo chilometro ho capito perché odiavo tanto correre e perché mi ritrovavo a spingere ancora al chilometro 17. Forse proprio pensando a Joe Strummer, alla sua maratona punk e ad una delle sue frasi più celebri. “Future is unwritten” – il futuro non è scritto, disse una volta Joe. Lo possiamo sempre creare da soli, in ogni momento. Anche dal fondo più buio, quando tutto è in frantumi e non ti ricordi più come si faceva. A stare in piedi, a far fatica, a desiderare qualcosa. E ora che si avvicina il traguardo scopro che non sono felice tanto di arrivare, quanto di averlo scoperto di nuovo quel limite. E che qualche volta, per ripartire, bisogna provare a smentire sé stessi.

Quello che mancava

di Saverio D’Eredità

Alcune cose, c’è da dire, sono cambiate in meglio.

Ad esempio la libreria è molto più in ordine. I volumi sono accostati per genere, colore e dimensione. Non li devo più cercare per casa, ora in bagno, ora sulla sedia della cucina, sul comodino o chissà dove perché letti, appoggiati, riaperti e lasciati. Le pagine delle guide sono meno consumate di prima e sanno di patinato, niente più foglietti sgualciti, reduci da appallottolamenti in tasche di giacche (e magari pure lavati), ma chissà perché non buttati. Niente riviste accumulate e fogli strappati con relazioni di vie in vattelapesca che chissà mai avrai tempo e voglia di andarci. Le odio, le biblioteche ordinate, comunque. Mi sanno così di finto. Di così poco amore.

Ad esempio passo molto meno tempo a consultare i siti meteo. Non è un’impressione, è proprio il rilevatore di benessere digitale dello smartphone a dirmelo. I siti meteo si trovano molto in giù nella cronologia, sostituiti da più seri quotidiani online e posta. Meno ore passate a capire i modelli, incrociare i dati, fare congetture e piani a, b o c. Il meteo è un’idea più vaga, meno ansiogena e piuttosto occasionale. Sempre più spesso in questi ultimi tempi mi sono alzato la mattina, ho guardato il cielo e deciso se mi andava o meno di fare qualcosa. Mi preoccupa semmai il fatto che il tempo sia sempre uguale da mesi, ma quella è un’altra storia che ci riguarda molto da vicino anche se non sembra.

Di sicuro c’è che i programmi sono diventati più semplici. Niente contorsionismi per incastrare occasioni di socialità, impegni familiari, pranzi cene o peggio brunch (no, ecco, i brunch teneteveli proprio che manco la parola, sopporto). Meno corse in auto, meno farfugliamenti sulle mete, più disponibilità. Forse persino più serenità.

Eppure, nonostante tutto, qualcosa mancava.

Carlo Piovan sulla seconda parte della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Arrampicare non è (o era) “tutta” la mia vita. E’ tanto facile incappare in questa trappola, quanto difficile poi è uscirne. Mi sono sempre tenuto alla larga da questa totale immedesimazione, se non altro come forma di prudenza, del tipo che non si sa mai. Che se poi qualcosa va storto, della tua vita, che ne è? No, non è tutta la vita. Ma una parte di essa sì. Ed una parte è pur sempre qualcosa che consideri tuo. Che se manca, ecco, se manca te ne accorgi. Non puoi fare finta di niente. Non puoi mentire a te stesso.

Funziona così con le passioni, le passioni vere intendo. Che non saranno poi tutta la tua vita, è vero, ma se non ci sono ti rimane addosso la sensazione di qualcosa che manca. Un pensiero strisciante, insistente, simile a certi pensieri di ogni giorno (avrò chiuso la macchina? Ho le chiavi di casa?) che quando vai in giro ti senti un po’nudo e un po’ incompleto. Come uscire in ciabatte.

Cosa era che mancava quindi? La consultazione del meteo, delle guide o di un programma? Niente di tutto questo e tutto questo insieme.

Carlo Piovan all’uscita della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Le mie cartine topografiche, ad esempio. Ho passato più tempo su quei fogli colorati della tabacco – consumare dita e occhi su linee di sentieri rossi o neri, calcolare curve di livello o semplicemente ammirare affascinato le gradazioni di colori ed immaginare forme – che non su molti libri di scuola. Erano tutta la tua vita? No, certo. Ma erano parte di essa.  Era qualcosa di tuo.

Osservo Federico prenderle ogni tanto dal cassetto e aprirle sul pavimento. Mi chiede dove siamo e io gli dico “lì” anche se è una vallata dolomitica a caso. Mi chiede se quella è la nostra montagna e dove è il fiume. Credo che lui, come me, non veda tanto una cartina e dei colori. Quanto delle possibilità. Ciò che noi possiamo fare di noi stessi.

Sarà per questo che si dice “ho fatto” una via e non ho scalato? Che senso ha il fare di un qualcosa che semplicemente ti limiti a percorrere? Me lo sono sempre chiesto.

Quello che mancava più di tutto erano gli ultimi metri prima dell’uscita. Quelli che sono più belli perchè sempre più facili, che senti odore di cima, di aria che cambia, di luci diverse. Percorrendoli, quella mancanza mi è sembrata chiara. Quello che mancava è la capacità di rendere ciò che si è immaginato reale. Mano su mano, piede su piede, “creare” quindi “fare” o sarebbe meglio dire “fare sé stessi”. Ed era questo quello che mancava.

Quello che mancava era la inspiegabile leggerezza che ti accompagna poi, per ore, giorni, forse settimane. Come di un peso tolto dalla bocca dello stomaco che ti fa improvvisare respirare, come prima mai. Che ti fa sembrare tutto di nuovo aperto, possibile. Come Federico che guarda le cartine e mi chiede dove andiamo domani.

In questo periodo dell’anno, puntualmente, nella mia playlist ricompare October, che ascolto quasi fosse una ricorrenza. I giri semplici, incalzanti, di basso e batteria, rimandano luci e aspre e intense come quelle di certi autunni di fuoco. Erano due anni, quasi, che non lo ascoltavo. Quello che mancava forse allora era ascoltare October nella luce che si assottiglia sulle montagne del ritorno, la batteria di Larry Mullen jr al minuto 2.41 di Rejoice e pensare che sì, ancora tutto è possibile, c’è ancora tutto un mondo da immaginare ancora.

Traverso sulla via “Like a Vergin” – Media Vergine (Alpi Giulie) – foto E.Zorzi

Cambio sport (diario semiserio di un canyonista improvvisato)

di Saverio D’Eredità

Sono una persona molto antipatica. Antipatica e snob. Quando sento parlare di sport outdoor, di attività nella natura, insomma ci siamo capiti, mi viene l’orticaria. Quando, chiacchierando del più e del meno, qualcuno scopre che vado in montagna mi dice “sai ho fatto una volta la ciaspolata”, io son lì che li guardo con compassione e disprezzo. Si, sono anche una brutta persona. A parte l’alpinismo, non mi interessa altro: vie, storia delle vie, passaggi delle vie. E anche lo scialpinismo: salite, discese, qualità della neve, pendenza, esposizione. Sì, oltre che antipatico sono anche una persona noiosa. Ma sono cambiato. No, non proprio cambiato: a causa di questa forzata sospensione che definirei “ortopedico-psicologica” dall’arrampicare, ho semplicemente preso in considerazione (non deciso, sia chiaro) di provare anche i famosi “altri” sport praticati gioiosamente da tanti amici. Dove per gioiosamente intendo quel rapporto sereno, realizzato, equidistante che rende le persone così belle, luminose, appagate insomma tutto quello che non sono io, che sono una brutta persona e quindi in realtà le invidio profondamente.

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Strade senza uscita

di Saverio D’Eredità

Nella cultura occidentale parlare di strade equivale, nell’immaginario, a parlare di progresso. “Costruire strade” è infatti sinonimo di civiltà, di sviluppo in senso buono, quello che unisce territori, persone, culture. Che contribuisce a far circolare conoscenze e idee. Oggi, quando si sente parlare di strade, soprattutto in montagna, la prima reazione è di allarme. Strade? Ancora? Il sospetto non è fondato tanto su pregiudizi, ma su precedenti. Raramente infatti, negli ultimi decenni, queste strade hanno creato qualcosa di buono, assolvendo a quella funzione di “unire”. Semmai, piuttosto, hanno contribuito a “consumare”.

Di “cambi di paradigma” sono pieni vuoti proclami a diversi livelli. Nel lavoro, nella società, nella cultura. Ma il “cambio di paradigma” quando si parla di ambiente montano, sembra non solo non arrivare, ma agire in senso contrario. Purtroppo negli ultimi anni, nonostante una teorica “sensibilità” verso la tutela delle montagne come “patrimonio”, si è visto proprio il contrario. Strade aperte e nuove infrastrutture costruite con il pretesto di rendere accessibile, ma che di fatto consumano territorio. E intanto la vera accessibilità (che si traduce in servizi sociali o in vere opportunità per evitare spopolamento e perdita di benessere) rimane un miraggio.

Il tracciato della strada che ricalca quello dei sentieri 227/228 – tratto dal gruppo FB Salviamo i sentieri Cai 227-228

Sulle montagne friulane, da qualche anno, sembra che l’unica proposta di “sviluppo” sembra essere costruire strade, allargare strade, sistemare (magari sbancando) strade. Ricordiamo il progetto di collegamento Paluzza – Rifugio Marinelli e ultimo (ma temiamo non il solo) collegamento tra la Val Pesarina e Sappada, attraverso il monte Talm, il Rifugio Chiampizzulon e Malga Tuglia. Ovvero sui tracciati dei sentieri CAI 227-228.

Alcuni giorni fa, parlando proprio di queste infrastrutture, un amico (non appassionato di montagna, quindi un ottimo esempio di persona estranea a certe sensibilità”) ha osservato: “Ma non trovi che queste strade possano migliorare l’accessibilità’?”. Questa osservazione, apparentemente di buon senso, nasconde un problema forse ancora più profondo. Il discorso dominante ha sequestrato il significato delle parole, così che rivestendo di termine come accessibilità, sostenibilità e resilienza si possa giustificare tutto. Mettendosi automaticamente dalla parte del giusto. Ma verrebbe da citare la famosa frase di Bertold Brecht “Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati”.

Casera Tuglia, tratto dal gruppo FB Salviamo i sentieri Cai 227-228

Non è una questione di essere pro o contro qualcosa, nella logica bipolare cui siamo sempre più abituati. E’ una questione di consapevolezza. Quello che sta accadendo sui sentieri CAI 227-228 che attraversano il pregevole ambiente alpino sottostante le pareti del Pleros, in Carnia, è solo l’ultimo, ma non il solo, dei tanti casi di cosidetta “valorizzazione” del territorio che pare non prendere in considerazione lo stato attuale delle cose. Sembrano, in altre parole, appartenere ad un’altra epoca, quando lo sviluppo coincideva con lo sfruttamento (poi chiamato “valorizzazione”). E che rischia di ritorcersi contro. Ecco un altro sequestro della parola “valore”: come può dare valore un progetto che – nei fatti – finisce per sottrarre quel valore stesso ai luoghi? Luoghi cercati e ammirati proprio per la loro integrità, che si amano in quanto non urbanizzati, dove prevale il tempo della Natura su quello dell’Uomo. Così come “accessibilità” è diventata la giustificazione di ogni intervento, così “valorizzare” diventa la parola magica che automaticamente mette chi è in disaccordo dalla parte del torto, di chi “non capisce”.

Il progetto di costruzione di una strada forestale in quel particolare territorio ha senza ombra dubbio un impatto rilevante sull’ecosistema alpino. Come altri progetti di questo tipo sono stati avallati ora con i fondi per il ripristino dei danni di “Vaia” (abbastanza ironico, che proprio il modello di sviluppo alla radice di alcune delle cause dello stravolgimento climatico sia ancora il rimedio per riparare l’errore), ora con i fondi europei del PSR. Fondi che, varrebbe la pena ricordare, vengono erogati dalle istituzioni comunitarie ma la cui effettiva gestione ed utilizzo spetta alle comunità locali. E questo è ancora più allarmante, dato che la decisione non arriva da un’autorità “lontana”, ma da quelle che dovrebbero essere più vicine ai reali bisogni. Dove l’ansia di “rendicontare” sostituisce l’obiettivo primario che è la vera tutela del patrimonio ambientale.

Come ricordato sul Messaggero Veneto del 7 settembre nell’articolo di Melania Lunazzi, questo progetto prevede 3km di strada larga 4,5 metri con cinque piazzole di sosta (di 144 metri quadri) per il passaggio di mezzi a motore a 1600 metri di quota. Progetto che, tra le altre, avrebbe anche dei fini legati all’esbosco (oltre a delle non ben precisate e indiretti effetti sull’attrattività turistica). Peccato che, sempre nell’articolo citato, viene ricordato “come iI tratto tra Tuglia e Chiampizzulon è infatti privo di boschi di produzione e presenta invece un “bosco di protezione” che ha la funzione di proteggere il territorio da franamenti e valanghe. L’area ha vari vincoli, tra cui quello idrogeologico. La nuova strada taglierebbe quattro canali di franamento, che comporterebbero costosi lavori di manutenzione che non si sa chi potrebbe essere in grado di sostenere lasciando l’area irrimediabilmente devastata. Oltre a intaccare un’area naturale di pregio si cancellerebbero le tracce di opere militari della Prima Guerra Mondiale.”

L’articolo di Melania Lunazzi, Messaggero Veneto del 7/9/2022

Ora, la domanda forte di fondo, è se questa è l’idea della Montagna che si ha oggi e per il futuro. Dove una malintesa accessibilità finirà per contraddire il senso stesso di quei luoghi. Rendendoli si più accessibili, ma al tempo stesso anonimi, omologati e in ultimo deturpati. Il nutrito (oltre 3000 iscritti) gruppo Facebook “Salviamo i sentieri CAI 227-228” (https://www.facebook.com/groups/1765997663733738) chiede a gran voce di prendere in considerazione gli effetti di quest’opera. Ed è sintomo di un sentimento profondo, di una vera coscienza che chiede un’idea di futuro.

Esserne consapevoli è il primo passo, che non si può esaurire nella singola iniziativa, ma che deve coinvolgere più livelli e creare il terreno per nuove idee. Ecco, viene da dire che al di là di tutto, mancano proprio le idee. E quindi si ripetono i gesti di sempre, senza la minima idea di futuro. Procedendo in strade senza uscita.

In questi giorni mi capita spesso di leggere un ottimo blog, cui rimando per letture più “aperte” sui problemi del mondo di oggi, curato da Giovanni Ludovico Montagnani la cui storia, da sola, merita una visita alle sue pagine. Riporto un pensiero che credo riassuma bene ciò di cui stiamo parlando: che sia oggi una strada in Carnia, un’infrastruttura impattante legata al turismo o progetti di urbanizzazione di ambienti naturali sotto il velo della valorizzazione.

Non conoscendo l’ambiente poco antropizzato, il turista vuole ritrovare le sensazioni di casa o di uno spazio commerciale collocate in mezzo a degli scorci “naturali”. È comprensibile, ma secondo me è deleterio per il territorio che cede a questo modello di sviluppo: non possiamo più pensare di ampliare la capacità ricettiva dei territori meno antropizzati, antropizzandoli di più. Dovremmo imparare a riconoscere l’errore dello sviluppo sfrenato senza farne una colpa a nessuno e semplicemente cambiare modello di business”.https://dopolincidente.wordpress.com/2022/09/01/sono-abituato-a-sbagliare/

Annozero (sul Nevee Outdoor Festival e altre cose)

di Saverio D’Eredità

“Che vergogna, sarà mica accoglienza questa! Tovagliette di carta e nemmeno una carta dei vini!”

“Ci siamo persi, i segnavia erano sbiaditi e non mi prendeva il GPS!”

“Quella ferrata è pericolosa: c’è un tratto in cui il cavo è allentato e nessuno ha messo un cartello. Andrebbe chiusa!”

“Nel programma era previsto di arrivare in cima alle ore 12 e invece non l’abbiamo nemmeno vista!”

Avete già sentito commenti come questi? Non è raro intercettarli in qualche bar di fondovalle o fuori dai rifugi. Senza parlare delle pagine dei social. Forse alcuni vi sembrano esagerati, ma non siamo poi tanto lontani dalla realtà. E la realtà è che – ci piaccia o meno – tutto quello che gravita attorno alla montagna è né più né meno che un prodotto di mercato. Che sottostà a regole di marketing più che meteorologiche. Dove le condizioni naturali sono sostituite dall’offerta. Dove si fruisce e non si vive.

Potrebbe sembrare la solita lamentala di un nostalgico amante di un’arcadia ormai perduta (e forse mai esistita). Ma credo che tante volte il liquidare così ogni tipo di riflessione sia solo un modo per eludere il problema. Problema di cui siamo tutti parte: prima ancora che come “appassionati” (tralasciando le definizioni o meglio “nicchie” per usare ancora una volta un termine economico), sicuramente come cittadini per non dire consumatori. Perché quello siamo. Consumatori del prodotto montagna, con tutto il corollario che va dall’ultimo aggiornamento tecnologico che ci portiamo dietro all’abbigliamento, dall’attrezzatura tecnica ad un determinato “stile” che adottiamo (o compriamo?) per sentirci in quel contesto, in quel momento, inseriti, accettati per non dire apprezzati. E che altro non è che conformismo.

Credo sia questo il punto: non tanto demonizzare il risvolto economico del turismo (ricordandoci che la prima forma di turismo alpino fu proprio l’alpinismo dei benestanti inglesi nell ‘800), né per contro, inneggiare ad una non meglio definita libertà che si tramuta in sterile anarchia. Il punto è aver pian piano fatto sfumare il senso profondo della montagna (anzitutto per quello che è, ovvero spazio naturale) fino a farlo diventare del tutto secondario rispetto al “prodotto montagna”.

Ne avevamo già parlato su questa pagina quando, nella surreale primavera del 2020 si era posto il problema della agibilità dei rifugi (e persino della percorribilità dei sentieri!) in pandemia. Ma di quel dibattito ricordo soprattutto l’incredibile spostamento del discorso da un tema di “sicurezza sanitaria” ad uno di “qualità dei servizi”. Come se un rifugio fosse un resort che doveva “garantire” uno “standard”.

Se ci pensate non è tanto diverso dal dibattito odierno. All’indomani del cataclisma (perché quello è stato) della Marmolada, il dibattito mediatico ha deviato la sua traiettoria da una urgente riflessione sugli effetti del cambiamento climatico (ovvero la causa), per concentrarsi sulla regolamentazione delle attività che si svolgono in quota, quasi fosse quello il problema. E al di là della deprecabile morbosità quando si conta la perdita di vite umana, la conclusione è stata che bisogna in qualche maniera “porre dei limiti”. Insomma, se del caso, vietare. E così mentre ci lamentiamo che mancano i cartelli o il rifugio non propone un adeguato menu, un giorno ci alzeremo e scopriremo che in montagna potremo andarci solo sulla base di un’autorizzazione emessa da qualcuno al quale avremo delegato la nostra capacità di scelta. E magari ci starà anche bene, nel frattempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Nevee Outdoor Festival? Dopo due anni di stop forzato e con il rischio di perdere quell’atmosfera festosa (e la voglia di ricrearla) che aveva caratterizzato un’occasione del genere, quest’anno il NOF riparte. Dalle origini. Da quella che era la grande festa pensata da Leo (e per Leo) come un raduno di ragazze, ragazzi, bambini e adulti accumunati da quelle passioni in cui la Natura è parte integrante.

Il NOF di quest’anno si libera di programmi, percorsi segnati, tabelle e appuntamenti. Un unico, grande raduno di due giorni il cui cuore pulsante è il Rifugio Gilberti. A parte le attività organizzate per i bambini (da sempre elemento distintivo di questo ritrovo), il resto si svolgerà a schema libero. Avete un crash pad? Portatelo su, cercatevi un masso, massacratevi i polpastrelli per risolvere un blocco! Vi piace camminare? C’è un pianeta Canin da scoprire, vi basta un passo per entrare nel Parco Prealpi Giulie. Amate le vie a più tiri? Credo che in Giulie e forse nelle Alpi orientali non esista roccia come quella del Bila Pec. Ci sono inghiottitoi per chi vuole esplorare gli abissi, linee di slack da tirare, manca solo la neve quest’anno, ma speriamo si sia solo presa una pausa.

Cosa c’entra quindi il NOF? Il NOF vive un nuovo annozero, in cui ripensare tutto di nuovo. Che nel suo piccolo lancia un messaggio: viviamo la montagna per quello che è. Viviamo la Natura indipendentemente da una tabella, un programma, un pacchetto. Non facciamoci imboccare, incasellare, guidare. Se rinunciamo a questa autonomia, il cui altro lato è la responsabilità delle nostre azioni, avremo rinunciato – e per davvero – alla libertà. E non quella vuota, svogliata, libertà “di fare quello che voglio”, ma la libertà del prendersi cura di noi stessi, degli altri, dell’ambiente. Una libertà piena e consapevole.

Dipende da noi, ora più che mai.

Note: il NOF 2022 si terrà il 23 e 24 luglio a Sella Nevea. Le attività organizzate e guidate saranno dedicate esclusivamente ai bambini (under15), quali arrampicata, speleologia e slack line e partiranno dalla mattina di sabato (ore 10) al tardo pomeriggio (ore 17), analogamente la domenica. Il resto a schema libero, nella meravigliosa cornice della conca Prevala.

Info sul NOF al sito e sulla pagina Facebook

http://www.neveeoutdoorfestival.com/ https://www.facebook.com/NeveeOutdoorFestival

“IL MIO NOME E’ DOLOMIEU”

Venerdì 29 Luglio Recoaro Terme ore 20.00

Monologo di circa 60 minuti in cui l’autore del testo, Eugenio Maria Cipriani, indossati i panni dello scienziato Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu (1750-1801), studioso e viaggiatore francese vissuto nella seconda metà del Settecento, racconta la vita e le avventure del noto naturalista alle prese da un lato con lo studio dei vulcani e dall’altro con il mistero allora inspiegato della nascita delle montagne. Una vita avventurosa che lo ha visto due volte in prigione ma anche ospite dei più importanti salotti culturali europei. Fu il primo naturalista a visitare le Piramidi d’Egitto dove scampò alla morte per pura fortuna. Amato dalle donne e molto apprezzato dei contemporanei, alla sua morte tanta notorietà si dissolse nel giro di pochi anni e oggi nessuno si ricorderebbe più di lui se non avesse dato il nome alle montagne più belle del mondo. Egli è noto infatti per aver compreso la matrice chimica delle rocce dolomitiche che proprio da lui prendono (peraltro casualmente) il nome. Geologo attento e capace di creare una “rete” scientifica, fu uno dei padri fondatori di una scienza nata da poco: la geologia. Dolomieu, inoltre, visse in prima persona l’annosa “querelle” scientifica dell’epoca fra chi sosteneva l’origine ignea delle rocce (Plutonisti) e chi ne affermava di contro l’origine idrica (Nettunisti). Una controversia che infiammò gli animi di cattedratici di fama mondiale e che ebbe riscontri importanti anche nella letteratura e nelle arti. La Rivoluzione francese cambiò il corso della sua vita che, nell’ultimo decennio, fu tutto un susseguirsi di campagne esplorative e guai personali.

Eugenio Maria Cipriani

Giornalista, scrittore, scalatore attivo da oltre 40 anni con particolare inclinazione per l’alpinismo
esplorativo (oltre 800 vie nuove fra Alpi nordorientali, Grecia e Balcani), da sempre nutre interesse sia per la storia dell’alpinismo sia per quella della geologia. E’ autore di oltre 60 volumi fra guide escursionistiche e alpinistiche e saggi storici. In gioventù ha frequentato due scuole di recitazione ed ha interpretato diversi ruoli recitando durante la stagione estiva teatrale veronese negli anni 1984 e 1985 e successivamente esibendosi in letture pubbliche con la compagnia del Teatro Nuovo di Verona.