Succede, ogni tanto

di Saverio D’Eredità

Succede, ogni tanto. Di rado, ma succede. Che trovi una via da scalare dal primo all’ultimo tiro senza pensieri o paure, ma solo con la curiosità di sapere come sarà il prossimo, se la roccia sarà ancora così bella, generosa, multiforme. Che ti invita alla scoperta. Che ti dà dei segnali, ma non troppi e starà a te interpretare. Non farti prendere dall’ansia. Una soluzione si trova. Un metro a destra o uno a sinistra, non conta poi tanto se sotto di te i compagni non ti mettono fretta e la giornata scorre via leggera, con questo sole che scalda appena – lo apprezzi di più quando il vento che insiste a levigare questa prua si tace un istante. Succede, si. Che anche se siete tanti – è vero, anche stavolta l’abbiamo buttata in gita sociale: pazienza, per cambiare la Storia ci sarà tempo un’altra volta – e ci sarà da aspettare poco male, si approfitta per raccontarsi qualcosa, prendersi per il culo o osservare le grandi pareti attorno come una volta – e come vorremmo fosse sempre.
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La Torre di Babele – foto S.D’Eredità
Incuneata nel caotico, fantastico mondo dei Cantoni di Pelsa, la Torre di Babele mantiene un fascino discreto. Prendetela e mettetela al centro di una qualunque scena dolomitica: non sfigurerebbe certo. Però si vede che non ci tiene tanto. Le due sorelle terribili, la Venezia e la Trieste stanno lì a guardia della valle dei Cantoni, mostrando i loro profili. La Torre le lascia fare, ti lascia vedere questo spigolo affilato ed elegante senza strafare. E allora arrampicarsi lungo questa linea diventa un gesto quasi naturale.
Non ci è mancata l’avventura. La trovi in fondo ad un passaggio dove osservare bene la sequenza degli appigli come per risolvere un piccolo quesito logico, nel dosare bene l’attrezzatura, nel cercare di stare bene anche sospesi su una piccola cornice di pochi centimetri. Certe volte basta poco.
Succede, sì, ogni tanto. Non spesso,che poi ci si abitua male. E magari così si apprezzano di più queste giornate. L’importante è ricordarsene. Come diceva Kurt Vonnegut – “Quando siete felice, fateci caso”.
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Il bel diedro di quinto più nella parte alta della via, dopo la cengia mediana – foto S.D’Eredità
Torre di Babele, spigolo Sud, via Soldà
Una classica, ma non troppo classica, su una torre minore solo perchè confusa tra le altre bizzarre forme dei Cantoni di Pelsa, ma che in realtà appare elegante e slanciata. Sconta la minore visibilità rispetto alle vicine vie sulle ben più rinomate Torri Venezia e Torre Trieste, ma non per questo è ignorata. La Soldà risale con arrampicata elegante e fluida lo spigolo sud, su roccia ovunque ottima ed appigliata, oltre che ben proteggibile. Lungo la via si trovano soste e alcuni chiodi di passaggio, l’orientamento all’inizio non è scontato ma con logica si trovano i passaggi migliori. Molto bella la parte superiore in particolare i due tiri sopra la cengia mediana. Raggiunto l’intaglio che divide la cima vera e propria dal Pulpito di Babele si discende con 5 doppie in un orrido camino sul versante opposto.
350 mt,
diff.IV,V,V+, 1 p.VI-
Relazione sulla nuova edizione di Quartogrado – Dolomiti Or.li vol. 2 oppure su
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Il tiro chiave – una breve fessura leggermente strapiombante, in grande esposizione – foto S.D’Eredità

“La faccia di quelli veri” – ovvero Riccardo Bee, l’ultimo (?) dei classici

Rampegoni,  incontra gli autori del libro “Riccardo Bee – Un alpinismo titanico” Venerdì 27 febbraio 2015 Monfalcone ore 20.30  Galleria Civica

di Saverio D’Eredità e Carlo Piovan In un epoca in cui si soffre il cosiddetto “diluvio di informazioni”, in cui ogni particolare, ogni attività, impresa, fallimento, o banalissima vita quotidiana rimane sovraesposto (e talvolta travolto) dalla continua offerta mediatica, “disseppellire” storie è quanto meno meritorio. Se, per di più, si tratta di storie “minime” di personaggi “grandi” la sfida oltre che affascinante si fa anche ardua. Come fare a raccontare un uomo tanto schivo, umile, riservato (tanto da non lasciare che poche righe in un foglio di appunti dell’impressionante mole delle sue scalate) e che al tempo stesso ha lasciato un segno inconfutabile in quel “lato selvaggio” delle Alpi orientali che sono le Dolomiti Bellunesi?

È questo lo sfondo che ha caratterizzato il lavoro di Marco Kulot e Angela Bertogna, goriziani in trasferta tra le valli del bellunese, con l’idea di riesumare frammenti di una storia nascosta eppure profonda e molto umana, quella di Riccardo Bee, esponente di una storica stagione dell’alpinismo dolomitico nel cuore degli anni ’70 e del grande cambiamento. Una storia umana, e ci piace sottolinearlo due volte, dal momento che normalmente le vicende degli alpinisti riguardano quasi esclusivamente pareti, exploit, gradi, ritirate, successi e quasi sempre imperniate attorno al super ego di personaggi che quasi rifuggono la società. La grandezza (e bellezza) di Bee sta invece nell’esser stato innanzitutto un uomo, con una famiglia, una professione, una vita fatta di amici, scorribande, ragazzate e momenti toccanti, una vita come tante in cui la montagna entrava a dar valore ad ogni giorno. A renderlo speciale. Bee-web Questo è il Bee che emerge dalle narrazioni, dai ricordi, dai particolari raccolti con pazienza da Marco ed Angela, componendo un mosaico di voci di amici, parenti, compagni di cordata quasi che ognuno potesse restituire lo spessore dell’uomo Bee e portarci a capire il suo alpinismo. Un alpinismo “titanico” come viene definita in maniera immediata e pregnante dagli autori, nel pieno solco della tradizione classica eppure portando avanti una ricerca quasi indecifrabile al tempo che pure oggi – come tutte le cose grandi- emerge in maniera netta. Era forse l’ultimo o tra gli ultimi dei classici, Riccardo Bee con la sua energia spontanea, contribuì con la sua attività alpinistica a quella rivoluzione silenziosa che Messner definì nel suo famosissimo libro VII grado, come la rottura di un tabù e l’inizio dell’arrampicata libera e pulita. Le sue prime salite si collocano nel solco di ascensioni del calibro del diedro Casarotto allo Spiz di Lagunaz (1975) , Pumprisse al Fleischbank (R. Karl 1977)  la via dei Piazaroi alla Cima della Madonna (Manolo, Daniele, Simoni 1978),via del Pesce alla parete sud della Marmolada (Koller – Sustr 1981), spesso su pareti con accessi e discese molto più complesse, fino a compiere la sua “rivoluzione” con quello che si può definire il suo capolavoro; la via aperta in solitaria al pilastro nord-ovest dell’ Agnèr, tra 19 ed il 20 luglio 1982, 700 m, VI e A1 oggi dichiarato fino al VII. Con le sue ascensioni Riccardo seppe trovare dietro l’angolo lo Yosemite agognato dalla nuova generazione di arrampicatori che in quegli anni viveva l’eco della rivoluzione inziata oltre oceano e portata in Italia oltre che dalle testimonianze di “chi ci era stato”, dagli scritti teorici di Giampiero Motti che apparivano sulla Rivista della Montagna. Con i pochi mezzi, artigianali eppure affinati da una severa preparazione di ogni salita, Bee ha affrontato quelle pareti ciclopiche eppure sfuggite al grande flusso della competizione dolomitica. Il suo nome (come le sue vie) si incrocia ad altri grandi dell’epoca come Messner o la fortissima scuola di polacchi che cominciavano a visitare le Alpi. Con discrezione eppure lasciando una traccia indelebile. Ad oggi le vie di Bee rimangono pochissimo ripetute e temute. Pensare che molte di quelle furono aperte o ripetute dallo stesso in solitaria o in inverno da la dimensione del personaggio, scevro da agonismi o rincorse semplicemente concentrato su una ricerca interiore. Il tutto con una certa ironia e modestia, se lo stesso Riccardo schivava pose o atteggiamenti da protagonista, sintetizzabili in quella battuta detta di ritorno dalla “titanica” invernale alla via Italo-Polacca al Burel (con 5 bivacchi nell 1974; 1150 mt di parete di V, VI e artificiale…). “Ora facciamo la faccia di quelli veri!” disse davanti all’obiettivo. Come fosse un alpinista della domenica, di ritorno da una bella gita o una bravata. L’elenco delle vie non rende giustizia se non altro perché esse rimangono spesso inavvicinabili, difese da avvicinamenti decisamente fuori moda e su pareti in cui il tempo si calcola in giorno piuttosto che ore o tiri di corda. Dialogheremo con gli autori cercando di capire le motivazioni e di restituire ancora un pezzo della storia (sconosciuta) dell’alpinismo dolomitico ma che non teme i confronti con le grandi e più rinomate realizzazioni dell’epoca.