Annozero (sul Nevee Outdoor Festival e altre cose)

di Saverio D’Eredità

“Che vergogna, sarà mica accoglienza questa! Tovagliette di carta e nemmeno una carta dei vini!”

“Ci siamo persi, i segnavia erano sbiaditi e non mi prendeva il GPS!”

“Quella ferrata è pericolosa: c’è un tratto in cui il cavo è allentato e nessuno ha messo un cartello. Andrebbe chiusa!”

“Nel programma era previsto di arrivare in cima alle ore 12 e invece non l’abbiamo nemmeno vista!”

Avete già sentito commenti come questi? Non è raro intercettarli in qualche bar di fondovalle o fuori dai rifugi. Senza parlare delle pagine dei social. Forse alcuni vi sembrano esagerati, ma non siamo poi tanto lontani dalla realtà. E la realtà è che – ci piaccia o meno – tutto quello che gravita attorno alla montagna è né più né meno che un prodotto di mercato. Che sottostà a regole di marketing più che meteorologiche. Dove le condizioni naturali sono sostituite dall’offerta. Dove si fruisce e non si vive.

Potrebbe sembrare la solita lamentala di un nostalgico amante di un’arcadia ormai perduta (e forse mai esistita). Ma credo che tante volte il liquidare così ogni tipo di riflessione sia solo un modo per eludere il problema. Problema di cui siamo tutti parte: prima ancora che come “appassionati” (tralasciando le definizioni o meglio “nicchie” per usare ancora una volta un termine economico), sicuramente come cittadini per non dire consumatori. Perché quello siamo. Consumatori del prodotto montagna, con tutto il corollario che va dall’ultimo aggiornamento tecnologico che ci portiamo dietro all’abbigliamento, dall’attrezzatura tecnica ad un determinato “stile” che adottiamo (o compriamo?) per sentirci in quel contesto, in quel momento, inseriti, accettati per non dire apprezzati. E che altro non è che conformismo.

Credo sia questo il punto: non tanto demonizzare il risvolto economico del turismo (ricordandoci che la prima forma di turismo alpino fu proprio l’alpinismo dei benestanti inglesi nell ‘800), né per contro, inneggiare ad una non meglio definita libertà che si tramuta in sterile anarchia. Il punto è aver pian piano fatto sfumare il senso profondo della montagna (anzitutto per quello che è, ovvero spazio naturale) fino a farlo diventare del tutto secondario rispetto al “prodotto montagna”.

Ne avevamo già parlato su questa pagina quando, nella surreale primavera del 2020 si era posto il problema della agibilità dei rifugi (e persino della percorribilità dei sentieri!) in pandemia. Ma di quel dibattito ricordo soprattutto l’incredibile spostamento del discorso da un tema di “sicurezza sanitaria” ad uno di “qualità dei servizi”. Come se un rifugio fosse un resort che doveva “garantire” uno “standard”.

Se ci pensate non è tanto diverso dal dibattito odierno. All’indomani del cataclisma (perché quello è stato) della Marmolada, il dibattito mediatico ha deviato la sua traiettoria da una urgente riflessione sugli effetti del cambiamento climatico (ovvero la causa), per concentrarsi sulla regolamentazione delle attività che si svolgono in quota, quasi fosse quello il problema. E al di là della deprecabile morbosità quando si conta la perdita di vite umana, la conclusione è stata che bisogna in qualche maniera “porre dei limiti”. Insomma, se del caso, vietare. E così mentre ci lamentiamo che mancano i cartelli o il rifugio non propone un adeguato menu, un giorno ci alzeremo e scopriremo che in montagna potremo andarci solo sulla base di un’autorizzazione emessa da qualcuno al quale avremo delegato la nostra capacità di scelta. E magari ci starà anche bene, nel frattempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Nevee Outdoor Festival? Dopo due anni di stop forzato e con il rischio di perdere quell’atmosfera festosa (e la voglia di ricrearla) che aveva caratterizzato un’occasione del genere, quest’anno il NOF riparte. Dalle origini. Da quella che era la grande festa pensata da Leo (e per Leo) come un raduno di ragazze, ragazzi, bambini e adulti accumunati da quelle passioni in cui la Natura è parte integrante.

Il NOF di quest’anno si libera di programmi, percorsi segnati, tabelle e appuntamenti. Un unico, grande raduno di due giorni il cui cuore pulsante è il Rifugio Gilberti. A parte le attività organizzate per i bambini (da sempre elemento distintivo di questo ritrovo), il resto si svolgerà a schema libero. Avete un crash pad? Portatelo su, cercatevi un masso, massacratevi i polpastrelli per risolvere un blocco! Vi piace camminare? C’è un pianeta Canin da scoprire, vi basta un passo per entrare nel Parco Prealpi Giulie. Amate le vie a più tiri? Credo che in Giulie e forse nelle Alpi orientali non esista roccia come quella del Bila Pec. Ci sono inghiottitoi per chi vuole esplorare gli abissi, linee di slack da tirare, manca solo la neve quest’anno, ma speriamo si sia solo presa una pausa.

Cosa c’entra quindi il NOF? Il NOF vive un nuovo annozero, in cui ripensare tutto di nuovo. Che nel suo piccolo lancia un messaggio: viviamo la montagna per quello che è. Viviamo la Natura indipendentemente da una tabella, un programma, un pacchetto. Non facciamoci imboccare, incasellare, guidare. Se rinunciamo a questa autonomia, il cui altro lato è la responsabilità delle nostre azioni, avremo rinunciato – e per davvero – alla libertà. E non quella vuota, svogliata, libertà “di fare quello che voglio”, ma la libertà del prendersi cura di noi stessi, degli altri, dell’ambiente. Una libertà piena e consapevole.

Dipende da noi, ora più che mai.

Note: il NOF 2022 si terrà il 23 e 24 luglio a Sella Nevea. Le attività organizzate e guidate saranno dedicate esclusivamente ai bambini (under15), quali arrampicata, speleologia e slack line e partiranno dalla mattina di sabato (ore 10) al tardo pomeriggio (ore 17), analogamente la domenica. Il resto a schema libero, nella meravigliosa cornice della conca Prevala.

Info sul NOF al sito e sulla pagina Facebook

http://www.neveeoutdoorfestival.com/ https://www.facebook.com/NeveeOutdoorFestival

Pubblicità

“IL MIO NOME E’ DOLOMIEU”

Venerdì 29 Luglio Recoaro Terme ore 20.00

Monologo di circa 60 minuti in cui l’autore del testo, Eugenio Maria Cipriani, indossati i panni dello scienziato Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu (1750-1801), studioso e viaggiatore francese vissuto nella seconda metà del Settecento, racconta la vita e le avventure del noto naturalista alle prese da un lato con lo studio dei vulcani e dall’altro con il mistero allora inspiegato della nascita delle montagne. Una vita avventurosa che lo ha visto due volte in prigione ma anche ospite dei più importanti salotti culturali europei. Fu il primo naturalista a visitare le Piramidi d’Egitto dove scampò alla morte per pura fortuna. Amato dalle donne e molto apprezzato dei contemporanei, alla sua morte tanta notorietà si dissolse nel giro di pochi anni e oggi nessuno si ricorderebbe più di lui se non avesse dato il nome alle montagne più belle del mondo. Egli è noto infatti per aver compreso la matrice chimica delle rocce dolomitiche che proprio da lui prendono (peraltro casualmente) il nome. Geologo attento e capace di creare una “rete” scientifica, fu uno dei padri fondatori di una scienza nata da poco: la geologia. Dolomieu, inoltre, visse in prima persona l’annosa “querelle” scientifica dell’epoca fra chi sosteneva l’origine ignea delle rocce (Plutonisti) e chi ne affermava di contro l’origine idrica (Nettunisti). Una controversia che infiammò gli animi di cattedratici di fama mondiale e che ebbe riscontri importanti anche nella letteratura e nelle arti. La Rivoluzione francese cambiò il corso della sua vita che, nell’ultimo decennio, fu tutto un susseguirsi di campagne esplorative e guai personali.

Eugenio Maria Cipriani

Giornalista, scrittore, scalatore attivo da oltre 40 anni con particolare inclinazione per l’alpinismo
esplorativo (oltre 800 vie nuove fra Alpi nordorientali, Grecia e Balcani), da sempre nutre interesse sia per la storia dell’alpinismo sia per quella della geologia. E’ autore di oltre 60 volumi fra guide escursionistiche e alpinistiche e saggi storici. In gioventù ha frequentato due scuole di recitazione ed ha interpretato diversi ruoli recitando durante la stagione estiva teatrale veronese negli anni 1984 e 1985 e successivamente esibendosi in letture pubbliche con la compagnia del Teatro Nuovo di Verona.

A piccoli passi

di Saverio D’Eredità

La prima volta sono tornato a casa senza cima (peggio ancora, fermandomi sull’anticima: respinto da un ingorgo stile A4 domenica di agosto), dopo esser stato sveglio 30h (storia lunga) e con la carrozzeria dell’auto aperta come una scatoletta (storia ancora più lunga).

La seconda tutto bene, cima e sciata inclusa, ma il ricordo preponderante è la sete devastante causata da un errato calcolo tra la balla della sera prima e la scarsità di liquidi per il giorno dopo (ideale per i 1900 metri di dislivello previsti, no?). Sete parzialmente spenta con un gesto che non posso raccontare.
Questo per dire che con il Grossglockner il rapporto è un pochino problematico. Peccato: perché a parte essere una montagna famosa e importante, ha una indiscutibile eleganza, delle vie di un certo rilievo, una discreta altezza ed è pure decisamente vicina per chi abita a nordest. Non manchiamo mai di additarlo da una qualunque cima tra Dolomiti e Giulie perché si vede quasi sempre e ci fa fare sempre bella figura.
Però, alla fine, nonostante tutto ci si va poco. E questo perché, in fin dei conti, siamo(sono, io) dei fottuti snob. Questa Studlgrat, ad esempio, è rimasta lì tra le cose da fare “prima o poi” ma quel “prima o poi”era sempre poi. Perché nel frattempo eravamo impegnati a cambiare la storia dell’alpinismo (nella nostra testa) e quindi dato che dobbiamo fare un pilastro qualsiasi del Bianco (non vi dico quale) non è che ci bruciamo il weekend sulla Studlgrat. Quella la facciamo in invernale, in solitaria, anzi! Solitaria invernale per allenarsi. Oppure: car-to-car e ritorno per cena. Tutte cose fatte (o meglio, pensate) per complicarsi la vita e ignorare la bellezza. E invece, diciamolo! Che sta Studlgrat è bella, elegante, ideale come linea. E non farla, un po’, è da stronzi.
Si respira l’alpinismo d’altri tempi, ma proprio tempi antichi, di baffoni, alpenstock e lardo in tasca (belli, eh, quei tempi! Niente cronometri, niente gradi, niente curriculum: diciamo che se tornavi vivo era già un’impresa). Quell’alpinismo che era fatto, essenzialmente, di passi. Si misurava, in passi. Il Garmin oggi me ne dava 24 mila e fischia, ma quella volta era il singolo passo a contare. L’accortezza, la cura, di dove mettere un piede, l’importanza del camminare, del salire, della scelta da fare. Che è poi il motivo (uno dei, non facciamo troppo gli opinion leader) per cui pratichiamo questa cosa tra sport e arte e psicoterapia che è l’alpinismo. Avere una possibilità di scelta. Vagliare opzioni. Quindi decidere. Esporsi.
E in ogni passo aggiornare il catalogo dei timori, le tempeste emozionali, i pensieri che vanno e vengono.
Ritrovare, infine, i movimenti collaudati, le posture apprese, che quella cosa te la facevano cercare di continuo. Scoprire che rimangono, come i compagni di cordata che fanno cordata anche quando la corda non c’è.
Abbiamo fatto bene, a far la Studlgrat: chi vi fa spallucce o la declassa (perché ha i cavi, e la gente e ma vanno tutti etc etc – ovvero io) forse non ci è mai stato e non ha mai dato valore ai passi. Che poi, banalmente, è il principio di base per scalare ogni montagna. E, in generale, ogni cosa nella vita.


Gross Glockner, 3798 mt – Alti Tauri

Cresta Sud/Ovest “Studlgrat”

Difficoltà: complessivamente AD (II,III / A0, ghiacciaio facile in salita e discesa)

Dislivello: 700 mt dall’attacco (1900 totali dal parcheggio)
La montagna non chiede presentazioni (cima più alta dell’Austria, icona delle Alpi Orientali e dell’alpinismo classico) e nemmeno questa cresta, dedicata al magnate praghese Johan Studl (fondatore, tra le altre, del club alpino tedesco, una specie di Quintino Sella), ma salita da Joseph Keherer e Peter Groder il 10/09/1864 seppure con l’aiuto dall’alto dei fratelli Groder. La via doveva servire alle guide di Kals per fare concorrenza a quelle di Heilingenblut tanto da costruirvi una “proto-ferrata”, poi rimossa. Oggi la cresta si presenta con numerose attrezzature (soprattutto golfari) e qualche cavo metallico e fittoni che agevolano passi altrimenti “fuori scala” per una via che generalmente si mantiene sul II/III grado. Nel complesso è un itinerario d’alta montagna di un certo impegno per esposizione, lunghezza ed ambiente da non sottovalutare. Così come la discesa per la normale, più facile, ma da fare con attenzione anche per l’intenso via vai di cordate. In ogni caso, un itinerario storico, che non lascia indifferenti e che ripaga di sensazioni degne dei rarefatti ambienti d’alta quota.

Una buona relazione, in italiano, è disponibile sul sito degli amici SassBaloss.https://www.sassbaloss.com/pagine/uscite/grossglockner/grossglockner.htm

Arrampicare non è divertente

di Saverio D’Eredità

Arrampicare non è divertente. Al più potrà essere appagante, se volete. Ma divertente no. Arrampicare è sofferenza. Stringere tacche, contrarre gli addominali, stringere il culo, pensare a non cadere. Insomma, di base cerchi di fare tutte queste cose insieme per non morire. Spiegatemi come fa, ad essere divertente. Arrampicare spesso è frustrante. Perché ti devi allenare moltissimo per ottenere pochissimo. E allenarsi, si sa, non è mai divertente. Anche perché poi ti vengono a spiegare che arrampicare “è tutta testa, non serve allenarsi!”, ma a dire il vero non ho mai visto nessuno di quelli che sostenevano questa tesi scalare sotto il 7a. Di certo è sia una roba di testa che di muscoli. Insomma, una roba ingestibile. Quando hai il fisico, non hai la testa. Quando hai la testa, non ti tieni. Raramente hai tutte e due. Quando succede, la stagione di solito è finita.

No, arrampicare non è divertente. Sciare, è divertente. Anche se su questo con l’amico Nicola potremmo discutere fino alla fine dei nostri giorni, almeno finché io non avrò imparato ad arrampicare e lui a comprendere il senso profondo delle stagioni. Ma molto meglio discutere di questo che non darci ragione a vicenda o ridurci ad una serie di fuck-yeah-grande vez. Si, lo so che dire queste cose non è molto popolare. Ma arrampicare una volta mica faceva tanto figo, come adesso. Se tiravi pacco alla serata con gli amici o peggio mollavi il dopocena ad una certa “perché domani mi alzo alle 5” ti prendevano per il culo a morte. Il risultato era che si dormiva due ore per notte per barcollare verso gli attacchi, ma certo figo e divertente non lo era mai. E poi, chi l’ha detto che ci si deve divertire per forza, o che tutte le giornate sono meravigliose e quelle cose lì che ci leggiamo e ci diciamo ogni lunedì? Io per esempio, ho passato un sacco di giornate di merda, arrampicando. Ho avuto paura, mi son dato dell’idiota, ho rimpianto di non essermi allenato abbastanza o di aver pensato troppo allo sci o alla neve. Mi son sentito inadeguato, ho litigato con me stesso, qualche volta con gli altri. Ho tirato fuori il peggio di me. Ok, ora so che mi verrete a dire che dovrei rilassarmi, cercare il flow, la mindfulness o certe cose new age che non si capisce perché adesso siano immancabili, invece ai tempi di Comici ne ignoravano l’esistenza e mi pare che arrampicassero alla grande uguale. Che se fosse divertente, arrampicare, arrivando in falesia vedresti gente felice invece è più facile sentire una sinfonia di grugniti e bestemmie o gente che ti guarda storto se non sei del posto, occupi una certa via o – sia mai – soffi il progetto a qualcuno. Insomma, arrampicare non è divertente, o almeno io non mi diverto tanto. Di solito cerco solo di non farmi male. Nel mezzo, invece, mi perdo in mille ragionamenti complicati, passo da cose serie tipo dove piazzare la protezione a cose inutili come la politica internazionale, intervallando ricordi, ora nitidi ora sbiaditi. Persone, volti, situazioni. Una festa del liceo, un amico che non sento da tempo. L’ultima mail mandata il venerdì o una qualche rogna da risolvere il lunedì. Mentre nel cervello girano in loop ritornelli di canzoni idiote, una playlist di scarsa qualità e quasi mai dei miei pezzi preferiti. “Pensa se adesso voli con in testa It’s my life di Bon Jovi o Girls just wanna had fun di Cindy Lauper, pensa che brutto” mi dico. Ecco, cose così. Niente eclatanza del gesto, niente flow. Solo pensieri confusi e disordinati.

Saverio D’Eredità sul traverso della via Tissi alla Torre Venezia – foto C.Piovan

Qualche volta credo che l’arrampicata mi piaccia nonostante tutto ciò. E che la soddisfazione non stia tanto nel bel gesto, nell’appagamento edonistico della prestazione, quanto piuttosto nel fatto di esserci riusciti – nonostante tutto. Dell’arrampicata amo i dettagli. La scomodità condivisa di una sosta. Una presa più grande nel posto giusto (capita, raramente, ma capita). Scoprire un chiodino là dove speravi ci fosse, il compagno che in fondo ti perdona tutto e i silenzi in mezzo. La Storia, anche. Eppure quando ci sei dentro, alla Storia ci pensi poco. Non stai mica passeggiando in un museo. Quella volta sulla Comici alla Cima Grande, per dire, pensavo solo a saltare fuori prima che le braccia cedessero. Non mi facevo i selfie con i chiodi vecchi o i cordini laceri. C’è l’ambiente, direte. Ma anche quello ce lo raccontiamo. Conosco modi migliori di fare turismo naturalistico senza avere come obiettivo della giornata una catena in inox o dei cordoni marci. Insomma, non c’è una sola cosa che renda davvero credibile questa scelta di arrampicare. Eppure, anche se arrampicare non è divertente, talvolta credo sia necessario. Come un rito purificatore, o piuttosto un grande filtro, agisce sui quei pensieri confusi, sul mio fare disordinato, ricollocando tutto nella giusta prospettiva.

Anche oggi , ad esempio. Oggi è una grande giornata. Duplo risale lentamente i pacifici tornanti che salgono alla Rudnig Alm e noi non abbiamo fretta. Forse pioverà, ma più tardi. Non ci preoccupiamo. Ora non ricordo bene cosa ci spingesse gli anni passati ad andare incontro alla paura di proposito e immancabilmente trovarla, alla fine. Il copione era scritto, ma facevamo finta di non conoscerlo. Oggi è una grande giornata, adesso c’è il sole, dopo chissà. Oggi non spetta a noi, riprendere Berlino. Scavalcata la forcella e gli impianti silenti, ci si addentra in questa valletta sospesa, aperta in modo discreto sulle Giulie e circondata da monti di perla. Pareti che ti ingannano ogni volta. Paiono gigantesche e invece sono appena più alte di un piccolo grattacielo. Si mostrano lisce e verticali e invece offrono generose appigli e buchi e gradini, in un ricamo di roccia che sai prezioso.

Arrampichiamo, per essere all’altezza dei bambini che siamo stati. Per non deludere la parte irrinunciabile e stupida di noi stessi. Arrampichiamo per contraddirci, qualche volta, perché in quella contraddizione troviamo un briciolo di verità. E anche se oggi una nuvola è la scusa per tornare, la realtà è che per rimettere tutto in prospettiva, talvolta basta la sensazione della pietra sotto le dita e dell’erba nuova sotto i piedi. C’è sempre tempo, in fondo, per riprendere Berlino.

Winter 8000 – l’epopea dell’alpinismo invernale sui giganti della Terra

di Saverio D’Eredità

Ad essere onesti e anche un po’in controtendenza rispetto ad un certo “perbenismo” della letteratura di montagna, dovremmo ammettere che la lettura delle imprese himalayane non è mai stata travolgente in termini di interesse. Eccezion fatta forse per un narratore (e personaggio) sui generis come Kurt Diemberger, i racconti di spole tra campi, bufere, ritirate, sofferenze e stati di anestesia mentale non permettono certo al lettore di immedesimarsi, ma al più di sedersi ed osservare come spettatori al cinema le gesta di uomini fuori dal comune. Soprattutto, una volta chiuso il libro e osservato estasiati le foto delle altissime quote, la storia appena letta rimarrà in quel limbo di ricordi di cose sì eccezionali, ma che di certo non cambieranno la nostra vita né il modo di pensare. Non me ne vogliano gli appassionati del genere, tutti abbiamo gongolato davanti ai libri di Messner fino alle più recenti imprese di Moro, ma oggettivamente c’è di meglio da leggere. Tuttavia Bernadette Mc Donald, una delle, se non la più importante narratrice di alpinismo attualmente, riesce ogni volta a stupire e tenere incollato il lettore. Da questo, nelle arti, si riconosce il talento. Mettere insieme le storie di alpinisti polacchi dalla pronuncia ostica, alle prese con la sfida ai giganti della terra nella stagione fredda e per giunta ormai non più attuali (si parla degli anni tra il 70 e i primi 2000), insieme a quelle più “mainstream” di un atleta specializzato come Moro, rischiava di diventare un esercizio di cronaca alpinistica senza molto di più. Invece ancora una volta dopo “I guerrieri dell’Est” la scrittrice canadese riesce a rendere avvincenti le vicende di uomini e donne che si sono ingaggiati in una delle ultime esplorazioni possibili in ambiente estremo. Scalare gli 8000 in inverno, infatti, è paragonabile a qualcosa di simile alle “saghe” polari Amundsen e Shackleton, o la corsa allo spazio. Un ambiente cioè non fatto per l’essere umano, non solo come difficoltà tecnica ma soprattutto per incompatibilità biologica. Prendiamoli così, come astronauti terrestri, quei folli determinatissimi polacchi, giapponesi, russi o italiani. Capaci di resistere con il ghiaccio nei polmoni nel disagio più assoluto per settimane se non mesi dentro tendine abbarbicate su gradini di neve, a superare pendii con neve al petto, a torturare il corpo in una specie di sublime arte della sofferenza. Una definizione del grandissimo Vojtek Kurtyka – uno dei protagonisti di quella generazione- e che si ritrova come un filo sottile in ognuno dei 14 capitoli (uno per ciascuno ottomila, descritti in ordine cronologico di scalata) sui quali è costruito il libro. E “l’arte di soffrire” è il titolo dell’introduzione in cui la Mc Donald spiega come ha preso avvio questa avventura letteraria, dal primo incontro con Andrej Zawada – nome poco noto al grande pubblico, ma vera mente strategica che ha animato la corsa polacca agli ottomila della scuola polacca – fino alle storie più intime di quegli uomini disposti veramente a tutto. Accanto alla cronaca, infatti, emergono i tratti più personali, le motivazioni profonde, il contesto sociale e quello familiare che McDonald non teme di mettere in luce. Come sempre nei suoi libri, gli alpinisti perdono la corazza dorata da eroi greci che si tramanda nella narrazione ufficiale, per scoprirsi fragili, contradditori o egoisti come tutti. E questo è indiscutibilmente il merito di una grande narratrice.

Neve di Aprile

di Saverio D’Eredità

Credo non esista gioia più grande, più piena, più rotonda, sulla faccia di questa terra dello sci di primavera. Oddio, forse esagero: certo che esiste, anzi vi dirò che potrebbero essercene almeno cinque sei (non di più) di più belle. Tra queste figureranno la campanella del sabato, la chiamata inattesa di un amico che non sentivi da tempo, l’ecografia del terzo mese e un gol sottoporta al secondo tempo supplementare. Ma mi spiace, non oggi. Oggi nulla batte la sensazione vellutata, leggera, erotica direi dello sci di primavera. O sarà forse merito del fatto che ho finalmente trovato il modo in cui il cavetto usb scassato fa contatto con l’Ipod e la playlist scorre che è un piacere.

Lo sci di Aprile è una promessa mantenuta. Di neve dura al mattino che per incanto o legge fisica diventa firn. Aprile ha gli occhiali a specchio ed odore di crema 50 sulla pelle. Che sei in dubbio se riempire il thermos di tè caldo o portarti due litri d’acqua e alla fine metti tutti e due. Aprile ha una luce tutta sua che inonda le valli, che entra ovunque, che fa chiasso, che ride, che canta. Aprile sono corone di montagne in technicolor, un segreto svelato e che scopri essere bellissimo. Quando realizzi che tutto quel freddo, quell’attesa, quel buio che hai sfidato per mesi – cappucci tirati su e mani tra le cosce prima di scendere dall’auto, quel girare di soppiatto nei boschi sotto lo sguardo di pareti cupe – ecco, tutto quello aveva un senso ed era questo. Aprile è ancora una polvere gelosamente custodita che non posso dirti dove. Per trovarla non serve essere atleti e nemmeno esperti. Per trovarla devi essere credente. Allora sì. Se avrai fede nel sole e nella notte. Se saprai scendere a compromessi con albe attonite e accettare quel poco di sci sulle spalle e unghie rotte negli scarponi. Allora si, nella bilancia finale del giorno, tutto ciò peserà molto poco. Più alto è il fine, più lieve sarà la pena. Del resto, siamo o no in missione per conto di dio?

Canin, aprile

Non lo scopro certo io, che lo sci di primavera è il più bello di tutti, e ora che ci penso sta guadagnando posizioni nelle cose più belle della vita, più della campanella del sabato, ma ancora un gradino sotto il primo bacio. Assomiglia piuttosto alla lettera di dimissioni quando cambi lavoro, con quella leggerezza, quella fiducia nel futuro che mai più riproverai. Che ti fa sentire così gioiosamente fuori controllo e forse proprio per questo mai così in controllo. Aprile – di questo sono tuttavia sicuro – ha un modo di sciare che segue più l’improvvisazione del jazz che non il basso e batteria del rock. Diciamo che si sente più il sax di John Coltrane di “A love supreme” che non la base ritmica di “Ten” dei Pearl Jam.

Aprile si porta un piccolo dolore ne cuore. Come certe ombre che fai fatica a stanare e che forse rimarranno sempre. Non le eviteremo, non le negheremo. Anzi ci aiuteranno a riconoscere la vita anche dove si nasconde. Come segni su una mappa.

Lo sci di primavera, si dai, non sarà proprio la cosa più bella della vita, ma la cosa più bella di oggi senz’altro. Non fosse altro che per queste strade sgombre, che con l’auto fili via veloce e pare che dai balconi escano signore e bambini a salutarti con i fiori, che tutto pare facile, ovvio direi – “ma scusate non potevate dirmelo prima che era così bello?” pensi mentre i chilometri scorrono lenti ma leggeri, mentre il serbatoio rimane pieno e hai sempre una bottiglia d’acqua piena accanto e la tua canzone preferita in cuffia.

Sarà forse merito delle ultime curve e del firn – che dio lo benedica, il firn – o del cavetto dell’Ipod che ora funziona, ma se ci penso bene bene lo sci di primavera è una cosa decisamente bella – si anche come il primo bacio, o meglio il primo bacio che non ti aspetti – e magari lo metto in alto in quella lista di cose che. Che non sai mai quanto dura e che potrebbe finire già domani. Quindi lo vivi di più, lo rallenti di più. Come rimanere a letto domenica mattina (dopo che hai sciato ovviamente).

Lo sci di primavera ha la tenerezza e la forza della mia piantina di ginko biloba: ogni aprile aspetto di vedere un piccolo puntino verde farsi largo nella corteccia rugosa. Ogni aprile riesce a stupirmi quella prima gemma, che mi ricorda che siamo qui, siamo vivi. E che quella cosa lì, continueremo a cercarla ancora.

Il Foro, la luce, le curve

La Dinamica

Rimozione. Colpevolezza. O consapevolezza? Sono queste le domande che sorgono quando apriamo il libro nero degli incidenti in montagna. Quello che non vorremmo sfogliare mai. Eppure sappiamo bene come quelle pagine, per quanto dolorose, siano in realtà la chiave per comprendere meglio e aiutarci a decidere e valutare le nostre azioni.

L’alpinismo, lo scialpinismo, l’escursionismo e l’arrampicata sono attività di natura pericolose in quanto ci espongono ai rischi (oggettivi della montagna e della natura) e soggettivi (delle nostre azioni ed omissioni). Ma sono anche attività che arricchiscono di conoscenza come poche. Diceva Massimo Mila che l’alpinismo è una forma di conoscenza superiore in quanto prevede sia la teoresi che l’azione. Peccato che una volta a casa raramente ripensiamo a cosa abbiamo fatto e se l’abbiamo fatto bene. Affidarsi alla fortuna come elemento di riduzione del rischio non è un’idea saggia, tanto come pensare di esser esenti da rischi solo perché facciamo le cose “in sicurezza”. Cosa vuol dire sicurezza? E’ un protocollo codificato o forse la somma di esperienze pratiche sul campo, razionalizzate ed analizzate?

La verità, scomoda, è che non ci piace aprire quel libro. E che quando “succede” l’istinto sia quello di rimuovere i traumi per andare avanti. E’umano. Ma non ci fa evolvere in quella conoscenza che dovrebbe essere parte integrante dell’esperienza. Così facendo lasciamo il campo alla colpevolezza (chi si fa male, si sa, ha sempre torto per l’opinione pubblica), che ci amareggia quando tocca leggere i soliti commenti pressapocchisti e superficiali di chi quella conoscenza non ce l’ha e si permette di giudicare. Finita l’era (o quasi) della montagna assassina intrisa di retorica, la società securitaria odierna reagisce agli incidenti (siano essi fatali o no) con un miscuglio di moralità e contabilità. Moralità quando si tratta di giudicare come “stupide” queste attività (salvo poi essere elogiate e reclamizzate quando si fa marketing dell’outdoor…) e contabilità quando il tutto si riduce ad una nota spese degli interventi di soccorso (come se il soccorso stesso non fosse espressione della solidarietà naturale non solo di chi frequenta la montagna ma degli esseri umani!). Ecco quindi che la risposta non può che venire dalla consapevolezza. Di ciò che accade, di come accade e di come possiamo migliorare. Sapendo che l’imponderabile esiste e può fare male. Che il rischio non si azzera, ma solo si riduce. Che il bello, se volete, di ciò che viviamo in quei giorni in montagna è proprio imparare, esplorando spazi interiori di consapevolezza.

Il progetto di Fabio Gava, “La Dinamica” è una novità in questa pagina così poco approfondita delle attività in montagna. Sono storie di incidenti di arrampicata, alpinismo, scialpinismo e canyoning, raccontate direttamente dai protagonisti e condivise per contribuire ad aumentare la sicurezza in montagna.

La formula è quella del podcast ed è una risposta per chi crede che sia necessario sviluppare, tra i frequentatori della montagna, una cultura che faccia sentire le persone libere di rendere pubbliche le proprie esperienze negative senza essere giudicate, colpevolizzate o umiliate. Lo scopo di questo podcast è di ridurre il numero di futuri incidenti in montagna, attraverso i racconti degli incidenti passati.

L’ideatore del progetto è disponibile ad essere contattato da chiunque voglia raccontare la propria esperienza. Ascoltate le prime uscite. Si parla di incidente in arrampicata o sci, direttamente da chi li ha vissuti e può riportarli, e soprattutto da semplici appassionati “della domenica”.

Sito web: http://www.ladinamicapodcast.it

Instagram & Facebook: @ladinamicapodcast

Link agli episodi su Spotify:

https://open.spotify.com/show/01y8ShLjhHqNmtBZXg2LSo

(il podcast è disponibile anche su tutte le principali piattaforme di podcasting, quali Apple Podcast, Google Podcast e Amazon Music)

Precario

di Saverio D’Eredità

Ho chiesto al Batti delle foto elettrizzanti della gita dell’altra volta. Anche se era stata una giornata un po’ così, senza arte né parte, ero certo che il Batti la sua foto “alla Batti” me l’avrebbe tirata fuori. La classica dello sciatore nell’istante della curva, un poco grandangolata per dare profondità e un po’ di “wow”, con il soggetto nella terza parte dell’inquadratura e quel bilanciamento del bianco tecnicamente ineccepibile, ma vagamente insipido. La classica foto alla Batti – che ahilui – non può mai contare su performer di riguardo, gente bene in piega, con lo spruzzo, colorata, arrogante, sbarazzina, che sa sciare, che sa fare, che sa tutto. No, lui c’ha gente come noi, il Biondo al più per aggiungere un tocco da south rock americano, altrimenti il Pasc o me. Me che son il peggiore anche perché non gli faccio mai la curva dove dice lui per la foto. E nemmeno dove dico io. La curva viene dove deve venire, io sta cosa ancora non la domino bene, quindi la foto viene, inoppugnabilmente, male.

Ma la foto elettrizzante, al Batti, l’avevo chiesta perché volevo parlare del Leupa. Anzi a dire il vero la gita l’avevo approvata “così” potevo parlare del Leupa. Sapete, sto un po’in fissa con sta cosa che se non parlo io delle montagne, specie quelle un po’ diciamo “di nicchia”, poi non ne parla nessuno. E quindi su Google non si trovano. E quindi praticamente è come se non esistessero. Solo che il Leupa / Lopa in sloveno, con quella quota facile da ricordare (2402, bel numero), non ha proprio niente di interessante. Non è brutta, forse al più anonima. Più che brutta è “non-figa” che tutte le montagne pare siano fighissime e invece no, alcune non sono niente. A parte essere montagne, ovviamente. Ma quelle del Canin, poi più che montagne-montagne sono tipo cippi lungo la strada. Tutte circa uguali, squadrate, tarchiatelle, striate, poco alte (non basse, solo poco alte). Il Leupa pure è così. A forma di rettangolo, con una cresta piatta come cima, e le regolari stratificazioni calcaree che a me, magari un po’prosaicamente, ricordano le pieghette dell’omino Michelin. Tutte le cime del Canin son un po’come l’omino Michelin, quel fisico non slanciato, pacioccoso diciamo ma pur sempre ingombrante che se si sposta fa un casino.

Il Batti di foto me ne tira fuori due, pure un po’deluso che non c’era molta ispirazione (a nord, con il cielo terso, la poca neve, le solite cime, uffa). In una ci sono io, un puntino rosso in mezzo all’altipiano che punto dritto verso la nord del Leupa. Probabilmente in quell’istante, stavo pensando a cosa dire del Leupa, quindi potremmo dire che è una foto matrioska, oppure aristotelica a seconda del vostro gusto, ma in quel momento a me venivano in mente più che Leupa Aristotele e Matrioske, gli influencers. Che, poracci, devono sempre dire qualcosa della loro giornata – tipo me, adesso, solo che non ci vado a fare la spesa con ste cose che vi racconto – e deve essere una vitaccia, eh, sempre qualcosa da dire di una giornata.

Altopiano del Poviz – verso il Leupa – foto M.Battistutta

Vabè visto che non son influencer scrivo solo se mi pare oppure ho una mezzora libera, o voglio che il tag “Leupa” compaia più spesso su Google. Solo che il Leupa non ha niente di interessante. La parete, abbiamo detto. Banconate calcaree sia compatte che fragili, che a mio modesto quanto insindacabile modo di vedere, sono praticamente inscalabili. Si si, litighiamo pure però prima andate sul Leupa e io vi guardo da sotto. Chiamiamo anche i maghi del misto o del dry, una Angelika Rainer se si degna di venire qua e vediamo. Se agganci una picca una. Se ti proteggi a meno di 25 metri. Se quello che metti come protezione tiene più della vostra giacca. Vediamo. Tutti bravi. E poi: tiè c’è il Leupa. Che Buscaini, secondo me, è andato in fiducia quando gli hanno detto che c’erano 2 vie. Secondo me manco è andato a vedere che diciamolo, su, chi vuoi che vada a scalare 150 metri di quella roba lì. Io il canale friabile e la cengetta a sinistra e lo spigolo etc mica li ho visti. Ma lo capisco, il Busca, anche lui ogni tanto ha spuntato la lista perché andava di fretta magari. Peccato perché io dal Busca tiro sempre fuori robe interessanti, anche con 3 nomi una data e un “1 chiodo lasciato” che ci ricamo su le favole. Invece il Leupa niente. Ha due creste, sappiatelo. Una Est, una Ovest (facile). Non ha un versante sud (si ovvio che ce l’ha, ma voi fate come se non). Due normali. Una Est, una Ovest (facile). Quella ovest, “Celo”! Un inverno di anni fa, con Stief e Cricca, di quei tempi che la cima era il must. Che ti presenti “sciallo” e dopo neanche 5 minuti sei lì che ti muovi tipo gli acrobati di Oceans’eleven. Cengette spioventi, ghiaccietto, canalino-ok, uscita-non ok, cresta – sospiro – giù subito e piano e aspetta che vedo di piantare un chiodo valà – ah guarda c’è! (1 chiodo lasciato, avevi ragione Busca) – e via di doppia sul chiodo che ti pare un pilone. La est mi mancava, sarebbe pure la normale, ed è l’unica traccia digitale in Google (grazie Raffaello!). Cresta a tratti esposta, passaggio di II che d’inverno sarà una esaltante goulotte di ben 3 metri, cresta saliscendi. Facile. E qui veniamo alla seconda foto. Nella seconda foto ci sono sempre io, che traverso con fare delicatissimo e l’occhio sgranato sta cengetta che in realtà è pure larga eh, e avrà un saltino che so di 1 metro? e poi sotto c’è neve. Ma io paio sospeso sull’abisso. In quella foto c’è tutta la mia, la nostra, la sua (del Leupa), precarietà. Sarà il movimento che il Batti ha preso, sarà il casco, lo sfondo non lo so, ma lì c’è tutta la precarietà di questo nostro andare, di questo nostro essere. Se solo ci fosse più neve. Se solo sapessi se posso calarmi. Se solo capissi perché ci tenevo tanto a parlare del Leupa. Questo monte che tutti fingono di conoscere (“guarda! quello è il Leupa” dicono indicando un punto tra la Cima Confine e il Sart, che magari l’hanno letto su Peak Finder un attimo fa) e nessuno ci è stato mai. Questo monte che nessuno si fila, ma poi, se non c’è o se un giorno non lo vedi, ti dispiace. Come l’amico – che chiameremo non so, Fred – che c’è sempre a tutte le serate, ma non dice molto, non è antipatico, nemmeno simpatico, ma si ricorda del tuo compleanno e magari ti porta a casa quando sei sbronzo. Fred c’è. Il Leupa c’è. Ma se una volta non lo trovi ci stai male.

Però senti questa precarietà, questo senso di qualcosa che non sai mai quanto dura. Me lo si legge in faccia, nella piega del ginocchio, nelle mani che scorrono la roccia ed è precaria anche lei. E quindi non hai certezze più.

Sulla cima non ci siamo andati, poi. Era appunto un po’troppo precaria, quella poca neve, quel poco ghiaccio, quel poco tutto, anche la voglia magari. Siamo andati per poterci ricordare questa montagna e ne siamo tornati con meno certezze di prima. La montagna, a me, altro che fiducia in sé stessi e quelle cose che ci raccontano, mi da sempre meno certezze. Queste poi, mai. Ma forse è proprio questa assenza a rendere tutto molto interessante. E penso di nuovo agli influencers, che sono sempre certi di tutto, hanno sempre qualcosa da dire, mentre io oggi mi tengo stretta questa foto, questa precarietà che dovremmo sempre avere a cuore, come le montagne che nessuna sa dove sono, eppure ci sono sempre. A fare da sfondo. A portarci a casa.

Nei pressi di Forca Sopra Poviz, verso la cresta del Leupa – foto M.Battistutta

L’ultima notte di Hermann Buhl

di Saverio D’Eredità

Come nelle migliori tradizioni, dopo una giornata fosca il tramonto fu splendido e pieno di speranze. Subito dopo la cena, servita da camerieri in divisa e consumata davanti alla vetrata vista monti, uscimmo a raccogliere gli ultimi raggi di sole, sedendoci ciascuno su un proprio masso. Veniva voglia di parlare, di raccontare storie, mentre le creste scorrevano come titoli di coda sullo schermo via via più nero del cielo. E di storie ce n’erano tante. La cordata di tredici che precipita dalla cresta del Palù, le prime ascensioni della Kuffner con scarponi chiodati o le salite lampo di Herman Buhl. Qualcuno raccontò di aver letto di una salita di Buhl al Bernina con sua moglie. Avevano dormito proprio qui e il giorno dopo avevano attraversato il ghiacciaio ancora in piena notte, la luce delle frontali che andava ad intermittenza con le stelle, e ancora nell’ombra la risalita dei contrafforti della Fortezza. Gli ultimi passi, nella nuova luce del giorno verso il cielo del Bernina. “Peccato nessuno di noi si chiami Hermann Buhl”, ironizzò qualcuno per spezzare il momento e anticipare la ritirata verso i piumoni. La storia della cordata che cadde dalla cresta, invece, non la ricordò nessuno perché non c’era proprio niente da ridere. E comunque noi eravamo solo in quattro.

Continua a leggere

L’anno in cui le montagne diventarono più alte

di Saverio D’Eredità

E’l’ultima ora dell’anno. Vedo le ombre allungarsi tra le vie della città ed io ho passato la giornata facendo nulla. Nessuna cima celebrativa. Nessun rituale. Ho visto il giorno scemare, con indolenza e sollievo. Di archiviare un anno di cui porterò ferite per sempre. Di volti che non rivedrò. Di messaggi che non avranno risposte. E’ l’ultima ora dell’anno, ma l’anno per me da sempre finisce quando si spegne la luce sul Canin. Il resto è roba per astronomi. A me interessa il sole. Quando il Canin sprofonderà nelle ombre, potremo dirci addio. Ho sempre pensato che il Canin fosse una sorta di magnete, la bussola dell’intera pianura friulana. Verso questa montagna ho sempre provato un’attrazione particolare, indipendente dalla sua fama o dalla sua estetica. Per quanto, in realtà, se lo si guarda da certe angolature a sud est, il Canin rivendichi una sua nobiltà. Credo di aver iniziato ad andare in montagna proprio perché desideravo salire il Canin. Ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti. O forse è tutta colpa sua.

Esco quindi per salutare l’anno, il sole e il Canin, correndo lungo l’argine del Torre, tra quelle radure e le macchie di boscaglia che in questi ultimi tempi sono stati ora un rifugio, ora un limes invalicabile ,nei giorni in cui la libertà finiva contro un cartello con il nome del comune barrato. Mille volte ho corso ai margini di quel fiume spento, fino al ponte che segna il confine, a vedere il Canin e riorientare la mia bussola. Mi bastava un po’di bosco per sentirmi nuovamente vivo. Mi bastava vedere il Canin, per immaginare di nuovo il futuro.

Corro, come l’uomo nel video di Karma Police dei Radiohead. Corro per sfuggire alla notte ed incontro alla notte stessa. Come aliti, i primi banchi di nebbia esalano dalla terra umida. Sembrano anime che si sollevano da corpi esanimi. Corro attraverso le rade boscaglie, sfiorando i cespugli di rovi che nascondono qualcosa che non ho il coraggio di guardare. Ma a me basta questo po’di bosco per respirare ancora. Basta il profilo dentato del Canin per sapere dove andare.

Il Canin è il Nord di Udine. Se si sale sull’ultimo terrazzo del Castello, si trova una piastra d’acciaio che indica i punti cardinali e la toponomastica dei monti. Ho passato interi pomeriggi ad impararli a memoria. Ad orientare la mia bussola su quel nord. In quei tramonti di cui non ricordo né data né ora, il Canin poteva essere l’Annapurna dei libri sbirciati in biblioteca al CAI, e al tempo stesso le Grandes Jorasses di Bonatti o una remota cima andina. Il Canin era tutte le montagne messe insieme. Mi sembrava altissimo. Irraggiungibile.

Come una fiammata che risale il ceppo e poi si estingue, il sole lambisce ora i fianchi della sud, rincorre le lingue di neve, raggiunge la cresta. Mentre qui, in pianura, la notte è un’onda che viene non so da dove oltre il greto secco del Torre. Corro, come corro da mesi ormai, sfuggendo alla paura e a qualcosa che non so, come i segreti intrecciati dai rovi, come gli schiocchi oltre le siepi. Nemmeno sei mesi fa uscivo alla luce del sole in un’opaca mattina d’estate. Oltre i tetti delle case, il Canin era appena un’ombra che profilava oltre le foschie. Di nuovo, come nei tramonti di decenni prima, mi parve lontano ed irraggiungibile. Che tutte le montagne fossero diventate più alte.

Forse corro da quella mattina o magari da molto prima. Corro verso montagne che mi sembrava di aver finalmente raggiunto e che ora sono di nuovo alte e misteriose. Intanto corro ai margini di una notte che mi ha già ingoiato e di un fiume che ora non c’è, mentre una luce si spegne sulla cima e sono arrivato al ponte del Torre. Come nel video di Karma Police, posso farmi prendere o decidere di voltarmi e guardare negli occhi ciò da cui stavo scappando. Faccio ancora due passi, quindi mi volto e mi rituffo nelle nebbie sospese sui campi. Alle mie spalle svaniscono nel buio quelle montagne che da quest’anno sono diventate di nuovo un po’più alte.