di Saverio D’Eredità
Nella cultura occidentale parlare di strade equivale, nell’immaginario, a parlare di progresso. “Costruire strade” è infatti sinonimo di civiltà, di sviluppo in senso buono, quello che unisce territori, persone, culture. Che contribuisce a far circolare conoscenze e idee. Oggi, quando si sente parlare di strade, soprattutto in montagna, la prima reazione è di allarme. Strade? Ancora? Il sospetto non è fondato tanto su pregiudizi, ma su precedenti. Raramente infatti, negli ultimi decenni, queste strade hanno creato qualcosa di buono, assolvendo a quella funzione di “unire”. Semmai, piuttosto, hanno contribuito a “consumare”.
Di “cambi di paradigma” sono pieni vuoti proclami a diversi livelli. Nel lavoro, nella società, nella cultura. Ma il “cambio di paradigma” quando si parla di ambiente montano, sembra non solo non arrivare, ma agire in senso contrario. Purtroppo negli ultimi anni, nonostante una teorica “sensibilità” verso la tutela delle montagne come “patrimonio”, si è visto proprio il contrario. Strade aperte e nuove infrastrutture costruite con il pretesto di rendere accessibile, ma che di fatto consumano territorio. E intanto la vera accessibilità (che si traduce in servizi sociali o in vere opportunità per evitare spopolamento e perdita di benessere) rimane un miraggio.

Sulle montagne friulane, da qualche anno, sembra che l’unica proposta di “sviluppo” sembra essere costruire strade, allargare strade, sistemare (magari sbancando) strade. Ricordiamo il progetto di collegamento Paluzza – Rifugio Marinelli e ultimo (ma temiamo non il solo) collegamento tra la Val Pesarina e Sappada, attraverso il monte Talm, il Rifugio Chiampizzulon e Malga Tuglia. Ovvero sui tracciati dei sentieri CAI 227-228.
Alcuni giorni fa, parlando proprio di queste infrastrutture, un amico (non appassionato di montagna, quindi un ottimo esempio di persona estranea a certe sensibilità”) ha osservato: “Ma non trovi che queste strade possano migliorare l’accessibilità’?”. Questa osservazione, apparentemente di buon senso, nasconde un problema forse ancora più profondo. Il discorso dominante ha sequestrato il significato delle parole, così che rivestendo di termine come accessibilità, sostenibilità e resilienza si possa giustificare tutto. Mettendosi automaticamente dalla parte del giusto. Ma verrebbe da citare la famosa frase di Bertold Brecht “Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati”.

Non è una questione di essere pro o contro qualcosa, nella logica bipolare cui siamo sempre più abituati. E’ una questione di consapevolezza. Quello che sta accadendo sui sentieri CAI 227-228 che attraversano il pregevole ambiente alpino sottostante le pareti del Pleros, in Carnia, è solo l’ultimo, ma non il solo, dei tanti casi di cosidetta “valorizzazione” del territorio che pare non prendere in considerazione lo stato attuale delle cose. Sembrano, in altre parole, appartenere ad un’altra epoca, quando lo sviluppo coincideva con lo sfruttamento (poi chiamato “valorizzazione”). E che rischia di ritorcersi contro. Ecco un altro sequestro della parola “valore”: come può dare valore un progetto che – nei fatti – finisce per sottrarre quel valore stesso ai luoghi? Luoghi cercati e ammirati proprio per la loro integrità, che si amano in quanto non urbanizzati, dove prevale il tempo della Natura su quello dell’Uomo. Così come “accessibilità” è diventata la giustificazione di ogni intervento, così “valorizzare” diventa la parola magica che automaticamente mette chi è in disaccordo dalla parte del torto, di chi “non capisce”.
Il progetto di costruzione di una strada forestale in quel particolare territorio ha senza ombra dubbio un impatto rilevante sull’ecosistema alpino. Come altri progetti di questo tipo sono stati avallati ora con i fondi per il ripristino dei danni di “Vaia” (abbastanza ironico, che proprio il modello di sviluppo alla radice di alcune delle cause dello stravolgimento climatico sia ancora il rimedio per riparare l’errore), ora con i fondi europei del PSR. Fondi che, varrebbe la pena ricordare, vengono erogati dalle istituzioni comunitarie ma la cui effettiva gestione ed utilizzo spetta alle comunità locali. E questo è ancora più allarmante, dato che la decisione non arriva da un’autorità “lontana”, ma da quelle che dovrebbero essere più vicine ai reali bisogni. Dove l’ansia di “rendicontare” sostituisce l’obiettivo primario che è la vera tutela del patrimonio ambientale.

Come ricordato sul Messaggero Veneto del 7 settembre nell’articolo di Melania Lunazzi, questo progetto prevede 3km di strada larga 4,5 metri con cinque piazzole di sosta (di 144 metri quadri) per il passaggio di mezzi a motore a 1600 metri di quota. Progetto che, tra le altre, avrebbe anche dei fini legati all’esbosco (oltre a delle non ben precisate e indiretti effetti sull’attrattività turistica). Peccato che, sempre nell’articolo citato, viene ricordato “come iI tratto tra Tuglia e Chiampizzulon è infatti privo di boschi di produzione e presenta invece un “bosco di protezione” che ha la funzione di proteggere il territorio da franamenti e valanghe. L’area ha vari vincoli, tra cui quello idrogeologico. La nuova strada taglierebbe quattro canali di franamento, che comporterebbero costosi lavori di manutenzione che non si sa chi potrebbe essere in grado di sostenere lasciando l’area irrimediabilmente devastata. Oltre a intaccare un’area naturale di pregio si cancellerebbero le tracce di opere militari della Prima Guerra Mondiale.”

Ora, la domanda forte di fondo, è se questa è l’idea della Montagna che si ha oggi e per il futuro. Dove una malintesa accessibilità finirà per contraddire il senso stesso di quei luoghi. Rendendoli si più accessibili, ma al tempo stesso anonimi, omologati e in ultimo deturpati. Il nutrito (oltre 3000 iscritti) gruppo Facebook “Salviamo i sentieri CAI 227-228” (https://www.facebook.com/groups/1765997663733738) chiede a gran voce di prendere in considerazione gli effetti di quest’opera. Ed è sintomo di un sentimento profondo, di una vera coscienza che chiede un’idea di futuro.
Esserne consapevoli è il primo passo, che non si può esaurire nella singola iniziativa, ma che deve coinvolgere più livelli e creare il terreno per nuove idee. Ecco, viene da dire che al di là di tutto, mancano proprio le idee. E quindi si ripetono i gesti di sempre, senza la minima idea di futuro. Procedendo in strade senza uscita.
In questi giorni mi capita spesso di leggere un ottimo blog, cui rimando per letture più “aperte” sui problemi del mondo di oggi, curato da Giovanni Ludovico Montagnani la cui storia, da sola, merita una visita alle sue pagine. Riporto un pensiero che credo riassuma bene ciò di cui stiamo parlando: che sia oggi una strada in Carnia, un’infrastruttura impattante legata al turismo o progetti di urbanizzazione di ambienti naturali sotto il velo della valorizzazione.
“Non conoscendo l’ambiente poco antropizzato, il turista vuole ritrovare le sensazioni di casa o di uno spazio commerciale collocate in mezzo a degli scorci “naturali”. È comprensibile, ma secondo me è deleterio per il territorio che cede a questo modello di sviluppo: non possiamo più pensare di ampliare la capacità ricettiva dei territori meno antropizzati, antropizzandoli di più. Dovremmo imparare a riconoscere l’errore dello sviluppo sfrenato senza farne una colpa a nessuno e semplicemente cambiare modello di business”.https://dopolincidente.wordpress.com/2022/09/01/sono-abituato-a-sbagliare/