Per il puro piacere di arrampicare

 

Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
per lui tutto aveva un’anima
e tutte le anime erano un tutt’uno.

(P.Handke – Elogio dell’infanzia)

di Saverio D’Eredità

Sento una strana tranquillità, questa mattina. Parcheggiamo l’auto per primi in Val Venegia, proprio davanti ai profili dentellati e sbilenchi dei Bureloni che ancora ombreggiano sui prati freschi di rugiada.
Gli zaini, già pronti dalla sera prima, salgono subito in spalle e ci avviamo spediti. Anche ieri sera, nel prepararli, avvertivo questa singolare calma.

Sul pavimento del disimpegno il tintinnare argenteo dei materiali rompeva il silenzio della casa, ormai un passo nella notte. Per qualche istante mi concentrai sui suoni e sui gesti piuttosto che sulla scelta del materiale. Quante volte avevo già rinnovato questo rituale, ripetendo i medesimi gesti, udito questi suoni, rivolgendo le stesse domande al compagno? Continua a leggere

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Salvataggio sul Sass Maor

1960, Mina canta il cielo in una stanza; ma nella notte del terzo giorno del mese dedicato al più noto imperatore romano (Giulo Cesare) per Pepo e Barison i cieli e i boschi delle Pale di San Martino, sicuramente altrettanto vasti e infinti, sono forse un po’ meno romantici di quelli cantanti da Mina. Riportiamo di seguito il racconto scritto da Giorgio Sent “Pepo” dell’incidente avvenuto sulla via Solleder al Sass Maor e del rocambolesco soccorso, degli amici Gransi, partiti direttamente da Venezia.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Le Alpi Venete, autunno Natale 1984

Salvataggio sul Sass Maor

Giorgio Sent «Pepo» (Sezione di Venezia)

Queste note mi sono state recentemente affidate dall’A. soltanto perché mio tramite restassero in qualche modo conservate per documentare la bravura tecnica e lo spirito di solidarietà degli amici che operarono il salvataggio. La drammaticità della vicenda, ottimamente resa dalla scarna ma efficacissima prosa, mi hanno fatto pensar utile riportare lo scritto nella nostra Rassegna, anche se esso si riferisce a vicende ormai lontane nel tempo. Devo aggiungere che non è stata però cosa facile ottenere l’autorizzazione dell’A., timoroso com’era ed è di poter apparire, sia pure di riflesso, un autoesibizionista. Cose veramente… d’altri tempi!
C.B.

Alle ore 3,30 del 3 luglio 1960, in compagnia dell’amico Augusto Tagliapietra «Barison» del Gruppo Rocciatori «Granchi» della Sezione di Venezia, lasciavo il rifugio Cant del Gal in Val Canali, nel Gruppo delle Pale di S. Martino. Verso le ore 7 giungemmo al punto d’attacco della parete Est del Sass Maor.  Alla nostra partenza dal rifugio il tempo era buono ed il cielo sereno. Il tempo cominciò a mutare nel momento in cui raggiungemmo il lungo camino d’attacco della via «Solleder». Fummo perciò avvolti dalla nebbia e ci prese un leggero gocciolio di pioggia: contemporaneamente, però, si alternavano delle schiarite che ci permisero di osservare tutta la via di salita. Il tempo, comunque, non preoccupava. Percorremmo il lungo camino fino alla base del diedro in libera arrampicata. A questo punto ci legammo e giungemmo molto presto all’inizio delle traversate. Conducevamo la cordata a comando alternato. Attaccai la prima traversata e la percorsi per tutta la sua lunghezza fino a raggiungere un terrazzino con alcuni chiodi. Dopo le varie manovre di assicurazione, feci partire il mio compagno il quale, giunto al posto in cui mi trovavo, proseguì direttamente per il raccordo, lungo circa venticinque metri, che unisce le due traversate. Lo raggiunsi, quindi, e proseguii per altri dodici metri fino al punto in cui inizia la seconda traversata.

Partii nuovamente in testa alla cordata percorrendo la seconda traversata fino a raggiungere un minuscolo terrazzino situato proprio su uno spigolo; i numerosi chiodi indicavano chiaramente il posto di cordata. Il mio compagno mi raggiunse e proseguì aggirando lo spigolo fino ad una nicchia, 5 o 6 metri da questo. Dalla nicchia, seguendo il consiglio di Plinio Toso «Orso», che aveva salito in precedenza la via, scesi alcuni metri obliquando poi a sinistra per una ventina di metri fino a raggiungere un terrazzino alla base di un verticale diedro grigio alto 15 metri circa, forse quello della variante Floreanini. Sul terrazzino si trovava infisso un chiodo con anello. Lo provai; sembrava buono. Giunto il mio compagno, questi passò in testa alla cordata. Ormai le difficoltà estreme erano superate; il diedro presentava un’uscita strapiombante di V grado; il rimanente tratto, a mio avviso, di III e IV grado. Avevo considerato che in meno di due ore avremmo potuto raggiungere la cima. Erano circa le 11,30. Il mio compagno cominciò l’arrampicata; a 5-6 metri sopra di me lo consigliai di mettere un chiodo, rispose che non era il caso. Proseguì fino all’uscita del diedro, ma a questo punto si trovò un po’ imbarazzato. Lo esortai a chiodare: non rispose (era la prima volta che, non si atteneva ai miei consigli). Aveva 19 anni; io 34. Lo portavo in cordata con me appunto per insegnargli la prudenza e soprat-tutto la valida norma di arrampicare con il cervello. Si era sempre comportato onorevolmente e possedeva buone doti arrampicatorie. Aveva solo bisogno di un po’ di preparazione tecnica e di maggior esperienza. Scese di qualche metro per riposarsi; io assistevo impotente. Riprese a salire. L’uscita strapiombante lo poneva fuori equilibrio (era a circa 12 metri sopra di me). Si attaccò con tutte e due le mani ad un grosso spuntone sovrastante il diedro. Si tirò su con forza; l’appiglio cedette. Lo vidi precipitare. Tenni le corde senza bloccarle in quanto avevo la certezza che, bloccandole, si sarebbero spezzate, oppure avrebbero fatto saltare il chiodo. Le corde si sfilacciarono ma resistettero. Il chiodo si contorse e l’anello prese la forma di un lungo uovo. E stata una vera fortuna che il chiodo abbia tenuto; forse la mano di Dio ci ha voluti risparmiare. Nel caso avessi eseguito l’assicurazione a spalla, con uno strappo del genere mi sarei rotto la spina dorsale, oppure si sarebbero spezzate le corde o uscito il chiodo, in quanto le corde non avrebbero subìto una trazione graduale ma un bloccaggio troppo repentino. Tra l’altro non avrei avuto la possibilità di adoperare le due mani per il recupero del compagno. Il forte strappo della manovra d’assicurazione a chiodo, mi compresse le mani tra la roccia ed il moschettone procurandomi la frattura del metacarpo sinistro e molte escoriazioni. Il mio compagno si trovava a circa 20 metri sotto di me, su uno strapiombo di circa 600 metri. Dondolava penzoloni senza alcun segno di vita. Lo chiamai ripetutamente: invano! Una saliva amara mi giunse alla bocca; ebbi un attimo di smarrimento. Pensavo a mia madre ed a quella di «Barison». Una infinità di pensieri affluiva alla mia mente: avevo la sensazione che la testa mi scoppiasse. Ero volato anch’io in altre occasioni ma sui chiodi, però: mi erano pure volati altri compagni, ma mai mi ero trovato in una situazione così seria. Che fare? pensavo. E morto; ma forse no! Non potrei abbandonarlo neanche se fosse morto. Potrebbero pensare che sia un vile o che lo abbia abbandonato. Questi pensieri si alternavano nella mia testa, ma fortunatamente riuscii a contenere i miei nervi. La volontà che avevo più volte cimentato sulle crode ed il serio allenamento che avevo conseguito per affrontare tale via, mi furono di notevole aiuto. Lo chiamai più volte senza esito. Ad un certo momento udii dei rantoli; ebbi una stretta al cuore; credevo che fosse finita per sempre. Continuai a chiamarlo e finalmente mi rispose: mi pregava di fasciarlo andare in rifugio. Capii che vaneggiava e lo

Pensai subito di evitargli la stretta delle corde al torace. In quelle condizioni non poteva resistere a lungo. Cercai disperatamente di fargli eseguire le manovre che volevo io, ripetendogliele più e più volte e facendolo agire come un automa. Constatai, inoltre, che aveva barlumi di conoscenza e ne approfittai. Eravamo legati a due corde. Una la resi fissa e l’altra gliela calai giù per tre metri in modo che potesse fare un nodo ed agganciare una staffa. Lo feci montare sulla staffa, e la stretta della corda al torace non la sentì più. Resi fissa la corda della staffa; gli calai l’altra corda facendogli eseguire la stessa manovra. Dopo inauditi sforzi, date le sue precarie condizioni, ci riuscì. Mi accorsi che la mano sinistra mi doleva e che avevo le mani insanguinate. Pregai Iddio che ci aiutasse. Esortai nuovamente il mio amico ad attenersi alle mie istruzioni e, sempre con l’aiuto dell’assicurazione a chiodo, gli gridai di alzare la gamba destra e di appoggiare tutto il peso del corpo sulla staffa sinistra; in quel mentre recuperavo la corda per quanto possibile e subito la bloccavo. Feci ripetere la manovra in senso contrario e cioè facendo in modo che il mio compagno spostasse il peso del corpo sulla staffa destra ed alzasse la gamba sinistra; potevo così recuperare la corda scarica. Con questo sistema, in circa tre ore riuscii a far giungere il mio compagno sul terrazzino in cui mi trovavo. Solo lui con la sua forte costituzione fisica ha potuto superare un sì grande sforzo. L’abbracciai e mi sentii più forte. Subito, però, mi resi conto delle sue gravi condizioni. Aveva il capo insanguinato ed accusava dolori. Voleva dormire e talvolta usciva con frasi prive di senso. Riscontrai, inoltre, che nella caduta aveva perso lo zaino con indumenti e viveri. Gli misi in testa il mio berretto di lana, gli infilai la giacca a vento e gli feci bere del the. Nonostante la gravità della situazione, pensai che bisognava ch’io cercassi di portarmi al più presto in cima oppure di avvicinarmi ad essa il più possibile. La cima distava da noi circa 300 metri e nel punto in cui ci trovavamo nessuno avrebbe potuto aiutarci in tempo utile; avevo, infatti, paura che per il mio compagno un bivacco potesse essere fatale.

Proseguii l’arrampicata; infissi alcuni chiodi e superai il diedro raggiungendo così un comodo terrazzo, posto di arrivo della seconda traversata. Cercai di spronare il mio compagno a salire ma non voleva muoversi. Si trovava accovacciato e assopito sul terrazzino. Provai a tirare la corda, lo rincuorai, lo sgridai. Finalmente mi seguì e mi raggiunse. Nel frattempo incominciò a piovere. L’acqua ci entrava dal collo e finiva sulle scarpe. Dovevamo superare pure una liscia placca grigia e raggiungere così la serie di camini che porta sotto la vetta. Ma la pioggia si tramutò in neve e ben presto uno strato di alcuni centimetri coprì la parete. Il mio compagno si lasciava trascinare sempre più stancamente. Il tempo volava. Alle 21 giungemmo alla base dell’ultimo camino, a circa 100 metri dalla cima. Ancora 20 metri di arrampicata e poi, uscendo a sinistra, avremmo potuto facilmente raggiungere la vetta. Ma oramai era buio. Ricuperai «Barison» e mi apprestai ad affrontare la notte. Aveva smesso di nevicare. Eravamo bagnati fradici. Ci coprimmo con gli indumenti di ricambio che avevo portato con me. Verso la mezzanotte un forte vento gelido spazzò le nubi; tutto intorno era ghiacciato; il telo di nylon che ci avvolgeva, ci riparò dall’aria e da altri eventuali malanni. Trascorsi la notte battendo i denti e rincuorando il compagno che temevo potesse crollare di momento in momento. Al mattino splendeva il sole, ma il vetrato non si scioglieva; faceva troppo freddo. Le escoriazioni alle mani mi procuravano acuti dolori e così la mano sinistra si era molto gonfiata. Cercai ugualmente di salire gli ultimi 20 metri, ma purtroppo dovetti capacitarmi che da solo non ce l’avrei mai fatta. Non mi scoraggiai. Innanzitutto perché il mio compagno, pur essendo sempre assopito, aveva resistito ad un bivacco infernale, inoltre perché sapevo che all’appuntamento della sera prima a S. Martino di Castrozza — ove ci attendeva il pullman della gita sociale che riportava la comitiva di ritorno dalla cerimo-nia d’inaugurazione del Rifugio Mulaz — c’era-no quattro miei amici del Gruppo rocciatori «Granchi»: Gianni Franzoi, Enzo Miagostovich, Giacomo Penso «Sigalon» e Antonio Romanelli. Logicamente, non vedendoci, avrebbero capito che ci eravamo trovati in difficoltà.

La Via Solleder al Sass Maor. — o punto della caduta; x punto del ricupero.
La Via Solleder al Sass Maor. — o punto della caduta; x punto del ricupero.

 

E fu così! Miagostovich era partito con il pullman per Venezia, per chiamare tutti i «Granchi» disponibili a raccogliere materiale per il soccorso, mentre Franzoi, Romanelli e Penso s’erano subito incamminati per raggiun-gere la cima del Sass Maor per la via comune, che però a causa del buio e del vetrato, aveva-no potuto raggiungere solamente al mattino successivo, dopo un breve ed improvvisato bivacco alla base della via comune. Nel frattempo Miagostovich era riuscito a raccogliere tutto il materiale necessario e ad incontrarsi con cinque amici del Gruppo e all’una del 4 luglio era ripartito con due automobili da Venezia raggiungendo alle 3,45 Fiera di Primiero. Un gruppo aveva proseguito per San Martino per raggiungere la cima del Sass Maor per la via comune; l’altro si era portato al Rifugio Cant del Gal in Val Canali per raggiungere l’attacco della via Solleder. Verso le sette del mattino sentii chiamare dalla cima. Risposi subito, ma data la posizione in cui ci trovavamo, il forte vento dissipava la mia voce. Erano Franzoi e Romanelli che cercavano di individuarci ma purtroppo non mi riuscì di mettermi in contatto. Verso le otto dalla base della parete sento distintamente chiamare il mio nome; rispondo gridando che mi trovavo alla base del camino del foro. A causa del sibilo del vento, ci volle molto tempo prima che potessero sentirmi, ma quando il cielo volle, riuscimmo a capirci. Fu così che Plinio Toso (Orso), Gianni Lazzarini e Angelo Lacchin «Tiraca» ridiscesero al Rifugio del Cant del Gal, dando notizia che ci trovavamo a cento metri dalla cima e che in tale situazione avrebbero operato i nostri amici che erano saliti in vetta per la via comune durante la notte. Da quel momento non sentii più alcun richiamo. Il mio orologio si era fermato perché non potevo più caricarlo. Il tempo mi sembrava un’eternità. Penso che saranno trascorse due ore prima di udire nuovamente chiamare. -In cima al Sass Maor erano frattanto giunti parte dei «Granchi» provenienti da Venezia. Uniti a Franzoi e Romanelli, formarono un coro di voci che distinsi benissimo. Cercai di arrampicarmi lungo il camino ma era inutile. Raccolsi tutta la mia voce e risposi fortemen-te. Mi udirono. Calarono Berto Pensa per circa 40 metri e ci fu facile dialogare. Spiegai le condizioni del mio compagno e li pregai di far presto. Pensa scese nuovamente ed in breve giunse sopra il camino alla cui base mi trovavo. Mi gettò una corda con la quale legai molto saldamente il mio compagno, che non voleva muoversi. Riuscii a trascinarlo fino alla base del camino ed a spingerlo su per i primi passi. Il resto lo fecero i miei amici. Poco dopo giunse la corda anche per me; finalmente mi sentii sicuro in quanto le corde con le quali ero unito a «Barison» erano ridot-te in condizioni impossibili. Salii trainato ado-perando i gomiti, le spalle, le ginocchia in quanto neppure potevo toccare la roccia con le mani doloranti. Raggiunsi Berto e con lui la salvezza. Fui preso da un abbraccio fraterno e da profonda commozione. Poi mi rimorchiarono su, fin sotto la cima lungo la via comune. All’incontro con gli altri fraterni amici — Dino Toso «Fagio», Franzoi e Romanelli — ci abbracciammo e ricordo che piansi. Forse i miei nervi stavano cedendo. «Barison» destava preoccupazione; erano le quattro del pomeriggio e bisognava far pre-sto; non avrebbe sostenuto un altro bivacco.

La via di discesa era tutta vetrata nonostan-te il sole. «Barison» affrontò la discesa assieme a Franzoi. Seguivo io legato con Berto, mentre Toso e Romanelli ci stavano vicini per aiutarci. Al termine della discesa, poco prima di raggiungere la calata a corda doppia con la quale si raggiungono le ghiaie del Cadinot ed il sentiero, incontrammo gli istruttori delle Fiamme Gialle di Predazzo Quinto Scalet e Pietro De Lazzer, ai quali ero da anni legato da amicizia. Con loro c’erano pure due allievi, Zanella e Zagonel. Appena avuta la notizia dell’incidente sulla Solleder, erano subito accorsi. Aiutarono anche loro a calarci giù per la corda doppia fino alle ghiaie, dove trovammo altri due fidi amici, Giacomo Penso ed Enzo Miagostovich; quest’ultimo era stato il direttore e coordinatore della tempestiva opera di soccorso. Poco dopo giunsero ancora due amici veneziani pure loro del «Gruppo Granchi», Ciccio Creazza e Vittorio Penzo, che erano partiti da Venezia alcune ore dopo. Scendemmo tutti per il sentiero verso San Martino. «Barison» si comportava coraggiosamente nonostante le sue poco confortevoli condizioni. Giunti ai prati incontrammo gli altri «Granchi». L’incontro fu commovente. Uscire così fortunatamente dalla «Solleder» dopo un incidente del genere aveva dello straordinario. Ma il merito va tutto a questi generosi amici che con il loro spirito di abnegazione e la loro perfetta preparazione tecnica sono potuti intervenire e hanno compiuto con tempestività sbalorditiva una delle più belle imprese di salvataggio alpino. Una barella e un’autoambulanza portarono a tutta velocità «Barison» all’ospedale di Feltre. Qui i medici affermarono che se fosse giunto due ore dopo per lui non ci sarebbe stato più nulla da fare. Così si concluse bene questa grossa avventura sulla Solleder del Sass Maor. Ho sentito doveroso scrivere subito queste righe affinché rimangano a testimonianza dell’alto spirito di sacrificio e dei rischi affrontati dai miei amici veneziani, ai quali io e Barison dobbiamo la vita. Sono fiero di appartenere al Gruppo «Granchi» e sono orgoglioso dell’amicizia che sempre a loro mi ha legato.

Dopo questo episodio si narra che sia nato il quarto verso dell’inno dei Gransi…

Se da’le crode invocan soccorso

El gransio xe ‘l primo a correr sul posto!

 

Solleder al Sass Maor relazione


Val Canali trenta anni dopo

di Eugenio Cipriani

Trent’anni e nessuna nostalgia per quella valle.

Che sia splendida è fuori discussione. Inoltre, io e lei, “c’eravamo tanto amati”.

Ma in questi trenta anni di assenza non ho mai provato nostalgia per l’alta Val Canali.

Per caso, l’altro giorno, sono tornato lassù, in una giornata tipicamente autunnale, con i boschi giallo-rossi, montagne ancora senza neve e cielo cristallino.

A parte qualche cartello che segnala la presenza del Parco e qualche frana recente che ha butterato qua e là alcune pareti, nulla sembra essere cambiato.

Tutto come trent’anni fa’.

Eppure non è più la stessa valle. La colpa, probabilmente, è delle cinquantacinque  primavere che pesano sulle mie spalle.

E dei ricordi – certi ricordi – che si fatica a cancellare.

Passo davanti alla “Ritonda” e penso che a mezzogiorno, al suo solito tavolo dove andava quotidianamente a pranzare non c’è, e non ci sarà mai più, Gabriele Franceschini.  Che avevo intervistato proprio lì, sotto il suo Sass Maor. Non smetteva di raccontarmi di Buzzati, quell’uomo, nonostante facessi il possibile per fargli parlare d’altro!

Non c’è e non ci sarà mai più nemmeno Lino Ottaviani, fortissimo scalatore veronese dallo stile impeccabile, col quale salii la Solleder alla Immink, seconda via in Dolomiti della mia vita. Saliva leggero come una farfalla. Ma, come una farfalla, visse troppo poco. Poco più che quarantenne venne divorato dalla leucemia. Fu qui, al parcheggio della Val Canali che nel 1980, al ritorno da una scalata, Lino trovò la propria auto scassinata e buona parte del suo materiale alpinistico rubato. Facemmo una colletta perché si risollevasse economicamente un po’.  Ci sentivamo tutti uniti e tutti amici. Illusione. Il tempo mi ha dimostrato, invece, che l’amicizia – quella vera –  è un’altra cosa e che legarsi assieme ai due capi di una corda il più delle volte è solo cameratismo.

Al bivio per il Minazio lascio che i miei occhi corrano lungo la sud della Cima dei Lastei. Mi torna in mente quando a diciannove anni, emulando il Conte di Lovelace, stappai sulla cima una bottiglia di spumante per festeggiare il fatto di avere appena salito la Cappellari-Lotto. Affrontare con la poca esperienza che avevo allora quella parete così grande e complessa fu per me un traguardo impagabile. Il sorriso si trasforma in smorfia, però, non appena guardo, un po’ a destra della “Cappellari-Lotto” , la via “perla nera”. Il suo entusiasta ideatore, il “Ciba” (al secolo Silvio Campagnola), non c’è più. Anche lui portato via troppo presto da un male incurabile.

Arrivo al rifugio Treviso. E’ fuori stagione ed è lunedì. Non c’è nessuno. Il silenzio è totale.

Eppure sento i rimbalzi di un pallone, un pallone da basket. Non ho bisogno di alzarmi per andare a vedere di che si tratta. Chiudo gli occhi e vedo come fosse ieri Renzo Timillero, detto “Ghigno”, che mi passa la pesante palla arancione dicendomi “dai, gioca un po’ tu col bocia (si riferiva a suo figlio Sandro), che io devo andare in cucina a dare una mano”.

Nemmeno lui vedrò mai più al Treviso.

Mi allontano dal rifugio e mi porto sotto la nord del Dente. Ombrosa e trascurata da tutti, quella breve ma ripida parete mi affascinò sin dal primo momento che la vidi, nel 1979. Nel 1983 chiesi al “Ghigno” se vi fosse qualche itinerario lassù. Mi guardò a lungo, soppesò attentamente le mie salopette a righine verticali bianche e rosse, la mia T-shirt bianca e la mia aria da fighetto di città. Poi sorrise e mi disse: “Non c’è nulla, ma prima è meglio se ti fai le ossa”. Aveva ragione, ma quella frase fu come benzina sul fuoco della mia passione per la roccia.

Tornai la settimana dopo con un compagno “improbabile” col quale avevo da poco salito una facile via nuova sul Sasso delle Lede, sempre in Val Canali: Fabrizio detto “Forbicina”. Zero tecnica, zero esperienza, tanta buona volontà. Doti, le sue, che unite alle mie (scarsissime sotto ogni punto di vista) non furono sufficienti per superare la fessura iniziale del Dente. Disilluso ma non rinsavito attrezzai una doppia con la certezza di tornare. E così fu.

Un anno dopo, a giugno, io e Tano (Cavattoni) attaccammo di slancio la parete superando la fessura senza difficoltà. Poi ci diedero il cambio in testa alla cordata Gianni (Rodighiero) e Carlo (Andrighetto). Incrociata la Franceschini proseguii da capocordata in linea retta sbucando per primo in cima.

In fondo, la piccola soddisfazione di aver preceduto gli altri me l’ero meritata. Avevo scoperto io il problema ancora da risolvere ed avevo in anticipo individuato linea di salita e punti deboli della parete. Tecnicamente, però, il merito di aver superato con protezioni limitatissime le placche centrali andava tutto al Gianni. A Carlo, invece, spettava come sempre il merito di averci fatto crepare dal ridere con i suoi aneddoti e le sue battute in veneziano!

In parete lasciammo un chiodo ad ogni sosta ed un paio di ancoraggi di passaggio. Allora (bei tempi) i fix non si sapeva nemmeno cosa fossero!

Tornati al “Treviso” il “Ghigno”, dopo aver saputo della nostra scalata e dopo aver letto la relazione che in fretta e furia scribacchiammo sul libro del rifugio, approvò solennemente e ci fece pure i complimenti. Mi guardò di sottecchi e mi sorrise. A questo punto mi parve chiaro che, nonostante la mia salopette a righine verticali bianche e rosse e la mia aria da fighetto di città, ai suoi occhi avevo “superato l’esame”.

Ricopiai la relazione scritta sul libro del rifugio e la mandai a Gianni Pieropan, che allora curava la rubrica “Nuove ascensioni” sulle Alpi Venete. Venne puntualmente pubblicata sei mesi dopo.

Ventotto anni dopo, il 24 settembre del 2000, Ermes Bergamaschi, Mauro Moretto, Francesca Fachinat, Fabrizio Todesco in compagnia nientedimeno che del grande Lorenzo Massarotto  salirono la stessa parete ritenendola ancora inaccessa. E parlarono della loro salita come di una “prima”.

Evidentemente avevano effettuato la scalata in un giorno assai nebbioso perché, pur seguendo un percorso analogo al nostro, non videro i chiodi lasciati da noi.

Capita. Come sanno bene i frequentatori della Val Canali, spesso quelle cime vengono avvolte da nuvole basse ed assai compatte che non ti fanno vedere ad un palmo dal naso.

Quel che non capisco è come mai autore ed editore del libro sul “grande Mas” continuino ad attribuire quella parete e quella via allo scalatore di Villa del Conte ed ai suoi amici quando pure sulla recente guida dei Monti d’Italia sta scritto a chiare lettere che la salita di Massarotto & soci coincide con la mia e dei miei amici ma è posteriore di ben ventotto anni! Eppure Massarotto non ha certo bisogno di quella modestissima via in più per essere ricordato quel grande dolomitista che era!

Pensando a ciò guardo la parete e scuoto la testa un po’ amareggiato. Mi consola tuttavia il fatto che oggi, grazie alla limpidezza del cielo autunnale, riesco ad avere immagini chiare di quella “piccola nord”  così nascosta ed appartata. E posso segnarvi il tracciato della nostra via del 1984. La memoria mi restituisce qualche sbiadita istantanea di quella giornata. I singoli passaggi, però, si sommano a milioni di altri passaggi fatti in tutti questi anni di scalate.

C’è nebbia anche nella mia memoria, ormai. E’ umano.

Mentre fotografo mi spunta una lacrima. Probabilmente rimpiango i miei vent’anni. “La gioventù purtroppo se n’è andata per sempre – penso dentro di me – ma per fortuna ho ancora entusiasmo e discreta baldanza fisica. Forse potrei accarezzare ancora le rocce della Val Canali e riprovare, almeno in parte, le belle sensazioni di allora”.

Asciugo la lacrima senza farmi vedere dalla mia compagna, che invece si sta serenamente godendo il sole autunnale in una valle a lei del tutto sconosciuta. Guardo il suo sorriso, la sua aria felice e mi ritrovo a sperare che per lei, in futuro, la Val Canali possa rappresentare un angolo della memoria popolato solo da ricordi positivi e luminosi.

Proseguiamo la nostra passeggiata. Lascio alle mie spalle il Dente, il Ghigno ed i miei vent’anni. Soprattutto cerco di lasciare alle mie spalle, almeno per un po’, i dissapori alpinistici che troppe volte hanno macchiato il mio amore per le montagne.

Salgo alla volta dell’Alberghetto. Già, l’Albergetto, quel grande masso sotto la  Cima del Coro che i pastori usavano per bivaccare. E dove bivaccai anche io, nel 1982, quando …

… ma questa, è un’altra storia.

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