di Saverio D’Eredità
E’ l’alba del primo giorno dell’anno ed io c’ho pensato tutta la notte. No, non ai buoni propositi e nemmeno alle sorti dell’umanità. Ho lasciato l’anno passato semi addormentato nel frullato televisivo alternando uno stucchevole ottimismo (“sarà sicuramente un anno fantastico!“) ad inquietanti previsioni. Credo abbiano rispolverato una quartina di Nostradamus che profetizza altri cento anni di pandemia, mentre nei talk show noti intellettuali liquidavano la democrazia liberale (“bisogna aggiornare il concetto di libertà individuale del XXI secolo”) e altre proiezioni davano l’economia mondiale in forte regressione (“livelli pari a quelli che seguirono la peste del 1348!”). In questo quadro ho trovato più saggio disinteressarmi e concentrarmi su problemi imminenti e assolutamente rilevanti per la mia persona. Insomma, domattina vado o non vado? E se vado, porto i vecchi sci?
Li ho visti ieri, giù in cantina, o forse sarebbe meglio dire che loro hanno visto me. Loro, che mi hanno visto passare mille volte, un sorriso, un ricordo e poi via come sempre. Sempre più nell’angolo, più dimenticati. Di tanto in tanto qualcuno mi ha fatto notare che erano lì da un bel po’ e se ero sicuro di volerli tenere ancora, sia gli sci che i vecchi scarponi sfondati. Ma, obiettavo, se ci sono ancora dei dopo sci col pelo simil-yak anni 80 potranno ben starci degli onestissimi Silvretta del 2005, o no? Ieri sera, però, è stato diverso.
Perché se è vero che questo bislacco fine anno ci costringe a divincolarci tra il giallo, il rosso e l’arancione di matrice governativa, la Natura – unico vero governo planetario – ha aggiunto il colore più bello. Il bianco. Un Natale così, va detto, non si vedeva da un po’. Con la neve che scende con i tempi e le quote giuste, strato su strato senza danni e senza clamori, ad imbiancare tutto l’imbiancabile fino ai piedi delle montagne. Un Natale con le fioccate di mezzanotte e le palle di neve del mattino dopo. Con il pupazzo fatto bene con carota, berretto e bottoni (abbiamo scoperto che la “malta”, l’odiosissima neve collosa per noi sciatori è invece perfetta per i pupazzi) e il vialetto spalato. Un Natale che ci facciamo una bella foto con i bambini e la teniamo lì, così che anche noi – perdio! – tra 30 anni racconteremo che “ai nostri tempi nevicava a Natale!”
Con la neve fino al cortile, quella bizzarra idea è tornata a galla. Partire con gli sci dalla porta di casa e salire la prima montagna che ho sulla testa quando sono a Tolmezzo, ovvero lo Strabut. Dovete sapere che lo Strabut è una di quelle montagne per le quali non puoi provare chissà che innamoramento o entusiasmo. Al più affetto. A suo modo è imponente, anche se un tantinello sgraziato come tante pre-montagne. Isolato, tanto da renderlo autonomo, ma non abbastanza alto da aver una dignità. Ce l’ha per le telecomunicazioni, semmai. Infatti la cima è il ripetitore di mezza Carnia e, anche per questo motivo, tutti in qualche maniera lo conoscono. Svolge il suo ruolo, insomma. Ma da qui a considerarla proprio una montagna-montagna ne corre. Anche se, sappiatelo, se provate a salirlo farete fatica. Insomma, l’idea un po’goliardica era sempre rimasta in quel limbo che “tanto figurati, non succederà mai” anche perché subito arriva uno a snoccciolarti gli inverni veri (eh, ma l’85…e il 59…e il 23…e via fino alla piccola glaciazione) così da scoraggiarti. La tua generazione non ce la può fare a costruirsi questo ricordo. Ma stavolta non è così. Stavolta è possibile. E i tuoi sci te lo stanno dicendo. Anzi, chiedendo. “Se non ora, quando?”
È l’alba del primo dell’anno, mi sveglio come sempre prima di tutti e mi affaccio. Cielo plumbeo che promette altra neve. Magari sopra c’è polvere – primo pensiero.
Una signora passeggia col cane – no, è ridicolo dai.
Il vicino sposta il bidone della spazzatura – no, non posso farlo (però magari sopra due curve son belle). Facciamo che mi faccio un caffè e ci penso.
Me ne faccio due e decido che sì, bisogna andare. Scendo in cantina e mi preparo. Tiro fuori gli scarponi nuovi fiammanti, la tuta arancio e il berretto col pon pon. Gli sci, dei K2 wayback d’ordinanza. Pelli, zainetto. Via. Apro la porta. Ripassa la signora col cane.
Richiudo. No, non posso.
Si, lo so, ho un problema. Quando faccio sport son in imbarazzo. Non so da cosa derivi. Forse da quando cercavo disperatamente di giocare a calcio tra un cassonetto e un pino al parco della Favorita a Palermo, mentre accanto i palermitani fluivano incessanti con motorini e auto verso Mondello. Oppure quando arrampicavo di nascosto sui muretti al Parco del Cormor sotto gli sguardi infastiditi delle coppiette. In definitiva, ho un complesso. Mi sento a disagio e, soprattutto, mi sento giudicato. Scendo giù, ripongo gli sci d’ordinanza e di nuovo cade l’occhio sui vecchi sci.
“Se non ora, quando”? mi ripetono.
Li guardo. Silvretta pure, altezza 177, 71 cm al centro. Attacchi Silvretta 404. Ai vostri tempi non eravate neanche male. E tutto sommato il monocolore rosso e la serigrafia pulita fanno ancora stile. E poi, lo vorrai raccontare anche tu, nel 2050, che a Tolmezzo si partiva sci ai piedi o no? Va bene, ma solo per stavolta! Dismetto tutto, tuta arancio, giacca fighetta e berretto. Vesto di nero e grigio. Basso profilo e che nessuno ci veda, dico. Esco di casa, sento gli occhi di tutto il vicinato addosso e i plasticoni ai piedi fanno un rumore veramente odioso. Decido di infilarmi subito per il sentiero della rosta. Non posso reggere il red carpet della strada tra le villette. Così facendo sarò subito invisibile e abbasserò di ulteriori venti metri la quota di partenza. La mia gita di capodanno inizia a quota 300. Roba che neanche alle Svalbard.

Il mio set-up decisamente demodè è il seguente. Ai piedi i gloriosi Scarpa Matrix gialli, un signore scarpone per l’epoca, un po’pesante ma che tuttavia è stato a lungo il pezzo migliore della mia attrezzatura. Unico neo: sono rotti all’altezza dello snodo dello scafo. Soluzione adottata: chiudi tutto e nastra. Perché punk bisogna esserlo, prima di raccontarlo. Gli sci, come dicevo, sono i Silvretta pure. Ricordo ancora il giorno che li acquistai già di terza mano dal cugino Stief, il quale sarebbe poi diventato un compratore seriale di sci. Così mentre lui concludendo l’affare gongolava al pensiero degli ski-trab piuma che stava per comprare, io mi chiedevo cosa spingesse una persona a vendere degli sci che mi sembravano perfetti. Ovviamente di ski-trab, attacchini e leggerezza non capivo assolutamente nulla (quando dico che io con lo scialpinismo ho cominciato da zero, intendo proprio zero), ma soprattutto c’è il fatto che sono un pessimo consumatore. Nel senso che tendo a consumare l’oggetto portandolo a fondo corsa, piuttosto che cambiare di frequente e con periodici “upgrade” contribuendo così a far girare l’economia. Insomma, per la società dei consumi sono davvero un soggetto inutile. Magari, direte voi, sono di braccino corto. Può essere. Ma c’è anche il fatto che tendo ad affezionarmi alle cose. Che siano sci, scarponi, zaini, bici o automobili. Tutta roba che se non mi dura almeno dieci anni non se ne deve parlare proprio, di cambiarla. E anche quando superano l’anzianità devono proprio diventare inservibili prima di accantonarli (buttarli, mai).
Sta di fatto che comprai questi Silvretta e, manco a farlo apposta, recuperai degli attacchi in linea: i mitici Silvretta 404, un attacco davvero d’avanguardia (trent’anni fa), tutto acciaio ed essenzialità. Sono quei pezzi che escono con i materiali del momento, ma hanno una visione proiettata anni avanti. L’attacchino Dynafit sarebbe arrivato dopo, ma i 404 hanno fatto storia. Sono un po’come le Leica o le Zeiss compatte con apertura a soffietto. Oggi smoccoliamo per le mirrorless, ma quelle erano compatte con cinquant’anni d’anticipo. Insomma, con quell’assetto iniziai a sciare davvero.
Di quegli inverni degli inizi ricordo solo cadute (sempre) e nevi brutte (spesso). Ora non so se è perché ho cambiato tavole o sono un po’migliorato, ma a me pare che in quegli inverni ci fosse solo crosta in giro. In tutto questo, quegli sci monocromatici con la semplice scritta “pure” e il loro design ormai sempre meno aggiornato non mi hanno mai abbandonato. Li ho costretti a sostenere il peso di un pessimo sciatore, al tempo stesso incapace, irascibile e ostinato (un mix letale), ma hanno nel carnet anche una prestigiosa quanto sconsiderata spedizione extra-alpina sul Pico de Aneto. In tutto ciò ho anche preteso che stessero al passo con i tempi, le mode e gli amici. Amici che mi convinsero a passare ad altro, ad un certo punto, promettendomi grandi miglioramenti. Devo dirlo: ho cambiato sci – ad un certo punto – ma prendendolo sempre come un qualcosa di passeggero. Perché ho sempre pensato che solo questi fossero davvero i miei sci. Anche se li ho odiati, scaraventati, maltrattati. Loro erano sempre li.
Svicolo dietro i garage e salgo il dossetto della rosta. Sto immaginando volti indignati e sarcastici dietro le finestre. Ma oramai il dado è tratto. Al di là della rosta lo scenario dei Rivoli dell’Amaraiana è da tundra siberiana, sotto i piedi ci sono venti centimetri di nevaccia sporca e i miei Silvretta fedelissimi. Forse avevano ragione loro. Procedo sulla rosta con l’unico obiettivo di arrivare prima possibile nel bosco e senza incontrare nessuno. Obiettivo che raggiungo solo in parte: poco prima dell’inizio del sentiero vero, infatti, sbuca un podista, oggi meglio noto come “runner” che mi saluta di sfuggita e con quell’aria un po’colpevole di tutti i “runner” dal 2020 in avanti. Quella cioè di uno che si sente ancora un nemico del popolo e non deve dare troppo nell’occhio. Quindi non temo il giudizio del runner timorato il quale a sua volta teme il mio, di giudizio. Ci salutiamo con un cenno del mento. Quando imbocco la stradina dello Strabut sono in salvo.
Ora, voi vi aspetterete che questa storia abbia un qualche tipo di lieto fine. Che so, una nevicata pittoresca, un bosco fatato senza tracce, della “powder” da urlo inattesa. Mi spiace niente di tutto ciò. La salita dello Strabut, oltre che faticosa è anche piuttosto noiosa e come tante altre volte arriva un momento in cui “ad una certa” giro i tacchi e scendo – in genere intorno a quota 1000 – senza che ciò mi faccia sentire in debito con l’etica. Anche stavolta faccio così. Mentre cambio le pelli penso a cosa scrivere di questa prima salita dell’anno. Se soffermarmi sul concetto di scialpinismo a km 0 molto in voga in tempi pandemici, puntare tutto sulla decrescita felice alla Latouche o perchè no, lanciarmi in un sermone sul concetto di riuso. Magari divento testimonial di Patagonia, vai a sapere. Faccio una foto agli sci, ben piantati nella pessima crosta sulla quale mi troverò a scendere ancora una volta e penso al fatto che io le foto agli sci non le faccio mai.
Il motivo l’avrei scoperto poche curve dopo. Così come avrei capito perchè quei vecchi sci, i Silvretta Pure rosso fuoco, mi avessero insistentemente chiesto un ultimo giro.
Superata di slancio una cunetta avverto uno strano “crock” simile allo schioccare di un ramo che si spezza. Cado praticamente da fermo e capisco. Appena sotto la talloniera, un asse è spezzato di netto.
Non dico niente. Non un’imprecazione, un urlo o una lacrima. Sgancio gli attacchi e accarezzo l’asse spezzato. Ho capito adesso. Non si può solo ricevere e pretendere, nella vita. Qualcosa, prima o poi bisogna dare. Diligentemente carico gli sci sullo zaino e inizio a scendere.
Ecco cosa mi chiedevano i vecchi sci. Un finale come si addice a noi. Ostinato, imperfetto che a noi i lieto fine non ci interessano. O con lo scudo o sopra la scudo, come dicevano gli antichi. Soprattutto, un finale alla pari. Perchè dopo tutte le volte che i vecchi sci, con pazienza ed amore, mi hanno riportato a valle, oggi salderò il mio debito. Oggi vi riporto io a casa.
Erano soprannominati Silvretta Purè, per la loro tendenza a spappolarsi
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oltre 15 anni di onorata carriera…rispetto! 😀
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