La spada del samurai

di Saverio D’Eredità

Scrisse una volta Dino Buzzati che se Walter Bonatti fosse vissuto ai tempi di Omero, le sue imprese ci sarebbero state consegnate oggi come un poema epico. Questa affermazione mi ha sempre colpito, forse perché più di altre riassumeva il senso dell’alpinismo di Bonatti ed in un certo senso conferiva ad esso una dimensione quasi mitica. Bonatti, del resto, stava al pari di altri miti d’infanzia come potevano essere Indiana Jones o l’Uomo Ragno, ma che a differenza degli altri poteva giocare una carta decisiva. Bonatti era vissuto realmente e le sue imprese sono pagine ancora oggi luminose della storia dell’alpinismo e delle montagne. Non solo. A differenza dell’Uomo Ragno potevo vantare la sua firma sulla mia copia de “Le mie montagne”, cosa che più che attribuire un particolare valore al libro, stabiliva soprattutto un indissolubile legame tra me e Walter. Credo sinceramente che i suoi racconti possano contribuire in maniera decisiva alla formazione del carattere, nella stessa misura di quelli di Conrad o della musica rock. Ecco diciamo che I “Giorni Grandi” stanno all’alpinismo allo stesso modo in cui  “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd sta alla musica degli anni settanta, un album che ad ogni ascolto sembra assumere ulteriore spessore, nuovi significati, altri echi, persino.    Il diedro sinuoso del Gran Capucin, la “candela” del Freney, il Pilastro Rosso, la Traversata degli Angeli sul Cervino o l’abside del Dru. Non so se fosse la sua abilità di scrittore o cos’altro, ma le montagne di Bonatti sembravano porsi in una regione sconosciuta e quasi fantastica, popolata di immagini talmente potenti da occupare totalmente l’ingenua fantasia del neofita. I “Giorni Grandi” segnarono così il passaggio della linea d’ombra, che dall’infanzia conduce alla vita adulta, svelandomi qualcosa che andava oltre la montagna verso il desiderio degli spazi, della ricerca, qualcosa di meno riduttivo e più intenso dell’alpinismo in sé. E che forse ne è l’essenza stessa. Sul fatto che fosse il più grande di tutti, credo ci sia poco da discutere. Era il più grande perché non serve l’elenco delle sue salite o l’accademico, ed in buona parte sterile, confronto sui gradi per restituire la cifra del suo alpinismo. Forse proprio perché alpinista, alla fine dei conti, non era: un viaggiatore, piuttosto. E prova ne è proprio quel “tradimento” che lo vide scendere dalla croce del Cervino per salpare verso diversi ma non per questo meno incogniti spazi. A differenza di altri, Bonatti è riuscito a sopravvivere al suo stesso mito ed è possibile che la cosa gli abbia provocato ancora più nemici, ma anche che una parte della sua grandezza risieda proprio nell’ammissione di aver trovato un proprio limite. E che lo ha reso, in fondo, un po’più umano.

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C’è sempre un momento, per chi è affetto dal morbo della montagna, che potremmo definire dell’imprinting alpinistico. Ebbene quel momento per lui  fu la lettura dei “Giorni Grandi”  di Walter Bonatti. I problemi dei figli, si sa, nascondono quasi sempre colpe dei genitori, magari indirette o non volute, ma comunque ad essi riconducibili. Quando la mamma, quel giorno, entrò  con il libro in mano forse non sapeva che stava dando fuoco ad una miccia collegata ad un cumulo di dinamite.

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“È di un famoso alpinista dei nostri anni” – disse quasi a giustificarsi mentre gli porgeva il libro – “si chiama Walter Bonatti…scriveva anche sui giornali”. Il libro era spesso, un volume solido con una copertina dura di cartone e tante foto a colori all’interno. La sovra copertina immortalava l’alpinista nei colori accesi delle prime Kodakchrome, anche se si percepiva l’assenza del controllo dei contrasti dell’era digitale. Spiccava il suo maglione rosso, con quell’aria  un po’ d’antan, contro le rughe del seracco segnate come la pelle di un drago delle fiabe. La sua figura era come sospesa nell’aria nell’atto di compiere il salto del crepaccio. La piccozza stretta nella mano, eroica e splendente, come la spada di un samurai nell’atto di affondare il fendente nel corpo del drago. Si poteva a lungo discutere della prospettiva, del sapiente uso del teleobiettivo e dell’effetto drammatico del rosso sul bianco scuro del ghiaccio o della piccozza brandita come un’ascia di guerra. Negli occhi del ragazzo rimase lo stupore e la meraviglia per il gesto di quell’uomo lanciato nel vuoto. Quell’uomo, in quella foto, era Walter Bonatti. Quel pomeriggio il libro lo lesse d’ un fiato, il che bastò per rimanerne folgorato. Da quel giorno nulla fu più lo stesso.

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Agosto ha mattini di miele che sembrano colare dal cuore delle pareti per irradiarsi alle valli. La Tofana emergeva sola nel cielo del mattino, come uno scoglio di corallo abbandonato da oceani trapassati.  L’auto filava veloce e Andrea dormiva placidamente accanto a me.

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Il pezzo finale di Stairway to Heaven incalzava nelle casse e mi chiedevo anch’io, come la canzone, se fosse possibile essere roccia e non rotolare. Sarebbe stata la preoccupazione della giornata, eppure in quel momento l’incanto dell’alba superava ogni altra cosa. La parete sud della Tofana si mostrava ai nostri occhi, immensa nei drappeggi disegnati dall’alternarsi di spigoli e pilastri, come di vele spiegate nel vento. La nostra vela era l’ultima, il pilastro estremo dell’architettura. “Ecco il Pilier Bonatti!” dissi con un certo compiacimento ad Andrea, mentre riprendeva conoscenza e stiracchiandosi osservava la parete. Avevo trovato questa definizione in una delle tante ricerche internet dei giorni precedenti, alla disperata caccia di indizi e relazioni che potessero placare la mia ansia pre-salita e in qualche modo prepararmi all’arrampicata. Si sa che tutto ciò è piuttosto inutile e che per quanto ci si possa documentare nessuna foto aiuterà mai a superare un certo passaggio. Ma questa volta contava poco: “Pilier Bonatti” suonava talmente evocativo e prepotentemente esaltante che per una volta tutte le preoccupazioni antecedenti lasciarono spazio ad una inconsueta energia positiva. Anche perché da lì ad un mese il grande Walter ci avrebbe lasciato, ma questo noi ancora non lo sapevamo.

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La scuola distava esattamente un chilometro e mezzo da casa. Abbastanza per lasciare scorrere il diorama dei sogni sullo schermo delle camminata del mattino e dell’ora di pranzo. Qualche volta arrivava a scuola senza nemmeno accorgersi, ancora fantasticando della cresta del Brouillard o dello sperone della Brenva.  Un chilometro  e mezzo che gli bastava per metter da parte i soldi dell’autobus per comprare una corda tutta sua (anche se non sapeva che farsene) che sarebbe stata rossa, come quella di Bonatti. O ancora meglio una piccozza, corta, che già riusciva ad immaginare stretta nella sua mano, agile e veloce come la spada del samurai. Come la piccozza di Walter Bonatti.

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L’idea di poter percorrere una via di Bonatti rimaneva da sempre confinata in un limbo, a metà tra la consolante realtà del sogno oggettivamente irrealizzabile e la lucida follia di mettersi alla prova con la materia stessa di quel sogno. Poi il tutto veniva banalmente superato dalla considerazione che le vie di Bonatti son quasi tutte tra le Alpi Graie e le Retiche, in quel “lontano Ovest” che noi dall’estremo opposto delle Alpi fantastichiamo neanche fosse l’Himalaya o le Ande. Quindi decisamente poco fattibile. Perché ci si sarebbe dovuti allenare, magari d’inverno o sul misto. O almeno una volta provare a mettere mani su granito. E poi, in un angolo dove confiniamo tutto ciò che non riusciamo ad ammettere a noi stessi, c’era l’intima convinzione che i miti non dovessero essere profanati. Le vie di Bonatti erano belle così, da leggere, da ripercorrere con la fantasia, alimentando in altro modo le nostre pazzie.

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Tutto ciò finché scartabellando tra le guide alla ricerca di un’ispirazione che ci permettesse di sfruttare al meglio il rinnovato anticiclone estivo, non saltò fuori questa semi-sconosciuta via “della Tridentina” alla Tofana di Rozés. Letteralmente, una rivelazione. Una via di Bonatti del 1952, l’unica aperta in Dolomiti, e per di più (al solito occhio ottimista del lettore di relazioni) nemmeno eccessivamente estrema! Nessun pendolo nel vuoto, nessun tetto da superare con acrobatici passaggi in staffa. Il limbo era violato, oramai. Non restava che arrendersi ad una nuova ossessione.

Il “Pilier bonatti” è l’ultimo dei pilastri verso occidente della grande muraglia della Tofana, ma certamente non tra i più noti e gettonati dagli alpinisti, nonostante la prestigiosa firma dell’apritore. Il motivo non è certo riconducibile alla mezz’oretta in più che si deve fare per portarsi all’attacco. E nemmeno difetta di eleganza il profilo dello sperone che, sebbene non fendente come il primo spigolo o imponente come il Pilastro, sembra quasi nascondersi agli occhi degli arrampicatori. Viene da pensare che la scarsa fama sia dovuta al fatto che il buon Walter, di questa salita, non lascia traccia alcuna nei suoi libri. Praticamente una via oscurata dalla fama stessa del suo apritore! Lo capivo, d’altronde. Nessun tribolato ghiacciaio da attraversare, nessuna marcia nella neve e nel gelo dell’inverno. Forse questa salita, scappata tra le tante al giovane Bonatti nell’anno del servizio militare era rimasta così, poco valorizzata come certe tele dimenticate negli scantinati degli Uffizi, non tanto per lo scarso valore, ma perché al pari di altre non riuscivano a trovare collocazione in qualche sala. Ci avviammo dunque verso il “Pilier”, in scarpe da ginnastica e senza “bonattismi” d’occasione. E sebbene nel porre le mani sulla roccia per un attimo il pensiero non potesse che correre agli anni delle grandi letture, la prima parte di salita scivolò via agile come raramente accade. Salimmo, coinvolti, in un crescendo di sole, di luce. Trionfante il nostro sperone come il dorso di una proboscide ci innalzava. La scalata si svelava man mano, fluida e piacevole e ad ogni tiro una maggiore ampiezza grandangolare della conca di Cortina ci invogliava a salire, portandoci verso la parete finale dove sapevamo essere concentrate le maggiori difficoltà in un assortimento di quinti e sesti sostenuti.

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All’ultima sosta prima della muro finale arrivai con un certo affanno, non tanto per la fatica quanto per l’emozione di confrontarsi con i passaggi chiave della parete. Vi avrei trovato forse degli indizi, delle tracce, qualcosa che mi avrebbe riportato la grandezza del mio mito d’infanzia? Forse l’aspettativa era eccessiva, comunque alla base vi trovai, più utilmente, un vecchio chiodo saldamente piantato fino all’occhiello, di quelli in cui riporresti una fiducia millenaria. Era forse il chiodo di Bonatti? Nel dubbio, con reverenza, vi passai il mio moschettone e allestii la sosta. Sorrisi, ripensando alla dedica di Bonatti sulla mia copia delle “Mie Montagne”. Vedi, Walter, che un giorno ci saremmo incrociati?

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Da bambino si addormentava ascoltando la voce di suo padre che gli narrava le gesta di Ulisse. Non c’era per lui fiaba più bella. Non cavalieri di cappa e spada, né gesta di moschettieri o eroi da cartoni animati. L’eroe per definizione non era che Ulisse. Chiedeva ripetutamente di riascoltare la storia di Polifemo, tra tutte la più straordinaria ed emozionante. Un senso di rabbia e smarrimento invece lo percorreva sentendo dei trucchi della maga Circe, perché non poteva forse capire un bambino il dolore inflitto dalle debolezze dei  compagni e dalla subdola potenza dell’inganno. Scendeva sempre una lacrima da lieto fine sugli ultimi passi del ritorno ad Itaca e l’avrebbe chiamata commozione se solo fosse stato più grande da capire cos’era questa cosa, enorme e struggente, che è il ritorno a casa. Perché di eroi ce ne sono tanti. Ma nessun eroe è spinto alle sue gesta da una cosa tanto poco eroica come la casa.

Gli altri personaggi delle fiabe gli sembravano quasi noiosi. Tutti disposti a rischiare la vita per qualcosa di stupido come un regno, una donna bellissima o una cassa di dobloni. Non c’era paragone con chi navigava per i mari, avverso agli dei, il cuore a casa eppure la mente all’incessante, inappagata, ricerca di sé.  Oggettivamente Paride appariva come una mezza calzetta ed Achille troppo narciso. Solo Ettore tra le file nemiche poteva competere, per senso tragico e nobiltà. Ma Ulisse superava tutti.  Lo accompagnava la condanna dell’ingiustizia divina e l’invincibile arma che è la ragione.
Le gesta degli eroi con i super poteri e il cuore senza macchia non lo emozionavano. La forza è terrena, il cuore impavido una finzione. La potenza della mente invece era soggiogante.

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Scoprire Bonatti  era stato un po’come ritrovare un Ulisse moderno, reale, con nome e cognome. Stessa sembrava essere la metrica, il senso tragico dell’uomo che per inseguire la conoscenza attraversa molti dolori e molte vittorie, le quali non sono che momenti di una vita che assume  man mano un senso superiore. Non era forse identica la tensione del passaggio in mezzo a seracchi pericolanti nella notte come il navigare attraverso le isole delle sirene? E nei pendoli del Dru, non  rivedeva forse la ponderata astuzia di Odisseo nell’uscire dall’antro di Polifemo? E quella struggente ritirata del Freney, con i compagni che uno ad uno cedono, non aveva la stessa profonda tragicità e la forza catartica del ritorno ad Itaca?
In lui ritrovava la nobiltà che risiede nella lotta contro quelle avversità cui non possiamo opporci , com’era l’ira degli dei sulla rotta di Ulisse e le bassezze ed invidie degli uomini. Il caso del K2 lo colpì così tanto, e così grande gli parse l’ingiustizia che prese  carta e penna e scrisse proprio a lui, al grande Walter Bonatti.

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La parete soprastante si palesò spietata e violenta come un pugno in faccia. Diritta sopra di noi, contraddiceva la morfologia espressa dal monte che pur ripido non aveva fin lì offerto particolari problemi, semmai invitandoci lungo quella “scala verso il cielo” in maniera bonaria. Essa si imponeva verticale e resa ancor più vivida dalla caratteristica roccia rosso-giallastra della Tofana. Più in alto, un acuto di strapiombi giallastri opprimeva il nostro slancio verso l’alto. Andrea partì e con meticolosa calma risalì la parete, seguendo una linea invisibile eppure presente, fatta di appoggi e fessure che sembravano offrirsi parsimoniosamente alla tenacia di chi sale. Il tiro era bellissimo ed avvertii la sua felicità nel muoversi con naturalezza sul tipico sesto grado dolomitico. Non potevo che pensare al Bonatti giovane che con lo stesso entusiasmo del mio compagno si apprestava a superare questa parete. Si sarebbe potuto vedere già qui quella che era la sua firma, il suo stile, nel superare il problema con lucidità ed in maniera essenziale. Forse quella stessa parete avrebbe potuto essere vinta lungo certe agghiaccianti fessure friabili che aprono nel giallo, senza dubbio una linea “tedesca” da Scuola di Monaco per intenderci, di quell’alpinismo sturm und drang degli anni’30. O forse ancora un Comici sarebbe salito lassù, presso il profilo estremo degli strapiombi, nella sua tipica, quasi auto compiaciuta eleganza. Comici avrebbe imposto la linea alla montagna, dall’alto di una tecnica ed una confidenza con la roccia ed il vuoto che fa ancora venire i brividi.

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Temporale in arrivo sulla Tofana

Bonatti no. Era un logico, Bonatti, non un estetico. In lui c’era la calma del marinaio che studia i venti ed asseconda le correnti. Che sa dove vuole arrivare, ma attende dal mare un segnale. Era un viaggiatore, lui, uno che nella montagna “passava attraverso”, la interpretava, senza tuttavia ridurla mai ad un mero numero o ancora peggio un’esibizione. Era un alpinismo “mentale”, di analisi e raziocinio, e forse è sempre stata questa la cosa che mi ha più affascinato. L’idea che non tanto la forza fisica, l’imperscrutabile talento del genio, ma l’applicazione metodica delle risorse della mente potesse fare la differenza è qualcosa che sembra rendere persino possibile una immedesimazione. Che potessimo essere anche noi dei Bonatti per un giorno, per intenderci. Un modo come un altro per non rinunciare ai nostri sogni di bambini, alle ambizioni di quei giorni grandi che mai potranno essere soggette alla svalutazione del grado o alle oscillazioni del mercato.

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La scuola distava esattamente un chilometro e mezzo e l’unica cosa che al mattino lo spingeva ad alzarsi, vestirsi, trangugiare malvolentieri del caffelatte e lasciarsi abbottonare il giaccone dalla mamma cercando di sfuggire a qualche saluto amorevole, era la voglia di lasciare navigare la mente tra ghiacciai sospesi, pilastri di granito. Stelle e tempeste. Ogni mattina andava in scena una nuova puntata nel teatro dei sogni. Aveva disegnato tutta una vita, ispirato dalle gesta di Bonatti in cui si  immaginava vincere strapiombi in mezzo alla bufere, ideare stratagemmi di astuzia per superare pericolosi traversi. In cui ogni vetta era gloria, ogni ritirata un’epopea. Non si contavano i bivacchi, le scariche di ghiaccio notturne, le cornici pericolanti.  In un anno scolastico aveva salito almeno 3 volte il Pilier d’Angle e inanellato delle solitarie estreme sulle Jorasses. Poi vennero gli orizzonti sterminati. Foreste millenarie e deserti della disperazione scavavano un solco sempre più profondo con la realtà, tra la vita vissuta e la vita immaginata. Qualche volta era proprio quella dimensione tutta sua a scacciare via certe lacrime, la tristezza per il brutto voto o le cattiverie dei compagni di scuola. In quel chilometro e mezzo poteva essere ciò che voleva, senza timore.

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Scartammo leggermente a sinistra, come a divincolarci dallo strapiombo più violento, mentre la sfuriata di muri rossastri sembrava attenuarsi. Una cengia conduceva in là, esile, proprio al margine degli strapiombi, mentre sotto i nostri piedi sfuggiva un vuoto magnetico. L’intuito dell’apritore si rivelava non tanto nel passaggio roboante, nel gesto atletico, quanto nella sapienza, antica, del sapere svelare la montagna a sé stessa con la logica delle normali di un tempo. Cortina in fondo ammiccava benevola, mentre dense di grigio le nubi s’addensavano oltre gli altipiani bianchi e neri del Sella. Sarebbero state su di noi a breve. Un ritmo serrante di fessure e diedrini ci accompagnò alla porta d’uscita della via, il diedro strapiombante. Vivevo, nel mio piccolo, certe emozioni appena accarezzate il giorno che passai sotto la Est del Grand Capucin e in cui capii che probabilmente le vie di Bonatti le avrei potuto al massimo fotografare.

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Non aveva ancora scalato una montagna vera eppure conosceva a menadito ogni angolo della Brenva e non avrebbe avuto senz’altro difficoltà a scendere dalla cima del Bianco con qualunque tempo. Non aveva ancora messo le mani sulla roccia che già sentiva di poter affrontare in libera passaggi estremi. Si vedeva – e questo provocava in lui un non indifferente senso di appagamento – armeggiare la piccozza come una spada su pendii scintillanti alle prime luci del mattino. Bastava semplicemente l’occasione. Il mondo l’avrebbe sollevato lui. Al momento gli bastava un qualsiasi pendio innevato, un sentiero appena un po’scosceso, per immaginarsi alle prese con gli scivoli ghiacciati del Cervino o ingaggiato in una “Walker “ del tutto artigianale.

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Le montagne di Walter

Il battesimo alpinistico, tuttavia, avvenne solo alcuni anni dopo. E fu curioso ed al tempo stesso emblematico che la prima vera “alpinistica”, condita di corda imbrago e attrezzatura fosse poi – al netto della giornata – una sonora batosta. Al tempo non faceva certi calcoli, perché viveva ancora in quella strana dimensione che è il passaggio tra infanzia ed adolescenza dove tutto sommato si crede che il mondo, là fuori, non aspetti che te. La montagna si presentava in aspetto inusuale, quel giorno, precocemente corazzata di neve e ghiaccio che intarsiavano cenge e fessure dopo una nevicata settembrina. Eppure appariva ai suoi occhi come quelle visioni soggioganti del Bianco di Bonatti: non c’era perciò motivo di pensare che la realtà fosse poi tanto diversa dai suoi sogni. I “vecchi” però quel giorno preferirono evitare altri guai o forse dare un esempio di sapienza e ponderazione. Il capocordata intimò la ritirata e il ragazzo ubbidì, fiero di partecipare a quel momento così solenne che mette di fronte l’uomo alla grandezza della montagna. Quante volte il grande Walter era tornato indietro? Quante doppie nella bufera, quante rinunce, prima di spuntarla –  come sempre – sulla montagna? Il suo eroe avrebbe senz’altro assentito. La ritirata aveva persino un che di onorevole, perché naturalmente onesta, sempre schietta, raramente pavida. Vi è più grandezza in una ritirata, per quanto amara essa sia, che in un azzardato tentativo. Anche perché essa nascondeva inside ed esigeva esperienza. Nel dubbio, comunque, il ragazzo fu calato come un pacco postale dall’alto. I ramponi stridevano sulla roccia, la neve nascondeva ogni anfratto ed ogni cengia e i guanti di lana sottili non bastavano a trattenere il tepore. Eppure tutto questo non contava. Si sentiva un vero alpinista, come quello della copertina del libro ed arrivato sul nevaio si slegò con fare esperto, si sedette nella neve e piantò la piccozza a mezz’asta. La guardò soddisfatto;  sembrava proprio la piccozza di Walter Bonatti.

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Sostammo appesi, a metà del diedro che indicava la soluzione pur senza concedere spazio ad eccessi di euforia. Il cielo era un triangolo disegnato nell’angolo acuto delle pareti, che si scuriva sempre più per l’addensarsi delle nubi. Sibilava il vento dietro lo spigolo, ogni tanto un refolo gonfiava la corde nel cielo. Chicchi di grandine, il tonfo di un tuono che si espandeva tra le gole. Un grido di incoraggiamento dall’alto, accompagnato da un’altrettante incoraggiante tirata alla corda. Infilai le mani in fondo alla fessura per risalire metro a metro il diedro mentre attorno s’addensava una piccola tempesta. Vedi, Walter, che un giorno ci saremmo incontrati? Una scenografica grandinata suggellò gli ultimi metri, fin quando guadagnai la pacca sulla spalla di Andrea alla sosta.

“Visto” – gli dissi, preda dell’euforia – “il Pilastro Bonatti, il diedro Bonatti…”.

“e la tempesta alla Bonatti” – rispose con un filo d’ansia – “me la sono vista brutta … friggeva tutto qua attorno!”

Ci guardammo, rincuorati ora da un ottimistico sole. Per imitare le gesta di Walter ci sarebbe stato altro tempo. Altre montagne. I nostri giorni grandi. L’alpinismo, del resto, è quel gioco in cui forse non superiamo mai del tutto la nostra linea d’ombra.

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