di Saverio D’Eredità
“L’incontro con la Montagna ha cambiato la mia vita”, “Il mio sogno era arrampicare” “L’arrampicata ha dato un senso alla mia esistenza”. Quante volte avremo letto nelle innumerevoli, ridondanti biografie di alpinisti e climber queste frasi? Quante di queste storie, in fin dei conti, si assomigliano, senza che possano trasmettere il vero pathos che è poi l’essenza del narrare?
Bene, se siete anche voi annoiati da una letteratura di montagna conformista e appiattita, dove personaggi che – specie nel mondo attuale – hanno ben poco di interessante a parte talento e – evidentemente – una grande disponibilità di risorse (economiche e non), leggetelo, il libro di Andrea Di Bari scritto a quattro mani con Luisa Mandrino (ed. Il Corbaccio, 2018). Perchè nella storia di uno dei più importanti ed influenti scalatori italiani, venuto su nella piccola borghesia di una borgata romana, si trova forse un significato più sincero di ciò che l’arrampicata può rappresentare nella vita di un ragazzo.
Un ragazzo avviato ad una vita come tante. Tra scazzotate e bullismo di quartiere, piccola illegalità e una prospettiva di vita mediocre, come unico orizzonte possibile per chi viene da famiglie non particolarmente benestanti, ma nemmeno indigenti. Di chi ambisce a sistemarsi – un buon lavoro, una casa e pochi grilli per la testa. Ma anche una vita che spesso annichilisce lo spirito, che costringe a subire piccole vessazioni giornaliere, adattarsi e sopportare. Tirare a campare.
Ecco, è proprio in quelle prime pagine che Di Bari condivide con il lettore (chi sta cercando imprese eclatanti, descrizioni di passaggi estremi e chissà quale audace impresa potrà forse rimamere deluso se non annoiato), che assume spessore il personaggio e possiamo iniziare a sentire quanto brucia quel “Fuoco dell’anima”. Pochi autori sono stati in grado di farci comprendere quanto effettivamente l’arrampicata – intesa non come l’ideale dei tempi eroici, quanto piuttosto come l’unica prospettiva in grado di motivare un’esistenza altrimenti anomima e già scritta – possa effettivamente “tirarti fuori dalla merda”. E la definizione va presa alla lettera, se pensiamo ai degradanti lavoretti cui l’autore si adatta pur di tirare avanti. Ma non per quella prospettiva piccolo borghese, così familiare nell’Italia del post boom economico, quanto per affrancarsi da quella stessa mediocrità. Per perseguire quello che è stato realmente un sogno, inteso come rivelazione onirica al di là della ragione.
Di Bari conosce la montagna quasi per caso. Le vette delle Alpi Centrali, salite in maniera brancaleonesca nei campi estivi con la parrocchia, rivelano all’autore la propria vocazione. Inizia un percorso del tutto personale, avversato dall’ignoranza e dallo scetticismo di chi lo circonda, familiari e amici (quanto distante dai personaggi cool di oggi!) e che impone una straordinaria perseveranza. Nell’Andrea Di Bari che si barcamena tra mille paure, maldestria e talvolta superficialità nelle falesie romane, brucia però quel sacro fuoco. Che non si spegne, anzi semmai si alimenta, nelle controverse vicende di un ragazzo che deve diventare uomo e “mettere la testa a posto”. Che supera un grave infortunio e soprattutto lo scetticismo e il biasimo di chi lo dovrebbe sostenere. Che è capace di vedere lo squallore piccolo borghese delle persone “normali” come anche del degrado sociale e dell’emarginazione cui tanti saranno poi destinati. Credo che solo un altro autore, ovvero Andy Kirchpatrick, sia stato così onesto e così vero.
Nel giro di pochi anni Di Bari diventa non solo un bravissimo alpinista, ma uno dei personaggi di punta di un movimento che sta per cambiare totalmente la storia dell’alpinismo e dell’arrampicata. Di Bari si trova nel pieno della grande rivoluzione che vede la comparsa dei primi spit, quindi delle gare e infine del professionismo, di cui lui stesso fu uno dei primi esponenti. Ma il modo in cui questo trapasso – che in molti della vecchia guardia come della nouvelle vague – fu vissuto come un trauma insanabile, nelle parole di Di Bari appare fluido e naturale. Senza che vi sia per forza una scissione tra il prima e il dopo, tra un alpinismo di tradizione e uno di rottura, Di Bari si fa interprete di quel cambiamento che è soprattutto di mentalità e di stile. Innegabile e di primo piano la sua attività alpinisitca specie sul Gran Sasso (tra cui spicca la solitaria su Zarathustra, via simbolo del Corno Piccolo), ma è proprio il cambio di mentalità che permette a tutto quel movimento di fare un salto di qualità nel portare l’arrampicata libera oltre i rigidi steccati cui era costretta. Anche se rimane pur sempre vero che quella fase fu condita da una competizione spesso accesa, che avrebbe finito per oscurare in parte la spinta “liberatrice” e quasi anarchica degli inizi. Di Bari non lo nasconde, e forse il merito maggiore è di averlo non solo narrato, ma di aver riconosciuto di esserne stato vittima, fino a trasportare la stessa mediocrità da cui tentava di fuggire nella sterile e meschina competizione tra climbers. In questo senso appare quasi rivelatoria la visita dell’idolo di adolescenza, Patrick Berhault che davanti ad una platea gremita e a Di Bari stesso, smonta con la naturalezza che solo lui poteva permettersi quella che stava per diventare la “nuova retorica” del grado e della prestazione. Qualche volta, confessa il grande alpinista francese precorrendo i tempi, non sarebbe preferibile “un po’meno, un po’meglio?”
Val la pena leggerlo, “Il Fuoco dell’Anima” per almeno due o tre buoni motivi. Il primo è senza dubbio l’aspetto umano, vero e per una volta diverso dalla solita narrazione autoreferenziale. Il secondo è quello di conoscere quell’alpinismo considerato di “serie B” solo perchè praticato da alpinisti nati sotto il Po (ed è innegabile che forse proprio il nuovo movimento dell’arrampicata sportiva abbia contributo a scardinare molti preconcetti), che pure ha una storia gloriosa e ricca di personaggi di altissimo livello (tra cui quel Pierluigi Bini, già icona e mito intoccabile dell’alpinismo del Centro Italia). Infine, merito a Di Bari di averci trasportato nel clima di quel periodo che fu molto più che Rock Master e Bardonecchia, e che avrebbe cambiato per sempre quello che non era più “solo” alpinismo, ma un universo verticale in continua espansione.
Conosco Andrea da diversi anni ,ho vissuto come lui la vita di borgata ,spendendo parte delle nostre giornate a trastullarsi nella mediocrità, Devo riconoscere la sua voglia di evadere da qusto trantran e l sua passione per la montagna lo ha portato a diventare uno dei più valenti Crimbler .Questo lo ha indotto a narrara la sua vita ed a editare un libro che io stesso ho letto con passione IL FUOCO DELL’ANIMA , Un libro che leggendolo sembra vivere con lui le sue esperienze di vita
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