Sirene/2

Sirene parte seconda ( parte prima )

70 anni dopo

Scivolo veloce nel buio con il solito passo felpato. 4.50, notte profonda in questa domenica che scollina il ferragosto. Poche pattuglie in giro, quelle di una normale domenica mattina, in una normale giornata del 2014. Le onde radio sfumano man mano mentre passo veloce paesi addormentati, valichi e valli, riportandomi solo frammenti di guerre ormai lontane. Sorseggio caffè dal termos, sulle labbra ancora il sapore di un saluto nella penombra e una piccola bugia. Non l’avevo mai fatto prima, mentire sulla meta per non accumulare le preoccupazione di chi sta a casa. Troppo difficile spiegare che tra qualche ora, se tutto andrà bene, starò penzolando in qualche maniera poco decorosa tra i tetti della Tofana. Perché è sempre stupefacente osservare la nostra capacità di mentire innanzitutto a noi stessi. Quasi come un gioco in cui si cambiano e ridefiniscono regole di volte in volta. Regole che noi e solo noi stabiliamo, ponendoci limiti e vincoli per poi infrangerli e nuovamente ristabilire nuovi confini.

Alba del 17 agosto 2014, direttamente disteso nel retro della mia auto mi godo, attraverso il parabrezza posteriore bagnato di rugiada, il sorgere del sole sulla monolitica piramide dell’ Antelao. Il mio compagno dorme ancora e cerca di ripararsi dai raggi del nuovo giorno infilando la testa ancora più a fondo nel cappuccio del sacco a pelo. Mi godo lo spettacolo veramente unico e per di più senza dover fare alcun sforzo, che non sia lasciarmi coccolare dai tiepidi raggi del nuovo giorno, ancora comodamente disteso. Con il sole oramai sorto, esco dall’auto , mettendomi addosso tutto quello che trovo a disposizione nello zaino. Nonostante il mese possa suggerire temperature tiepide e confortevoli anche la mattina presto, oggi il termometro dista molto di più dalla doppia cifra che dal fatidico 0. Ancora intorpidito dal freddo, osservo le altre cordate che si preparano. Facce buie o assonnate, movimenti che tradiscono tensione ed un eccitazione che è quasi fretta di arrivare il prima possibile con le mani sulla solida dolomia. Chissà se trasmetto anche io queste sensazioni visto dall’esterno? Attendiamo l’arrivo di Luca e Saverio ed il pilastro della Tofana si incendia nella luce del mattino rivelandosi in tutta la sua verticalità e luminosa bellezza. Sembra fatto per essere scalato. I nostri amici arrivano e le cordate si formano, in rigoroso ordine geografico. Saverio e Nicola i friulani io e Luca i veneziani.

 

Eccomi di nuovo qui, in quest’ora che rivela il giorno e una curva mi prepara all’incontro. La colonna rosata del Pilastro emerge dal mare scuro della notte. La stessa emozione di qualche anno fa, al primo incontro. Sono tornato per una promessa che in realtà è l’ennesima prova delle mie contraddizioni. In un pomeriggio inoltrato di settembre quando quasi in cima al Pilastro della Rozes dopo aver salito la Costantini-Ghedina allo spigolo osservavo quasi inconsapevolmente l’uscita di un’altra via del “Vecio”. La via perfetta, quella del Pilastro. Eravamo felici ed appagati dalla salita appena conclusa e l’aria leggera di settembre sembrava aver persino svuotato gli zaini, o forse era solo la consapevolezza che le difficoltà erano ormai finite. Ma questo mondo è fatto di sirene pronte a cantare ed ammaliarci ogni volta al nostro passaggio, pronte a scovare le nostra fragilità ed inconsistenze. Le nostre umanissime debolezze.

Dubbi, pensieri, ansie, aspettative. Tutto finisce di colpo, alla vista dei compagni. La faccia di Nicola è piuttosto sbattuta (vorrei vedere dopo essersi bevuto lo spigolo Strobel ieri come aperitivo!), ma confido nei suoi avambracci per superare i passaggi chiave.

Lungo l’avvicinamento si parla, si ride, si sta zitti, senza guardare negli occhi le sirene. Io e Carlo siamo particolarmente silenziosi. Sappiamo entrambi cosa vuol dire trovarsi qua, oggi, in questo sole che sembra un miracolo o un puro caso, catapultati d’improvviso da una profonda depressione alpinistica all’eccitazione da grande salita. In un certo condensiamo attese, speranze, delusioni in questi 600 metri gialli e grigi che ci sovrastano e come sempre riescono a trasmettermi una particolare energia positiva. Ma è solo all’attacco, poggiando le mani sulla pancia dell’elefante che improvvisamente ci si immerge nell’azione. Ci distendiamo come serpi lungo la linea regolare della fessura grigia, assaporando il piacere quasi sensuale della pietra rugosa sotto i polpastrelli, per poi raggomitolarci sotto la fascia di strapiombi. Siamo andati veloci quasi scherzando tra uno strapiombo e l’altro, ma ora la faccenda si fa seria e le facce si scuriscono.

Partiamo veloci lungo il breve avvicinamento che ci deposita sotto la parete, fortunatamente siamo i primi. Le corde si distendono e tutta la prima parte della salita scorre vie abbastanza velocemente con una bellissima arrampicata su solida dolomia grigia, applicando sistematicamente di fronte ad ogni strozzatura strapiombante che incontriamo, il noto metodo “cinghiale” , che come un mantra Nicola ci ripeterà per gran parte della salita : Rifiuta la tecnica, abbandona il laterale, lancia e stai frontale, usa il metodo cinghiale!.

Con questa tecnica di progressione sopraffina, ci troviamo presto sotto la fascia strapiombante gialla centrale. L’entusiasmo cala e le i nostri sguardi si incrociano con un filo di preoccupazione. Sopra di noi penzolano nel vuoto spezzoni di cordoni e fettucce appesi a qualche pezzo di ferro dolce, infisso nelle spaccature della dolomia da almeno cinquant’anni. La progressione, per i capi cordata, passa da cinghiale a circense solo un po’ più elegante per i secondi che azzardano a tirar la libera, con la serenità di una corda ben tesa dall’alto.

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– Iniziano i tetti –

Il vuoto si fa sentire, ma i tiri intermedi ai due tetti, sono strepitosi , grazie alle infinite ripetizioni la roccia è ben ripulita e qualche zampata bianca suggerisce, ogni tanto, l’appiglio migliore.

In breve ci ritroviamo sotto il secondo tetto, all’apparenza meno pronunciato del primo ma in quanto a vetustà delle protezioni ancor più impressionante, tanto che in fase di uscita non mi capacito come sia possibile che il rinvio che tiravo furiosamente per alzarmi oltre il bordo del tetto, si ritrovi semplicemente appoggiato su un piccolo ripiano d’erba. Presto detto, l’ultima protezione in uscita dal tetto è costituita da un piolo di ferro conficcato verso il basso.

La visita nel museo del chiodo prosegue. Come usciti dal giro della morte nelle montagne russe, riacquistiamo la dimensione orizzontale guadagnando la cengia , dove Costantini e Appollonio hanno bivaccato, sotto la mitica Schiena di Mulo.

 Nicola conduce sicuro e preciso anche nei tiri “gialli”. L’esposizione si fa particolarmente scenografica, mi sento come la  macchietta dell’alpinista nel dipinto ad acquerello di una baita di montagna. Staffe, corde, acrobazie. Manca solo camicia di flanella e berretto rosso e sono a posto. La realtà è meno pittoresca e fatta di respiri affannosi, bestemmie ed imprecazione variegate e, almeno per il secondo al traino, la nenia regolare del “TIRA!”. Il primo tetto lo passo senza guardare, nei gialli cerco di recuperare la dignità di un alpinista provando persino a scalare bene. Passo al centro, sfalsata, triangolo. Il fatto di essere in due cordate oggi è come la brezza fresca che asciuga il sudore. C’è sempre uno sguardo amico cui affidare le proprie preoccupazioni, una battuta da fare, un consiglio da chiedere o regalare. Al secondo tetto cedo ogni pudore. Mollo i piedi e mi aggrappo in maniera scomposta ad un “qualcosa” che esce dall’erba. Ma cos’è? Un paletto di ferro! Non voglio guardare. Gomiti, ginocchia, denti. Ogni articolazione ed asperità è utile. Riemergo dal vuoto come un naufrago ripescato da un mare in tempesta. Siamo alla seconda cengia.

 Il silenzio cala, la tensione sale. Quasi in religioso silenzio osserviamo tutti con sommo rispetto, quello che da sempre ha rappresentato un luogo mitico, nell’immaginario collettivo di ogni dolomitista, i racconti, le impressioni e gli aneddoti, raccolti da chi è passato prima di noi su questo tiro, sono stati snocciolati lungo tutta l’ascensione. Il tiro più bello, il più brutto, non si può parlare di arrampicata etc. etc. Tutto in questi quaranta metri.

Io e Nicola sediamo, spalle alla parete, sul mucchio di corde ammassate come un improvvisato sofà. La pausa si prolunga oltre il dovuto, mentre ogni tanto storciamo il collo per osservare la bocca spalancata dell’antro che ci sovrasta, da cui penzolano cordini bavosi di vario tipo. Per alleggerire la tensione provo ad osservare che in fondo “si tratta di un camino: e come sempre in un camino un modo per arrabattarsi lo si trova!”. Questa magra consolazione da quartogradista sempre a caccia del passaggio meno esposto e possibilmente meno elegante, verrà clamorosamente smentita da lì a poco. Il tiro sembra averle tutte: stretto non abbastanza da incastrarsi, ma tanto da impedire una arrampicata sciolta. Maledettamente esposto sebbene si parta da una comoda cengia. Liscio eppure friabile. E comunque strapiombante e freddo. Serve altro? Nicola indugia, ma contiamo tutti su di lui quale testa di un bruco che man mano si aprirà la strada dentro e attraverso la “Schiena di Mulo”.

Se il tratto chiave è costituito dalla Schiena del Mulo, la partenza invece ne affronta le viscere. Nicola si alza invocando la benevolenza del sistema gastroenterico della bestia, fino a che non raggiunge i primi cordini penzolanti appesi dove solo l’equino sa. Signori e signore: il circo ha inizio. Si allunga, si slancia, staffa sbuffa, fino a quando sembra stia per uscire da quello che pensiamo tutti l’ultimo passo impegnativo, e li urla “blocca!!” Riposa e riparte ma poi pronuncia quello che nessuno di noi avrebbe voluto sentire. Ho finito la benzina! Il mio sguardo si incrocia con quello di Saverio e tutti e due ci chiediamo – E adesso ? – Se l’uomo dello spigolo Strobel in sei ore, ha finito la benzina nel bel mezzo del tiro chiave, qui non c’è più tanto da ridere. Nel frattempo volgo lo sguardo verso il mio compagno, che dall’ingegneristica flemma, accenna al fatto di come il giovinastro friulano non possieda ancora tutte le doti del bravo artificialista dolomitico, essendo maggiormente dotato a salire in arrampicata libera. Questioni anagrafiche insomma, penso, mentre realizzo che il più vecchio capocordata sulla piazza per il momento rimango io. Sic !. Mentre ci trastulliamo con ragionamenti poco utili al superamento del tiro, Nicola riparte e sale veloce la seconda parte arrivando in sosta. Parte Saverio dietro al quale mi metto all’inseguimento, usandolo come apripista e godendo di qualche rinvio lasciato nei punti strategici per risparmiare qualche sforzo. Tanto è gradito il servizio, che salgo quasi divertendomi e incalzando Saverio ad ogni passaggio. L’uscita dal tiro, rimette di buon umore tutti, oramai siamo fuori dalle difficoltà e si inizia ad assaporare, il piacere della vetta.

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– Le viscere del Mulo 

Seguono altri tiri, tutt’altro che banali, ma il fatto di essere usciti dalle difficoltà maggiori ed aver portato il nostro omaggio a quella formidabile cordata di Cortinesi (Vecio e Nano) ci rilassa e ci conduce velocemente all’uscita dal Pilastro, avvolto nelle nuvole pomeridiane. Nel frattempo, il sole se è andato, le nuvole salite, il tempo volato, la temperatura abbassata. Una giornata è cambiata attorno a noi nei colori, nei paesaggi e nel clima, ma non ce ne siamo resi conto fino a quando non siamo usciti in vetta, troppo concentrati fino ad all’ora su appigli e appoggi. Ora seduti sulle pietre della cima, i muscoli e la testa si rilassano e lasciamo che salga quella bella sensazione di euforia e ubriachezza che ti sale quando sai di esserti messo in gioco ed aver superato, una salita impegnativa. Grazie Ettore e Romano per averci fatto un così bel regalo.

 Quando finisce una via?

I più sportivi potrebbero dire che superato il passaggio chiave questa perde importanza. I più prudenti osserverebbero che la via finisce a casa nel proprio letto dato che discesa, birra e corsa in auto sono altrettanto pericolose. I più classici direbbero senz’altro in cima!

Anni fa, un vecchio alpinista mi raccontava con un velo di saccenza che i traversi sono la vera misura della qualità di un’alpinista. Se non possiedi un adeguato “frame” emozionale non potrai mai affrontare serenamente i traversi. E quindi nemmeno essere un vero alpinista. Con aria boriosa mi raccontò del volo di un suo compagno su una famosa via e della conseguente ritirata. Il compagno, evidentemente, non era all’altezza.

In tutta questa salita più volte ho percepito e confermato la mia inadeguatezza. Dalla prestazione poco decorosa dei due tetti all’indecifrabile scalata della Schiena di Mulo. Di fronte alla sfilata di camini diedri d’uscita passo davanti in silenzio più per una forma di ringraziamento al mio compagno di cordata. Mantengo alta la concentrazione, sento che non è veramente finita.

Perché c’è un momento in cui la via finisce, è un istante brevissimo che è difficile vedere quasi come la scheggiatura invisibile di un bicchiere.

Affronto il lungo traverso di uscita dalla parete. A dispetto della difficoltà sulla carta più che abbordabile mi sembra piuttosto lungo e per nulla banale. Passo passo mi allontano dal compagno e dalle certezze.

Tasto, saggio, osservo. Non siamo in Carniche o in Giulie, ma evidentemente le porto nel DNA visto che non mi fido mai di nulla. Un passo è delicato, afferro un pilastrino la cui forma tonda pare affidabile, ma è un attimo. Allento la morsa e lo tengo nel palmo della mano. Un gelo mi assale. Guardo dietro di me. I compagni annidati nella nicchia della sosta mi osservano in silenzio, senza capire probabilmente. Lancio il sasso nel vuoto, non seguo la sua traiettoria ma proseguo oltre finalmente sollevato, libero. Finisce, una via, in questi istanti impercettibili, quando a noi si rivela l’errore, in cui possiamo vedere la linea di rottura, e comprenderlo.

Pochi minuti dopo mi ritrovo nello stesso luogo di quel pomeriggio di settembre. E sorrido. E mi rassegno. Perché vincono sempre, le sirene.

Gransi e Scoiattoli 1979 – Enigmantico sguardo tra l’Orso vincitore della parete Nord del Campanile di Val Montanaia e il Vecio domatore del Pilastro della Tofana                                                                                                                                    – foto arch. Gruppo Rocciatori Gransi.

 

 

 

 

 

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