“Humboldt ci pensò su. No, disse poi, me ne rammarico.
Una collina di cui non si conosce l’altitudine è un’offesa per la ragione che mi inquieta. Senza esaminare costantemente la propria posizione, nessun uomo può progredire. Non si lascia ai propri margini un mistero, per quanto insignificante.”Daniel Kehlmann “La misura del mondo”
di Saverio D’Eredità
Oltre il tozzo pilastro del Robon, gli altipiani del Canin digradano di colpo verso le cime cupe della Val Rio del Lago. Questo contrafforte minore, finemente cesellato di rigole e goccette, è praticamente l’ultima parete delle Giulie procedendo verso sud. Al di là della Cima Confine, già brilla di luce la valle dell’Isonzo e il mare. Da qui in poi lentamente sfumano le Alpi, fondendosi nella placca balcanica ad altre montagne dal sapore d’oriente. Qui ci fermiamo anche noi, che nel frattempo siamo arrivati a trecentrotrentasette. Questo è il numero progressivo dell’ultima tra le vie inserite nella guida: “Rigoletto”, aperta da Marco Sterni e Massimo Sacchi nel 1998. Curiosamente questa parete non è solo l’ultima in senso geografico, ma anche cronologico dato che è diventata oggetto dell’esplorazione alpinistica solo a partire dagli anni ’80.
Si dice che Piussi e Cassin, osservando queste pareti durante una delle battute di caccia che erano soliti compiere da queste parti in autunno, fossero stati tentati, per un attimo, di rivestire i panni degli alpinisti che furono per lasciarvi un segno. Immagino la loro tentazione di riprendere chiodi e martelli e lanciarsi in una nuova avventura. Pare però che proprio Piussi smorzò l’entusiasmo dell’amico dicendo “Noi abbiamo fatto il nostro tempo, Riccardo. Lasciamo qualcosa agli alpinisti del futuro.
La profezia di Ignazio non fu smentita. Di lì a qualche anno su questa ed altre pareti un tempo considerate “minori”, iniziò a muoversi una schiera di scalatori d’eccezione. Gli alpinisti del futuro avevano raccolto la sfida, realizzando qui, nelle “invisibili” Giulie un alpinismo nuovo, che proiettava l’arrampicata in un’altra dimensione. Tecnica e mentale. Prima i vari Rizzotti, Sacchi, Sterni, Svab, quindi Polo e Gorobey hanno lasciato un segno chiaro. Una direzione da intraprendere. Tutte le scalate su questo lastrone di calcare carsificato, seppur recenti, sono ancora avvolte da un certo alone di mistero. Si parla di run out micidiali, spittaggi chilometrici e una roccia talmente compatta ed abrasiva da mangiarti le dita e impedire quasi del tutto l’uso delle protezioni mobili.
Scalate moderne, sì, ma talmente moderne che qui le ripetizioni si contano sulle dita di una mano. O non si contano affatto. Il senso di mistero ed aleatorietà che avvolge queste formidabili pareti è lo stesso che pervade ancora oggi le vie dei primi esploratori delle Giulie, vecchie di cento anni e più. Classico e moderno non sono mai così tanto vicini, paradossalmente, come tra queste montagne. Che si tratti della “via delle Doline” sulla desueta sud del Cimone o dell’ultima linea sul Bila Pec, dei camini tenebrosi percorsi negli anni ’20 come delle mistiche scalate sul Mangart, tutto qui sembra nascondersi agli occhi. La bellezza è un frutto che va cercato con pazienza.

Sto scalando un camino profondo e viscido, occluso da un masso ciclopico e soffocante. Non vedo l’ora di uscire da questa trappola, nella quale mi sono ficcato con troppo romantico entusiasmo. Soprattutto senza nient’altro che un paio di cordini al collo e di rinvii all’imbrago. Il camino si stringe a campana, la sua inclinazione obliqua mi costringe ad assumere una posizione anomala col casco che si incastra di continuo e mi impedisce di guardare oltre. L’uscita non è difficile, ma la roccia pare essere ricoperta di sapone e non dà nemmeno l’idea di esser tanto solida. Ci vorrebbe almeno uno straccio di protezione! Klug e Stagl, gli apritori di questa via nel 1916, probabilmente avevano ancora meno roba di me, corda in vita e scarpe chiodate. Il pensiero mi fa persino vergognare. Decido di togliere il casco e a tentoni cercare di far passare una fettuccia dietro un piccolo sasso che – ne sono certo – posso usare a strozzo. La mia operazione è goffa, ma efficace e confortato dalla protezione esco da questo “durissimo” terzo più.
Siamo sullo spigolo nord est del Fuart, più per caso che per volontà, poche ore dopo un violento temporale, ma con una luminosa giornata davanti. Questa “ex” classica pare oggi totalmente disertata. E’ il destino di certe vie: possono cadere nel dimenticatoio e infine, come certe facciate di antichi palazzi invase dalla vegetazione e sfigurate dall’incuria, scomparire. In questa, come tante altre vie di una volta, abbiamo ritrovato un alpinismo “istintivo” in cui fare valere molto più quel senso aggiuntivo che ti fa vedere l’appiglio giusto da caricare, piuttosto che grandi doti tecniche. I tiri di corda sono un’ipotesi e lo stile si adatta alla montagna, non viceversa. Nonostante l’arrivo in cima sia accompagnato da solenni promesse (e sonore imprecazioni) sul “non lo faremo mai più”, possiamo considerarci dei privilegiati. Oggi abbiamo fatto un vero viaggio nel tempo, provando sulla nostra pelle il sapore aspro della scoperta.
Riavvolgendo il nastro di questa salita ritornano in mente i camini oscuri, il delicato passare sulle rocce friabili come anche la sorprendente roccia dello spigolo. E quel traverso in cui l’unica soluzione era crederci tutti insieme senza farsi troppe domande. È l’ora del tramonto, un lungo tramonto estivo che addolcisce le forme delle montagne e ci nutre di luce. Distanti l’uno dall’altro ed assorti, scendiamo verso il rifugio Corsi, sperando che qualcuno ci raccolga dall’altro lato della montagna.

Questa, come ognuna delle centinaia di giornate trascorse tra queste montagne, è uno dei preziosi doni che riportiamo da questo viaggio. Un viaggio durato più di dieci anni, anche se, a ben vedere, non così lontano da casa. Che ci ha visto muoverci per pochi chilometri attorno ad un pugno di vallate e di montagne mute. Un viaggio che ci ha portato ad indagare ogni loro angolo, cercando di descriverne il volto ed intuirne l’anima.
Siamo quindi arrivati a trecentotrentasette, anche se contando tutte le altre vie che siamo riusciti a catalogare ed inserire, superiamo le cinquecento. Saranno abbastanza? E’ un’opera diabolica, compilare una guida: con quale presunzione possiamo di aver finito, quando di fatto non cerchiamo che catturare un frammento di ciò che è in perenne mutazione ed evoluzione? Sia perché l’alpinismo qui vive e si rinnova di stagione in stagione, esplorando nuovi spazi ed idee. Sia perché le montagne stesse, le immutabili – apparentemente eterne – montagne, cambiano. E la Natura in certi luoghi ha saputo riprendersi i suoi spazi, cancellando le tracce degli antichi. E quando abbiamo creduto – illusi! – di aver raggiunto un traguardo, ecco che là scoprivamo ancora un angolo di parete, o magari qualche canalone secondario, una cresta dove qualcuno era passato. Ed è vissuto. E ora non so se cercavamo di descrivere veramente il canalone secondario, o forse piuttosto inseguire le tracce di chi ci ha preceduto per comprenderne le emozioni. Dietro ogni passo di un uomo si cela un mistero. Non merita anch’esso, forse, di essere compreso?

Ma non si torna da un viaggio senza un insegnamento. Potremmo ripetere che queste montagne sono uniche, speciali o selvagge, ma non aggiungerebbe molto a ciò che sapevamo già. Anche perché tutte le montagne, a loro modo, lo sono. Da questo viaggio abbiamo imparato qualcosa di diverso. Ad avvicinarci alle montagne con animo aperto e liberandoci dai pregiudizi. Ritrovando il gusto ed il piacere di “cercare”. E di trovare. Che fosse anche solo un bel tiro lungo una via misconosciuta, o una parete solitaria sprofondata in valloni silenziosi. Che fosse una classica la cui memoria si stava perdendo nel tempo come delle fantastiche scalate moderne, ognuna di esse ci ha fatto vivere giornate piene e totali, su pochi tiri di corda come su mille metri di parete. Abbiamo imparato la pazienza e persino l’accettazione. E’ forse questo l’insegnamento più grande. Vivere la montagna nella sua interezza, riscoprendo la curiosità che dovrebbe essere alla base dell’alpinismo stesso. A suo modo, tutto ciò, è stato un piccolo antidoto all’omologazione.
Scrisse una volta Dino Buzzati a proposito delle guide di Antonio Berti, che nonostante il linguaggio tecnico, queste possono essere lette come un romanzo. Tutto sommato credo che avesse ragione. Perché in fondo a tutto, alla fine di questo viaggio, sfogliando queste pagine fresche, possiamo leggere una guida come fosse una storia d’amore. Che si ripete e rinnova di volta in volta, attraverso gli occhi e le mani degli alpinisti, di generazione in generazione. Una lunga storia raccontata con pudore, celandosi dietro i numeri, le date, i gradi. Fatta di altre storie, grandi e piccole. Cercando di mettere migliaia di metri cubi di roccia dentro una risma di carta patinata in formato 13×19. Se non è follia, se non è amore, questo, cos’altro?
“Alpi Giulie e Carniche orientali – edizioni Alpine Studio, 2019” è la nuova edizione, aggiornata e rivista della guida “Alpi Carniche e Giulie” del 2016. Contiene oltre 500 itinerari dalle normali alle più difficili scalate moderne, corredate da cartine, 50 schizzi tecnici e 137 foto in formato HD.
Vi aspettiamo per le presentazioni della guida (dove sarà possibile acquistarla), durante le quali vi parleremo del lavoro “dietro le quinte” con foto e video originali.
Udine, martedì 4 giugno ore 21, sede del CAI – Società Alpina Friulana di Udine
Trieste, martedì 11 giugno, ore 21, sede CAI-SAG
Codroipo, venerdì 14 giugno, ore 21, sede CAI