Una o due cose, sullo Stenar

di Saverio D’Eredità

Io sullo Stenar volevo dire una cosa o due al massimo. Che ovviamente è una montagna molto bella e se vista dal Triglav molto elegante e anche il Triglav visto dallo Stenar è meraviglioso e quindi mi immagino i due, Stenar e Triglav, che ogni mattina si fanno i complimenti l’un l’altro di quanto stanno bene. Che lo Stenar è anche una delle pochissime cime delle Giulie che puoi partirci con gli sci diretto dalla cima, almeno per noi sciatori senza qualità e fantasia, e che sembra fatto apposta quel pendio che ogni curva fai un inchino al Triglav.

Volevo dire una cosa, ma anche due in effetti, sullo Stenar, che ogni volta che ci penso o me lo chiedono, metto una faccia tipo vecchio lupo di mare che ha cacciato nelle baleniere giapponesi e dice “Ah, lo Stenar” tipo “ah! Il mare di Barents!” perché con lo Stenar c’ho avuto delle storie complicate. Di quella volta che sono salito a giugno che pareva marzo e la neve in vita e un freddo cane (quindi sarebbe un’invernale, di fatto). O di quando poco sotto la cima ci siamo fermati un momento a metter su la giacca che tirava vento e il Batti si è girato a pisciare e un colpo di vento lo ha prima messo in ginocchio e poi sbattuto per terra con la faccia nella neve e il coso pure. E un secondo dopo è arrivata una nube nera tipo Mordor e ci siamo rintanati in una dolina che sta proprio alla fine del traverso prima della cima. La nube ci ha letteralmente inghiottiti per mezzora, tanto che a un certo punto ci siamo detti e “mo che cazzo facciamo”.

Che lo Stenar quella volta, quella dopo Mordor e il Batti a faccia in giù, siamo scappati giù per la Sovatna e il vallone era una ghisa mortale e io la ghisa (ghisa: dicesi di neve talmente dura da non essere scalfibile manco dalla fresa) non la so sciare e allora a metà vallone ho fatto un numero da equilibrista per togliere gli sci mettere i ramponi e non perdere nulla – da quella volta lo Stenar è tipo un archetipo della gita sfigata, nel nostro immaginario.

Che lo Stenar, un’altra volta, c’era una nebbia, ma una nebbia, di quelle che ti ribalti da solo da fermo. E quindi in cima che ci andiamo a fare.

Insomma, sullo Stenar altro che due cose: mille ce ne sarebbero, ma ne voglio dire una. Che però riguarda anche tante altre montagne delle Giulie e slovene in primis che ovviamente sono superiori a tutte le altre (del mondo, che discorsi) perché a un certo punto basta con questi giudizi ponderati, basta moderazione e un sano arrogantissimo localismo mi fa bene, specie ora che si apre la stagione del “si potrebbe andare 3 giorni a…” e non si fa nulla anche quest’anno.

E quindi, vi dico, dove le trovate montagne dove potete sciare tutti e dico tutti i tipi di neve possibile? Si, non dico in un giorno con gli impianti, ma proprio sullo stesso monte! Che c’abbiamo avuto la neve arata, la neve arata, ma senza fondo, la neve cartonata e al tempo stesso ventata portante (nello stesso raggio di curva intendo), e poi la pistata e poi ancora la farina pesante e quella meno pesante. Poi la trasformata (2 o 3 secondi mi pare) e il firn (un momento proprio). E poi il cemento “sablè” diciamo (accogliamo quindi la neve sabbiata nel nostro gergo, ci darà tante gioie nel futuro mondo climaticamente impazzito che non avete idea), che è insciabile secondo me. E poi la polvere. Polvere vera, altro che gennaio, polvere per 100, 150 metri che stai già pensando come alzare la cresta poi con gli amici e invece – sbam! – crosta. Crosta portante. Indefinito. Indefinito portante un po’indurito. Gesso. Gesso mollato. Pappetta. Caffè shakerato (non ve l’aspettavate eh?) che è diverso da granita al caffè immediatamente successiva (il caffè è la sabbia di cui sopra inumidita). Poi panna. Panna con mugo sotto a rischio risucchio. Bagnata. Ghiaione.

Ecco, io volevo giusto dire una cosa sullo Stenar, ma in generale sulle montagne, queste montagne. Che quando torni giù (dove lo trovi un bosco di faggi centenari ti accompagna al prato dell’Aljazev dom, in un turbinio di neve che pare polistirolo?) con sci in spalla, scarponi pure e pantaloni arrotolati sotto al ginocchio ti sembra di portare un mondo intero sulle spalle. Vite intere. Universi interi. Che tutte quelle curve diverse, il cambiare assetto e posture e sguardi sono tutte un allenamento alla vita. Al non darsi per scontati ed essere preparati. A non aspettarsi niente e lasciarsi sorprendere da tutto e ad ogni istante. Questo andrebbe insegnato, questo andrebbe tramandato. Bisognerebbe sciare anche solo per questo. Per realizzare che non andiamo lì per prendere qualcosa, per consumare qualcosa. Ma per guadagnare qualcosa, per imparare qualcosa. Questo volevo dire, ora, mentre mi accorgo dopo anni che tutto sommato sto sentiero non è nemmeno così infame e io non so nemmeno così stanco. Cioè che mettendo da parte la perfezione, se si rinuncia alla perfezione (di una montagna, della neve, delle condizioni o della prestazione: traducete pure tutto questo nelle cose di ogni giorno), paradossalmente alla perfezione ci si avvicina di più. Alla completezza dell’esperienza. Che è ciò, in definitiva, che più conta.

Una o due cose volevo dire e invece, scusate, ne ho trovate mille.

Stenar mt.2501

Montagna elegante che fronteggia sul lato destro della Vrata, l’immensa muraglia del Triglav. Certamente il suo maggior pregio è la vista che spazia dalle Caravanche alla Val Trenta, dal Triglav al Razor. Inoltre, è meta scialpinistica di pregio, se non altro perchè tra le cime maggiori delle Giulie tra le poche sciabili direttamente dalla sommità. Due i percorsi possibili, entrambi dall’Alijazev Dom, eventualmente anche ad anello.

Da Nord-Est

Si prende dalla spianata antistante il rifugio il sentiero per Bivak 4 e Skrlatica. Risalire un fitto bosco di faggi sempre piuttosto ripido (normalmente poco sciabile o non sciabile per mancanza di neve a primavera), fin sotto una fascia rocciosa che si aggira a sinistra salendo poi per larici e mughete ad un ampio pendio sotto la notevole parete nord est. Si piega prima a destra poi, sotto una fascia rocciosa, a sinistra entrando nell’evidente vallone che conduce alla Stenarska Vratica, selletta tra Stenar e Kriz. Gli ultimi 50 metri sono più ripidi (45°). Dalla selletta traversare a sinistra prima in orizzontale poi in leggera salita ad una spalla, contraddistinta da una profonda dolina. Liberamente per ampio pendio di moderata pendenza (max 35°) in vetta (ore 4).

Da Sud ovest

Dall’Alijazev Dom si prosegue lungo il fondovalle (direzione Triglav/Luknja) e a un bivio segnalato (Pogacnikov Dom) si sale per una faggetta sulla destra. Usciti in campo aperto (resti di valanghe) si risale il largo e ripido vallone di Sovatna, fiancheggiati dalle pareti del Bovksi Gamsovec e del Pihavec a sx e dello Stenar a destra. In cima al vallone si accede all’affascinante altipiano del Kriski Podi. Si percorre in falso piano l’ampia insellatura verso ovest, quindi, in vista della pala sommitale si piega a destra salendo in direzione della Stenarska Vratica dove ci si ricongiunge all’itinerario da Nord Est e quindi in cima (stesso tempo)

Per entrambi gli itinerari il dislivello è 1500 metri.

Difficoltà: 3.3/E2

Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Il giorno della marmotta (piccolo aneddoto di zaini mangiati ed economia circolare)

di Saverio D’Eredità

Bisogna sempre concedere una seconda chance. Chiedete al mio zaino. Divorato da una famelica marmotta uscita dal letargo sotto la sud della Chianevate, sepolto sotto stratificazioni di altri zaini per quasi dieci anni con l’idea, la speranza o forse semplicemente l’indolenza nel non volermene disfare, e ora finalmente rinato. Esistono, le seconde chance, solo che il nostro modo di pensare, il nostro modello sociale, vorrei dire non le considera nemmeno. Se sbagli sei fuori, dicevano. Non hai scaricato l’aggiornamento, mi notificano. Quello è il passato, mi commentano.

Eppure non è sempre così. Prendete il mio zaino. Che ci ero affezionato, io, e non perché ci avessi fatto chissà che (anche se ha pur sempre passato tra i rovi del Selvaggio Blu) e nemmeno per chissà quali grandi qualità tecniche. Ma perché l’avevo vinto. E le cose che si vincono, come quelle che ti regalano, ecco, ci tieni di più. Non è un ragionamento economico o, se così fosse, sarebbe controintuitivo. Però se – per dire – perdo, distruggo o danneggio una cosa per cui ho speso dei soldi, più che inveire i santi, o darmi dell’imbecille posso fare poco. Ma una cosa che vinci ha un valore diverso, intangibile.

Questo zaino l ho vinto per essermi classificato (settimo, ma gli organizzatori si vede che erano di manica larga) ad un concorso letterario promosso dal gruppo Gamma, uno dei gruppi alpinistici di Lecco. Quel racconto, Polvere e spit https://rampegoni.wordpress.com/2018/09/05/polvere-e-spit/, è stato forse il mio primo racconto lungo e si è meritato questo piazzamento. Piazzamento in cui il prestigio non era tanto la posizione in sé, quanto essere stato invitato a ritirare il premio proprio a Lecco, capitale morale dell’alpinismo italiano. Insomma, vi invitano a ritirare una medaglia a San Siro voi che fate?

Ora, non ho vinto granché ai concorsi, anzi, il più delle volte manco ti dicono cosa ne pensano del tuo racconto. Figurati leggerlo, premiarti e invitarti alla cerimonia! Già mi ero preparato il discorso sul palco, qualche osservazione arguta che lasciasse intende la mia competenza alpinistica di fronte ai “top” che avrei certamente intercettato nel “foyer”, insomma era un attimo che mi sarei trovato su un volo per El Calafate. Ovviamente il film fini quando annunciarono che avrebbero chiamato a ritirare i primi tre e gli altri potevano chiedere in segreteria. Vabbè. Comunque la sorpresa di quello zaino Camp 28 L, leggero, polivalente, oggettivamente ammiccante, era valsa la trasferta. Niente biglietto per la Patagonia, ma uno zaino “comme-il-faut” per la gioia delle spalle e dei compagni abituati a robe prossime all’Invicta della scuola.

Vita breve, tuttavia. Come il Fantozzi che si vede sottrarre da Robin Hood i soldi appena ricevuti anche io posso dire “neanche 20 minuti”. A dire il vero, neanche due anni! Ma ci sono giornate che iniziano con la stella sbagliata e quella della Chianevate lo era da subito. Inizio stagione, allenamento approssimativo dopo una stagione sciistica infinita, tanta neve in avvicinamento, nuvole basse e poca convinzione. Ma, si sa, abbiamo attraversato epoche in cui avremmo attaccato qualunque via, in qualunque condizione, purchè fosse verticale. Quella giornata è comunque passata alla storia. Per una “quasi-Plote”, terminata a due tiri dalla fine in mezzo ad una nebbia viscosa. Per una discesa a doppie costellata di incastri. Per un traverso che mi è parso eterno. E per la marmotta che mi ha divorato lo zaino. Belle eh, le marmotte. Ma sappiate che rimangono pur sempre dei roditori. Dei toponi molto grassi dall’aria simpatica. Ma pur sempre topi. E quando escono dal letargo si mangerebbero pure i sassi. O la plastica. Evidentemente spallacci e schienale dello zaino, belli impregnati di sali del mio sudore hanno costituito un bell’aperitivo post letargo. Così, toccato terra all’ultima doppia invece di trovare i miei affetti ho trovato brandelli di un “fu” bellissimo zaino tecnico. Il resto della giornata è stato uno snocciolare bestemmie, improperi e ogni genere di promessa di vendetta, abbandono dell’attività alpinistica, esilio. Qualcuno ce l’aveva con me. Le marmotte avevano punito la mia “hybris”. Quella giornata si concludeva quindi con il carico di frustrazione tipico dell’uomo moderno. La scarsa prestazione, il mancato raggiungimento della cima, il danno economico.

E lo zaino? E qui bisogna che ci facciamo tutti un esame di coscienza. Perché sarebbe stato facile prendere un sacco nero e dire “ciao”. Ma io all’economia circolare, in realtà, ci ho sempre creduto. Anche se non si chiamava ancora così e i vecchi (più vecchi, intendo), ti diranno che ai loro tempi “ago e filo e una toppa e avanti”. E c’avevano ragione. Io poi, ho sempre in mente Cassin che scala con la camicia di cotone, Hermann Buhl in cima al Nanga con k-way (e le anfetamine), o Bonatti con il sacchetto del pane in testa. E mi son sempre un po’vergognata di tutta sta roba brillante, pulita, efficiente che reperiamo con grande facilità – se si ha il bancomat sempre disponibile. E poi, vuoi mettere l’affetto? Non riuscivo proprio a liberarmi di quello zaino. Sapevo che prima o poi avrebbe avuto la sua “seconda chance”. Bastava solo aspettare. E quando Michele ha aperto il suo negozio, mi son girato verso lo zaino: era arrivato il suo momento.

L’economia circolare è concetto molto in voga, spesso accompagnato da supercazzole e argomentazioni fumose. Ma è chiaro che, in qualche modo, o andiamo in quella direzione o passeremo più tempo a spalare rifiuti che a comprare cose. Più che il concetto in sé, su cui siete liberi di disquisire quanto vi pare, io credo che bisognerebbe lavorare a livello mentale sulle vere esigenze, sull’adattamento e sul desiderio. Che tante volte basterebbe fermarsi e dire “ma mi serve veramente”? Oppure “ma sicuro che non riesco a farne a meno?”. Domande magari banali, ma provate a rispondere sinceramente. Provate ad applicarle veramente. Dura eh? Certo, magari tocca patire un po’di freddo in più. Sudare un po’ di più. O aspettare, un po’ di più. Anche 10 anni. Come il mio zaino. Prima o poi la seconda chance arriva.

ps: questo non è uno spot, per il solo fatto che ho pagato io 😃 per scrivere dello zaino – che se lo meritava – e di Michele, che si merita l’applauso per aver riportato in vita uno zaino a brandelli e per l’idea del suo negozio. Re_cuci store offre servizi di riparazione di capi tecnici per sport outdoor, cercando di recuperare e riadattare capi di abbigliamento con attenzione ai materiali e al design. Una bella idea, di un giovane imprenditore (si può dire?) che forse ci dice qualcosa sul futuro che dovremmo ascoltare. Riferimenti su instagrame pagina facebook https://www.facebook.com/profile.php?id=61551778941539

Zaini pesanti

di Saverio D’Eredità

Mi stavo giusto chiedendo l’altra mattina, caricando l’auto, se faccio sempre degli zaini pesanti perché non sono un alpinista top, o non sono un alpinista top perché faccio gli zaini pesanti. Tu dirai, “e vabbè”, ma son problemi, eh. Perché uno zaino leggero ti rende più veloce, più efficace, quindi più sicuro, sicuramente più “fit”, ma anche più “in”, per non dire più “cool” e tutta una serie di “più” che non stiamo neanche ad elencarli. Ti rende “più”. Che poi io ci sono andato con quelli bravi qualche volta, quelli che hanno lo zaino leggero e che al momento giusto tirano fuori da quello zainetto che manco ci andrei al mare, il cordino sottilissimo in kevlar da 30 metri con cui fanno tutto, che hanno i moschettoni contati precisi, i materiali giusti quelli che servono e poi non sudano mai e se sudano non puzzano (ecco, questa cosa mi rende molto, davvero molto invidioso), e hanno il capo giusto, l’assetto giusto. Io invece sono 20 anni che vado in montagna e ancora uno zaino leggero, uno zaino giusto, mica sono riuscito ancora a farlo. Deve essere proprio una “attitude” che non c’abbiamo, una postura, uno stile, che ci manca.

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E comunque ti sfido te, che sai sempre tutto, a sapere esattamente cosa portare e cosa no, se avrai caldo oppure freddo, se è giornata da thermos col tè o da bottiglia d’acqua. Se avrai bisogno di un negozio di alpinismo o quattro moschettoni e giusto il casco che non si sa mai. Quando ci si muove d’inverno, o sarebbe meglio dire “simil-inverno” la domanda “ma serve anche… (continua con capo di abbigliamento, bevanda o attrezzatura a piacimento)” è ricorrente. Che vi devo dire, sarà questa educazione da italiano medio, questa estrazione borghese o che sono meridionale e quindi il dubbio di avere freddo ti rimane, come quello di avere abbastanza da mangiare, abbastanza soldi e chiamare quando arrivo.

Ci metto del mio, ovviamente. Nel simil-inverno, in questa stagione che non si decide un po’come me quando faccio lo zaino, le salite che scegli, almeno da una certa quota in su hanno la stessa cifra di incertezza e definizione. Perché dal momento che non sei – questo è certo – un grande alpinista, finisci per bazzicare in quelle cose che “assomigliano” ad un invernale, ma senza crederci troppo. Ad esempio, ti scegli la “ferratina” per stare nella tua zona di comfort, come si suol dire, ma non sai mai quanto cavo trovi o quanto a lungo scavi. Oppure preferisci la “semplice” normale, ma poi finisce che tanto semplice non è, così da rimpiangere la corda abbondonata in auto. Per non parlare di quando si punta decisi su qualche canale solo per aver intravisto una webcam di una zona vicino e allora parte la ridda di incognite: c’è neve o ghiaccio? Sfonda o tiene? Le viti servono a qualcosa o servono solo a bucarti i vestiti?

Se parliamo di attrezzatura, poi, ognuno c’ha le sue teorie e ognuno i suoi perenni dubbi. Io di solito vado a “sentimento”, ma senza un piano vero e proprio. Con discreta arroganza, camuffata da saggezza, mi dico sempre che non si può portare tutto e che si deve far con quel che si ha. Salvo poi darmi ripetutamente dell’idiota durante la giornata. Salvo poi avere uno zaino comunque pesante.

Oggi, ad esempio, il “sentimento” mi ha portato a scegliere, nella semi oscurità di una cantina dell’alba due misure di friend “piccoli”. Rimasti elegantemente appesi all’imbrago per tutta una salita in cui ci siamo alternati tra disseppellimento di cavi, progressione in ferrata e in cordata, hanno avuto il loro momento di gloria quando si è trattato di affrontare – del tutto gratuitamente – un “couloir” dall’aspetto tanto invitante quanto ignota ne era la consistenza. Salvo scoprire, in quel famoso momento in cui la tua baldanza si esaurisce in un “ma se mettessimo qualcosa” che l’ombra della cantina ti ha ingannato e i friend sono si due, ma due della stessa misura. I restanti 80 metri, vorrei dire gli 80 metri “chiave” avrebbero dovuto quindi piegarsi al nostro equipaggiamento “minimal”. O noi, viceversa. Lungi dal fare un’apologia dell’alpinismo “clean”, “light” e altre menate del genere ciò di cui mi rallegro è l’aver trovato esattamente le due fessure della misura adatta a quei due miseri aggeggi esattamente dove servivano. Potrei dire che lo sapevo. In realtà è stata semplicemente una botta di culo. O la dimestichezza dei soci a muoversi con questi terreni senza fare troppo i precisini. Ovvero “farseli bastare”.

Farselo bastare è un po’ il mantra di questo genere di salite e se vogliamo di uno stile, ma vediamo di non darci troppe arie. Farselo bastare vuol dire tornare ad una certa concretezza, di prendere la montagna come viene e com’ è, aguzzando magari l’ingegno e adattandosi. Perché la rinuncia è una porta che deve rimanere sempre aperta. Farsela bastare, come questa montagna cui torno con una certa frequenza e senza troppi rimpianti.

Sono diversi anni ormai che, in questa stagione, regolarmente torno sulla Mala Mojstrovka. La Mala Mojstrovka, anzi la “Mala” per gli amici, è quel genere di montagna che ti da sempre qualcosa senza chiederti mai troppo. Ti fa sentire un po’alpinista senza tornare a casa tardi. Ti fa fare anche delle belle foto. Diciamo che è un po’il nostro parco giochi, il campetto sul quale abbiamo fatto partite memorabili. Ma pur sempre il campetto. Il punto è che siamo cresciuti e siamo rimasti al campetto. La “Mala” è l’anticamera di quello che avremmo voluto essere e non abbiamo avuto il coraggio di essere.

Ma che dire, allora, dello zaino pesante? Se alla fine hai avuto sia caldo sia freddo, se alla fine l’attrezzatura era comunque inadeguata, cosa ci sarà mai in quello zaino che non riesce, nemmeno sforzandosi, a farmi muovere come uno di quelli che con lo zainetto da scuola riescono ad essere prontissimi, preparatissimi, efficientissimi e perché no, pure bellissimi?

Lo zaino pesante è un po’ la cifra di un modo di essere, sempre carico di aspettative, mai troppo adeguato agli obiettivi che ci si pone. Lo zaino pesante, alla fine, non mi risolve proprio niente: è solo un fardello da portare che mi rende “meno” su tutto (meno veloce, meno efficiente e in fin dei conti pure meno sicuro) perché in tutta quella roba non c’è mai, non ci sarà mai, tutto quello che ti serve. Dallo zaino pesante tirerai comunque fuori due friend sbagliati e un cordino troppo corto e ti ripeterai che te li farai bastare.

Ancora una volta, con i nostri zaini pesanti, sbucheremo in cima alla Mala e guarderemo la fiamma della Skrlatica che si alza nel pomeriggio. Ci fermeremo, rapiti e immagineremo le prossime grandi salite che non faremo mai, perché non riusciremo a fare uno zaino che sia un po’meno pesante, a lasciare giù quello che non serve, a scrollarci di dosso le nostre paure.

Ancora una volta, ammetteremo che tutto sommato ci basta questo. Poter arrivare qui e immaginare i nostri mondi possibili. Tenere sempre quella porta aperta davanti a noi. Se abbiamo questo, in fin dei conti, abbiamo tutto.

Atlantide (o degli alpinisti estinti)

di Saverio D’Eredità

Cima Verde mt.2661

Per il versante Est – via della Spragna

“G.Kugy con A. e J. Komac, 13 nov.1892. In seguito ripetuta dallo stesso Kugy con A.Komac il 9 luglio 1893 e in seguito numerose altre volte fino all’inizio del secolo. Poi cadde nell’oblio. (…) Durante le prime salite sul passaggio più difficile dei massi incastrati “Venne usata una pertica a forcone con la quale si issava il capocordata per quasi 3 metri.” In seguito, venne messo un chiodo. Difficoltà presumibili: III e IV.” (Alpi Giulie, G.Buscaini, 1974)

Poche righe in corsivo sono abbastanza per creare un segreto e altrettanto per darti un indizio. Che spesso il mistero non sta tanto in ciò che ignoriamo, ma in ciò che crediamo di conoscere. Da tempo mi arrovellavo su quelle poche righe – erano un invito o una minaccia? – sulla scena della pertica e in generale sul senso dell’oblio.

Da tempo la osservavo quella cresta, così evidente, così lineare, eppure così invisibile. Come da tempo non mi capitava di alzarmi una mattina, incontrare i compagni e tagliare fuori dal sentiero senza che nessuno sapesse esattamente cosa ci aspettasse. (Il motivo, di questo tempo atteso, di questa indecisione, ce lo saremmo ricordati più tardi, col sole ormai alto, le decisioni prese, irreversibili).

Che questo genere di cose, questo alpinismo senza molto futuro e tutto sommato senza nemmeno troppo passato, vanno prese a piccole dosi, del resto. I suoi effetti sono a rilascio lento nel tempo dei giorni, dei mesi, vorrei dire persino degli anni. Perché senza dubbio viene da lì, dagli anni passati, da una memoria del corpo e degli occhi l’adattarsi a questi prati imperdonabili senza perdere l’equilibrio, passare attraverso certe creste sbertucciate eppure non muovere un sasso quasi fossimo gli abitanti del posto – che poi sono solo i camosci che vorrei dire di aver trovato persino stupiti della nostra presenza. Viene certamente dagli anni passati, da esperienza sepolte, tanto il sapere intuire il passaggio giusto quanto finire nel posto sbagliato. Ricordarsi che un canale, in Giulie, è spesso una buona opzione ma non sempre è una buona opzione.

Qual era dunque il segreto della Spragna? Perché era caduta nell’oblio dopo “le numerose salite” di cento e più anni fa? Kugy era certamente un fine osservatore di montagne con una lieve ossessione per il Montasio. E le sue guide gente con sufficiente pelo e una buona dose creativa. Sul passaggio della pertica per anni ho fatto mille congetture, che era una balla raccontata ai creduloni e magari la facevano drammatica per farsi pagare di più. Oggi, in realtà, penso soprattutto che quegli uomini barbuti, con giacche di feltro e baffoni, erano decisamente più “freak” di noialtri ben vestiti e ben informati che, al contrario, ci stiamo appiattendo sulle stesse cose. Questi ti andavano su per quei posti dissennati prendendo – magari al mattino, uscendo di casa, dalla stalla – una pertica a forcone e improvvisando questo numero da circo. Per poi accorgersi che la via era certamente grandiosa, sì, ma per andare in cima alla Nord si poteva far di meglio. L’attenzione di Kugy si spostò quindi in mezzo alla parete e la via della Spragna rimase in disparte, sprofondando in quell’oblio. Perché nessuno ha più seguito i suoi passi?

Questa forma di alpinismo è un bagno di realtà. Ti riporta all’essenziale. Alla terra che si infila sotto le unghie, a poche parole scambiate e solo per necessità, che ogni passo è una scelta, ogni direzione presa un’assunzione di responsabilità. Forse è per questo che ci spaventa. Non la fatica, ma il sapere che da qualche parte sbaglierai per forza, che il dubbio ti assalirà ancora. Ti spinge a rinunciare ad ogni certezza e – in fin dei conti – improvvisare. Essere consapevoli delle nostre scelte.

E dietro l’angolo, oltre la cengia che – come una porta segreta – ci ha condotto a scoprire la linea di fragilità della parete, abbiamo trovato la solitudine. Ma una solitudine così profonda, così totale, da fare quasi paura. Nessuno a quel punto ha detto più una parola. Bastava guardare quel vecchio piolo piegato e affidarsi ancora una volta, dopo 100 anni al cavo di guerra per capire l’oblio.

Alti sulla cresta, osservavo inabissarsi la nostra piccola Atlantide, portandosi dietro quell’oblio. E rimaneva solo il cavetto, il piolo, l’unico chiodo trovato e che aspetterà chissà quanti anni ancora, altri lettori di poche righe in corsivo di un alpinismo estinto.

Note

La “via della Spragna” è probabilmente una delle vie più dimenticate delle Giulie. Nonostante la sua linea sia molto evidente e logica (è il crestone che si diparte dalla Cima Verde e chiude ad oriente la grande muraglia settentrionale del Montasio, noto anche come “Cresta Berdo”) di fatto da 100 anni riceve rarissime visite, nonostante le difficoltà non siano elevate. Originariamente aperta da Kugy con le guide A e J Komac con lo scopo di salire direttamente dalla Saisera al Montasio e successivamente utilizzata a scopo bellico (sono ancora presenti alcune attrezzature), la via è stata abbandonata in favore della più nota “Diretta” – oggi attrezzata. Certamente una salita di questo tipo richiede una ottima esperienza nel muoversi su terreni di fatto tornati vergini, spesso esposti e su roccia non sempre affidabile (ma buona sulle difficoltà). L’orientamento non è molto complesso: noi abbiamo optato per l’attacco dal canalone della Torre Genziana invece del giro originale per la Cianrza. Oltre che più diretto è anche più divertente (passi di II su roccia ottima) e in ambiente grandioso. La salita sui ripidi prati della Cresta Verde è semplice, mentre più attenzione va posta nel tratto che porta sulla cresta rocciosa sommitale. Difficoltà di III con brevi passi di IV e uno più difficile ma agevolato da vecchio cavo di guerra. Discesa facile per la normale che si congiunge a quella del Montasio. Necessaria corda e attrezzatura alpinistica (qualche friend e chiodi).

Non un solo passo – pensieri di ritorno dalla Stena

di Saverio D’Eredità

Non mi è mai pesato un solo passo, su questa montagna. Non un solo metro di arrampicata, non una risalita da qualche dolina che – inattesa – si frapponeva alla successiva meta. Non ho contato mai le ore (e se mai è successo, era solo per curiosità che qua il tempo si sa, lo devi lasciar da parte) e nemmeno sbuffato per i contrattempi. Per una nuvola di troppo. Persino un temporale.

Ci siamo lasciati l’ultima volta, 4 anni fa, nella stessa maniera. Quando finalmente anche l’ultimo gradino che fascia la “Stena” è passato, ecco le prime gocce. Pochi minuti, ed è il diluvio. Testa incappucciata del compagno che seguo senza parlare né pensare, cercando riparo tra i primi faggi. Non mi è mai pesato nemmeno questo. Sarà perché qui ti senti a casa?

Parete Nord del Triglav – foto S.D’Eredità

E’ difficile spiegare come possa sentirsi a proprio agio nel ventre di questa muraglia lunga 3 km e alta 1 e mezzo. Le grandi pareti ispirano solennità, talvolta timore, più spesso stupore. Qui, oltre a tutto questo, anche una certa serenità.

La “Stena” “La Parete” per antonomasia delle Giulie Slovene, è un appuntamento ritrovato. Una vecchia abitudine da riprendere. Quella di filare veloci nell’alba verso il fondo della Vrata, disperdendo man mano con i metri le chiacchiere e accrescendo silenzio e distanza. Ritrovarsi all’attacco, accorgersi che bastano poche parole e tutto è già li – quello che serve, quello che cerchiamo. Tastare la roccia – sentire che è buona, laddove l’acqua corre e pulisce e smussa – intuire la cengia senza leggere la relazione e poi sfumare un tiro nell’altro, un’ora nell’altra. E anche perdersi, ma solo un momento e senza timori. C’è il chiodo di qualcuno che la pensava come te e forse si è ricreduto. Sentirsi parte di un qualcosa, scoprire che facciamo gli stessi errori e qualche volta quindi anche gli stessi sogni. Infine, lasciarsi assorbire pian pianino – ricordarsi che diamine! se è lunga – ma in fondo in fondo accettare.

Quando la via finisce sei soltanto a metà: ancora un cunicolo tra un nevaio tardivo che pare esser stato dimenticato dall’estate, ancora una cengia lanciata come un ponte tra universi. L’ultima paretina va scalata, amico, stringere le chiappe e possibilmente anche le dita. L’altipiano sommitale è un allunaggio.

Non mi è mai pesato nulla di questa montagna, nemmeno una ritirata, nemmeno l’ennesima cima rinunciata. Qui sembra davvero così poco importante. Sulla Stena ritrovo il senso di questo nostro andare che non è solo la via, il passaggio, il tiro o la cima. Paradossalmente, bisogna venire sulla parete più grande della montagna più alta per capire che i superlativi non importano. Tutti questi risultati raggiunti, questi presunti traguardi, qui svaniscono. Quello che ti importava era scivolare in questo mare grigio.

Ottavo tiro, appena dopo la Torre Bavarese – foto N.Narduzzi

In realtà non cerchiamo che questo. Esattamente il contrario di ciò che si crede o si presume. Chi non lo capisce prima o poi, si allontana annoiato. Non ci prende nessuna adrenalina, non ci esalta alcuna vittoria, non ci appaga nessun risultato. Nemmeno quella noiosa sfida con sé stessi. Qualche volta non cerchiamo altro che un po’di pace, un luogo dove stare, dove perdersi. Dove trovare. Qualche volta sono le montagne stesse a dirci cosa stiamo cercando. Anche oggi, ringrazio il Triglav per avermelo ricordato.

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Cresta Berdo, ieri e oggi

di Emiliano Zorzi

Alcuni anni fa, il semplice caso e la sempre presente “scusa” derivante dalla compilazione delle guide, mi ha spinto a visitare questi luoghi, che conoscevo solo di sfuggita. Il primo contatto è stato sulla via Rimmel, l’unica e prima scalata recente/moderna/conoscibile, mentre quelle “antiche” versano in stato di completo abbandono umano. Mi ha comunque incuriosito il fatto che, pur essendo questa lunga costiera di pareti ben visibile ed evidente dalla Val Saisera, non abbia ricevuto nessun tipo di attenzione arrampicatoria negli ultimi 50 anni e si sia limitata, precedentemente, a poche e limitate vie figlie di un altro mondo, altre possibilità e difficoltà che oggi non rientrano più nell’ottica e nei gusti dei frequentatori delle rocce attuali.

Oggi invece, estate 2023, all’ombra della muraglia del Montasio, le possibilità di vivere giornate in un ambiente severo e bucolico allo stesso tempo, di ripetere vie sconosciute e di trovare spazi per aprirne di nuove sono ancora grandi, senza alcun problema di convivenza o sovrapposizione di linee e stili. Un terreno dove ognuno, secondo la propria inclinazione, capacità, visione ed esperienza può e potrà avere modo di esprimersi, circondato dalla totale tranquillità quando non dalla solitudine.

LA GEOGRAFIA DEL LUOGO

La grande dorsale della Cresta Berdo si stacca verso nord-est dalla massa del Montasio in corrispondenza dell’elevazione della Cima Verde. Questa notevole cresta, che sul versante orientale è un intricato complesso di brevi salti rocciosi infestati dai mughi e dall’erba verticale mentre su quello occidentale presenta pareti dalla selvaggia bellezza alte fra i 200 e 500 m, digrada progressivamente verso il fondovalle della Val Saisera, e più precisamente sugli enormi ghiaioni pianeggianti della Spragna, con una serie di elevazioni e gobbe la cui lunghezza complessiva è di circa 2 km.

Poche di queste elevazioni hanno ricevuto un nome proprio, tanto che vengono indicate semplicemente con la quota. In questo scritto le quote indicate sono quelle ricavate dalla recente Cartografia Tecnica Regionale del Friuli Venezia Giulia che, a seguito delle nuove misurazioni, differiscono da quelle più datate dell’IGM, che hanno costituito anche la base per la storica Guida dei Monti d’Italia di G. Buscaini (ed. CAI-TCI) del 1974. Da notare che dalla dorsale principale della cresta emerge verso ovest il netto e imponente pilastro della Torre Gloria, mentre verso nord-est, separato dal corpo della cresta dalla profonda forcella omonima, si impone la massa rocciosa della Torre Genziana, la cui base affonda praticamente nel fondovalle.

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Sette anni: il Laila, il NOF e noi

di Saverio D’Eredità

Sette anni fa, il Laila Peak è entrato nelle nostre vite prendendo il posto della nostra innocenza. Non tanto perché fossimo più giovani e nemmeno perché fossimo così ingenui da pensare di essere immortali. Ma, questo è certo, qualcosa in noi è cambiato. Il giorno in cui il Laila è entrato, trasformandosi dal sogno della cima più bella alla cruda realtà di una notizia secca ed inappellabile, si è portato con sé anche una certa consapevolezza. Il giorno in cui abbiamo capito che Leo, il più bambino il più entusiasta di tutti, non sarebbe tornato ecco, forse quel giorno tutti siamo diventati un po’più grandi. Ma non meno innamorati.

Poteva finire tutto, e invece non è stato. Potevamo rimanere lì, attoniti come quando ricevetti il messaggio, sentire quella brezza leggera che sembrava soffiare sulle cose di colpo finire lasciando un vuoto, un silenzio, un non sapere cosa dire. Un mese dopo o poco più, ricordo bene, eravamo al Gilberti, sempre lì dove c’eravamo lasciati, pronti a riprendere il filo delle cose. Non come se nulla fosse stato, ma proprio perché qualcosa c’era stato. E toccava a noi alzarsi da quella pietra e andare avanti.

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Estate su una spiaggia solitaria

di Saverio D’Eredità

Quando è, come è che succede, che gli esseri umani perdono l’amore? Dove sta l’innesco del distacco, il fattore scatenante, dove nel corso del tempo, si perde la cura, l’affetto, l’attenzione per le cose, per i luoghi?

Ho sempre avuto una predilezione per i luoghi – per così dire – perduti. Non brutti, e nemmeno sfigati. Diciamo quei posti che una bellezza pure ce l’avevano – una loro bellezza – che è sfiorita o è solo passata di moda o magari chissà, nessuno capisce più come certe lingue antiche. I luoghi perduti – ci metterei dentro anche certe vallate un po’ “degagè”, case abbandonate, aree industriali dismesse – sono lì che ti guardano con occhi da cane di strada, pronte ad accoglierti con quel poco che hanno.

Ho conosciuto Premariacco uno di quei pomeriggi di gennaio dalla luce corta e l’umidità feroce. Con Loris accendemmo un fuoco con i rami trovati sul greto del torrente, annidati nei buchi da dove usciva l’odore pesante di piante marcite e ci sedemmo sulla spiaggetta a raccogliere quel po’di calore e quel tanto di fumo che il nostro fuoco emanava. Mi mostrò la sequenza dei traversi e mi disse che questo era un buon allenamento se rimanevo da solo. Senza saperlo, stavo apprendendo un’altra delle diverse declinazioni dell’arrampicare, quel “boulder” che poi sarebbe diventato una disciplina a sé stante, che una volta era solo un gioco e che anni io anni prima, istintivamente, praticavo sui muretti del parco. Senza saperlo, forse nemmeno volerlo, Loris mi stava predicendo un futuro inevitabile.

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Perseveranza

di Saverio D’Eredità

Una dote che sono certo si riconoscano gli alpinisti è la perseveranza. Del resto, quale pratica è più perseverante dell’alpinismo? Dove trovi gente capace di stare ore con il muso schiacciato contro un pendio o una parete e macinare chilometri e dislivelli per una montagna? O dormire 2 ore sotto un telo di plastica e con i sassi sotto la schiena e svegliarsi comunque pronta a camminare tutto il giorno. E’ così emblematica la nostra perseveranza che recentemente, visitando una mostra interattiva sul potenziale umano, ho notato come l’icona rappresentativa di questa dote fosse proprio un omino che pianta la bandiera su una montagna.  Dopo essermi agilmente auto assegnato un alto punteggio sulla perseveranza, ho effettuato il test di verifica. Il risultato è stato un po’deludente. La mia perseveranza è infatti risultata “Media”: nonostante il test mi dicesse “vai alla grande, Saverio! Riprova!” in realtà mi aveva abbattuto. Non sono così perseverante come credevo. Forse non sono manco così alpinista.

Che poi, chissà perché gli alpinisti si conferiscono le migliori qualità possibili. Sono pronto a scommettere che, oltre alla perseveranza, molti di noi diranno che sono amanti della solitudine e del silenzio (salvo poi intrupparsi su una cima peggio che sul Venezia-Trieste delle 18.14), della natura incontaminata (vedi buste della spesa che emergono come relitti dalle morene) e che vogliono stare lontani “dalla frenesia della vita moderna” (ma a questo ci aveva già pensato il Cynar). Tutte cose che ho visto o, meglio, non ho visto salendo sul Gran Paradiso.

La parete Nord Ovest del Gran Paradiso vista dal basso ghiacciaio del Laveciau – foto M.Simeoni

Il Gran Paradiso, per la Nord, era nella mia “wishlist” da tempi del tutto irragionevoli. Tempi in cui le viti da ghiaccio mi sembravano solo dei grandi cavatappi e in cui il meglio della mia attrezzatura era composto dal meglio delle sottomarche in commercio. Tempi in cui quel tipo di salite era per me assolutamente fuori portata e quindi costava poco metterle in lista. Tempi passati soprattutto a sfogliare libri. Ricordo di aver scoperto questa parete dal libro fotografico di Marco Bianchi “Sulle vette delle Alpi”, un elegante formato A5 con scatti panoramici di creste e pareti particolarmente estetiche. La Nord del Gran Paradiso veniva proposta in una tonalità rosa pastello dell’alba, che avvolge l’occhio del lettore tanto da lasciarlo minuti a contemplare quel lenzuolo steso sulla mole del “Gran Pa”, come quelli usati per coprire le opere d’arte. Ma in questo caso era il lenzuolo stesso l’opera d’arte. A suggerire un’idea di bellezza. A proposito, c’è ancora quella bellezza?

Negli anni ho man mano derubricato questa via a favore di altre mete più à la page diciamo, magari trascinato da ingiustificabili entusiasmi e autovalutazioni errate. In attesa di ricevere la nomina al Piolet d’or (stando per lo più a casa), la parete rimaneva lì preda di altre ossessioni e dei cambiamenti climatici. Ero forse diventato più bravo (suggerimento: no) o forse solo più snob (molto probabile)?

Gran Paradiso, parete Nord Ovest – foto M.Simeoni

Talvolta, più che gli anni, le capacità o le occasioni, sono gli eventi a cambiarti le domande. E se non ci fosse rimasto più tanto tempo per questo genere di salite? Se questo alpinismo un po’retrò – quello sì, perseverante, un tempo fatto di gradini nella neve, corda in vita, nessuna vite da ghiaccio ed estati fresche – fosse giunto al termine? Negli anni periodicamente buttavo un occhio alla webcam puntata sulla parete, notando come il lenzuolo si afflosciasse sempre più. Neanche più la luce rosa lo tingeva. Un miscuglio di ghiaccio nero e sassi lo rendeva cupo, vecchio e triste. Cambiavi webcam e te ne dimenticavi. E se non ci fosse più tempo? Se tutto questo, questa bellezza, domani sparisse?

Una primavera inaspettatamente fresca e nevosa mi ha fatto rimettere la pagina della webcam tra i preferiti del browser e riacceso il desiderio di salire quella parete. Perseveranti, abbiamo incastrato minuti, impegni e meteo per cogliere l’ultima finestra possibile prima di ricacciare in basso nella wishlist questa parete e, in un certo senso, rassegnarsi.

Vista della nord ovest del Gran Paradiso dal sentiero che sale al Rifugio Chabod – foto M.Simeoni

Prime luci dell’alba. Mentre risalgo scivolo della Nord, cercando di mantenere la concentrazione sulla sequenza passo, picca, picca, passo mi torna in mente il test della perseveranza. Per farlo devi individuare un tema e pensarci intensamente. Davanti a te c’è un tubo in cui una pallina da baseball si alza quando la tua concentrazione sale e cade quando pensi ad altro. “E’ importante non farsi distrarre per raggiungere il massimo livello” recitano le istruzioni. La mia pallina restava su qualche secondo poi piombava giù. Il grafico della mia perseveranza era piuttosto piatto. Nessun picco di concentrazione elevata, ma nemmeno cedimenti. Un po’come oggi. Non sono certo diventato più bravo, ma non ho mai smesso di pensare con desiderio a questo lenzuolo che si tinge di rosa al mattino. Ad essere parte di quel preciso momento, essere parte della sua bellezza.

Perseverare può pure essere diabolico. Ma talvolta è necessario. Perché funziona come antidoto all’inesorabile macchina del tempo. Vuol dire non cedere alla stanchezza e persino ad un certo conformismo. Vuol dire, in fin dei conti, essere riconoscenti. La perseveranza è una delle tante testimonianze dell’amore.

Gran Paradiso mt. 4061

Parete Nord Ovest

Una classica tra le vie di neve ghiaccio delle Alpi, che un tempo si presentava più ripida ed impegnativa e che oggi, con i cambiamenti climatici, sta mutando la sua fisionomia. Il richiamo estetico di questo scivolo regolare ed elegante è però ancora fortissimo, tanto che la via è sempre molto ripetuta negli ormai brevi periodi di buone condizioni. Per una salita ideale, infatti, sarebbe consigliabile avere nevi trasformate che permettono una progressione veloce ed altrettanto sicura.

La via più seguita è quella tracciata da Bertolone, Cappa e Giorda nel 1958 che affronta la parete al centro su pendenze omogenee tra i 45° e i 55°. La parete era stata tuttavia affrontata originariamente lungo le logiche costole di sinistra (Cretier-Chabod-Bon nel 1930) e destra (Adami-Ceresa, 1935) oggi generalmente disertate. La via viene anche scesa sporadicamente con gli sci (i primi furono Heini Holzer con Sigi Wald e Helmut Vitroler nel 1975).

Difficoltà: D, 45°-55° (qualche tratto può raggiungere i 60° a seconda delle condizioni e della traiettoria scelta), dislivello dalla base alla vetta 600 mt, di cui 400 lungo lo scivolo vero e proprio e 100 lungo l’estetica cresta sommitale che conduce su una cima probabilmente di poco più alta della più famosa “Madonnina” ,dove si concentra la stragrande maggioranza degli alpinisti. Discesa semplice lungo la normale.

Cresta sommitale del Gran Paradiso – foto M.Simeoni