Una lunga cresta nevosa si spinge in avanti, a definire lo spazio tra terra e cielo. I passi che precedono il momento solenne, percepire l’appagamento nel penultimo passo quello che ancora nasconde il mistero ultimo della salita ed è per questo il più prezioso.
Ma la vetta, questa vetta che ricorre nei miei sogni, d’improvviso si appiattisce e scompare.
Si trasforma. Diventa un banale terrazzino con ringhiera. Oltre non c’è il vuoto delle pareti. No, si apre una distesa di asfalto e cemento. Sembra un parcheggio. Più in là vedo che la mia cresta sottile diventa la passeggiata di un vialetto alberato in un parco cittadino. Smarrimento. Delusione. Mi sveglio.
Questo sogno ricorrente mi tormenta. Mi fa visita in notti inaspettate. Non mi spaventa, come gli incubi, semmai ha un effetto peggiore. Insinua dubbi. Mina le fondamenta delle mie aspirazioni. In breve, mi fa vivere un po’peggio, o un po’più malamente il resto della giornata.
Ed è questa la vetta che così spesso raggiungo nei sogni, questa vetta che per anni ho cercato di sovrapporre a cento altre, senza mai trovarla. Continua a leggere →
“I viaggi di Gulliver” oltre ad esser il titolo della famosa opera parodistica di Swift, è anche il nome di una nota ed ambita via di arrampicata sul Grand Capucin. Ora, non è della via di arrampicata che voglio parlarvi, anche se già posso immaginare il sorrisetto bavoso del lettore morbosamente a caccia di informazioni, foto, corpi atletici tesi nello sforzo di tirare una bella fessura di protogino o leggiadramente adagiati come farfalle su placche dall’aspetto impraticabile.
Diciamocelo, c’è una buona dose di voyeurismo in tutto ciò. E il sottoscritto non intende certo sottrarsi a questo peccatuccio veniale. Tutto sommato, ci è andata bene: potevamo essere dei depravati navigatori notturni di sito porno e invece siamo dei semi-ossessivi navigatori (indifferentemente diurni o notturni) di gallerie fotografiche di arrampicata. Niente di illegale, sebbene ugualmente tossico e generatore di dipendenza mentale. Continua a leggere →
Scrisse una volta Dino Buzzati che se Walter Bonatti fosse vissuto ai tempi di Omero, le sue imprese ci sarebbero state consegnate oggi come un poema epico. Questa affermazione mi ha sempre colpito, forse perché più di altre riassumeva il senso dell’alpinismo di Bonatti ed in un certo senso conferiva ad esso una dimensione quasi mitica. Bonatti, del resto, stava al pari di altri miti d’infanzia come potevano essere Indiana Jones o l’Uomo Ragno, ma che a differenza degli altri poteva giocare una carta decisiva. Bonatti era vissuto realmente e le sue imprese sono pagine ancora oggi luminose della storia dell’alpinismo e delle montagne. Non solo. A differenza dell’Uomo Ragno potevo vantare la sua firma sulla mia copia de “Le mie montagne”, cosa che più che attribuire un particolare valore al libro, stabiliva soprattutto un indissolubile legame tra me e Walter. Credo sinceramente che i suoi racconti possano contribuire in maniera decisiva alla formazione del carattere, nella stessa misura di quelli di Conrad o della musica rock. Ecco diciamo che I “Giorni Grandi” stanno all’alpinismo allo stesso modo in cui “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd sta alla musica degli anni settanta, un album che ad ogni ascolto sembra assumere ulteriore spessore, nuovi significati, altri echi, persino. Il diedro sinuoso del Gran Capucin, la “candela” del Freney, il Pilastro Rosso, la Traversata degli Angeli sul Cervino o l’abside del Dru. Non so se fosse la sua abilità di scrittore o cos’altro, ma le montagne di Bonatti sembravano porsi in una regione sconosciuta e quasi fantastica, popolata di immagini talmente potenti da occupare totalmente l’ingenua fantasia del neofita. I “Giorni Grandi” segnarono così il passaggio della linea d’ombra, che dall’infanzia conduce alla vita adulta, svelandomi qualcosa che andava oltre la montagna verso il desiderio degli spazi, della ricerca, qualcosa di meno riduttivo e più intenso dell’alpinismo in sé. E che forse ne è l’essenza stessa. Sul fatto che fosse il più grande di tutti, credo ci sia poco da discutere. Era il più grande perché non serve l’elenco delle sue salite o l’accademico, ed in buona parte sterile, confronto sui gradi per restituire la cifra del suo alpinismo. Forse proprio perché alpinista, alla fine dei conti, non era: un viaggiatore, piuttosto. E prova ne è proprio quel “tradimento” che lo vide scendere dalla croce del Cervino per salpare verso diversi ma non per questo meno incogniti spazi. A differenza di altri, Bonatti è riuscito a sopravvivere al suo stesso mito ed è possibile che la cosa gli abbia provocato ancora più nemici, ma anche che una parte della sua grandezza risieda proprio nell’ammissione di aver trovato un proprio limite. E che lo ha reso, in fondo, un po’più umano. Continua a leggere →