di Saverio D’Eredità
Vinsero quindi le ombre. Finiva lì, appena sotto il tetto che segnava l’occhio della Sfinge la nostra rincorsa all’ultimo giorno d’estate. Avevamo cercato la luce, senza mai trovarla, scalando i muri grigi e compatti della Sfinge. La parete basale, altissima e verticale, sembrava non finire mai. Alzando gli occhi non vedevamo che uno sconfortante ciglio di mughi e non altro che lavagne grigie ai nostri lati. Come se la montagna quel giorno non avesse cima. Della luce del giorno, terso ed immobile, potevamo osservarne solo il riflesso, quando illuminava ora il profilo destro ora quello sinistro della “faccia” senza mai riuscire a rivelarne completamente il volto.
Assaporai, seppur malinconicamente, i metri finali di quel diedro liscio e squadrato, sapendo anche che sarebbero stati gli ultimi per quel giorno, e forse per tutto il resto della stagione. Una domanda sarebbe quindi rimasta sospesa, sotto quell’occhio muto e al termine del nostro giorno irrisolto. Scoloriva il giorno all’orizzonte, la pietra facendosi man mano fredda. Non avevamo più fretta. Il buio ci avrebbe sicuramente ripreso sulla via del ritorno. Quando tornammo al rifugio la Sfinge sembrava inghiottita dalla notte.
Non sarebbe stata priva di conseguenze, quella rincorsa. Camminando per le strade in questi giorni imperfetti, incerti ancora sul farsi dell’autunno, pare come che ogni libro sia stato già letto, ogni parola ridetta mille volte. Trascino il senso di incompiutezza e rinnovo stancamente i rituali. Sfoglio riviste, immagino salite, provo ad inquadrare qualche progetto per l’inverno senza troppa voglia. Tutto ciò è solo un monotono ripetersi che va di montagna in montagna, di salita in salita, quasi svuotandole di ogni contenuto. Desidererei avere un grande atlante, un atlante delle montagne dove puntare nuovamente il dito e cercare una cima rincorrendone il nome, la posizione, la forma. Un atlante che non segua suddivisioni scientifiche, geologiche e nemmeno politiche, ma che proceda per assonanze e suggestioni. Questo atlante immaginario sarebbe appena da disegnare, descrivere e nominare. Sarebbe un lavoro improbo, per di più senza alcuna utilità. A chi potrebbe mai importare oggi?
Quasi ogni montagna slovena è legata ad un mito o una leggenda. Qui trovano talvolta l’origine del proprio nome, o la spiegazione di certi fenomeni particolari ad esse legate. Questi “miti di fondazione” fanno sì che esse non siano semplici rilievi, magari odiati o temuti, quanto piuttosto una personificazione della natura stessa. Una natura che ha anima, talvolta persino volto e voce. Che è capace tanto di punire che di proteggere. Quasi sempre, in queste leggende, si avverte il senso di rispetto ed inviolabilità delle vette stesse. Esse vanno rispettate, amate, raramente e comunque a proprio rischio affrontate. Trattandole con questo amore saranno loro a restituirne agli uomini che vi sia avvicineranno. Ed è proprio questo affetto, unito al mistero che esse pretendono a renderle al tempo stesso affascinanti e intime. Come se fossero quasi in grado di ascoltarti.

Annerite dalle piogge appena cessate, le pareti del Triglav si chiudevano torve alla testata della Vrata. Risalendola con il furgone del Mose ebbi la sensazione di inoltrarmi in un fiordo buio e senza fondo. Trovò parcheggio prima della sbarra, come di consueto, e dopo cinque minuti eravamo di nuovo seduti, stavolta sulle panche del rifugio ad aspettare uno sproporzionato piatto di palacinke e sfogliando libri fotografici. In certe inquadrature invernali avresti faticato a distinguere la Rjavina dal Masherbrum.
Forse per le foto, o eccitati dall’iniezione glucosica delle palacinke, finimmo a parlare di terre lontane. Il Mose mi parlò di certe montagne sconosciute dell’Asia Centrale, forse persino non viste né tantomeno scalate, dove la neve è più leggera dell’aria e una tempesta di neve a novembre può imprigionarti fino al disgelo. Il fianco boscoso che stavamo risalendo, invece, sapeva di foglie marce e terra buona. Nulla lasciava presagire l’inverno, confinato a poche strisce nevose sotto la testa emergente del Triglav. Ogni tanto alzavo gli occhi alla parete dello Stenar che incombeva sopra le nostre teste. Scurita dalle colate d’acqua e baluginante tra i vapori in risalita essa mi sembrò per un istante nuova, e sconosciuta.
Da tanti anni non risalivo questo versante della Škrlatica. C’è stato un tempo in cui traevo maggiore godimento nell’approcciare i monti dai loro versanti più lunghi e disagevoli, aumentando volontariamente i metri di dislivello come se questo conferisse una maggior dignità alle giornate. Non importava la difficoltà o il prestigio di una cima, quanto l’averla conosciuta dalle fondamenta, dai suoi lati meno attraenti, ricercandone la bellezza anche nei minimi dettagli. Rimpiango in fondo quel tempo, che era di scoperta costante e sorpresa. In cui il grande atlante era ancora aperto e bastava scorrervi il dito. Più spesso mi era capitato di grondare sudore nel cuore delle peggiori estati, soffocando tra i mughi e arrostendo lentamente sulle pietraie. Per fortuna si cresce per qualcosa, e quel qualcosa poi si chiama invecchiare.
Il bivacco IV poggia sul bordo di un altipiano di rara bellezza. La numerazione romana e l’assenza di targhe e memorie rimanda a certe consuetudini astratte e spersonalizzanti da socialismo reale, ma in questo caso sembra semplicemente volerne minimizzare l’impatto. Quasi come se trovarlo fosse questione di un codice segreto. Vi arrivammo in poco più di un’ora.

Seduti su due sassi ad asciugare le chiappe sudate, osservavamo i vapori del mattino stazionare a mezza altezza sopra la voragine scura della Vrata, facendo apparire ancora più immensa la muraglia del Triglav, mentre dal nostro lato il sole scaldava le pareti, asciugandole impercettibilmente di minuto in minuto. Trovammo una ragazza, appena sveglia, stiracchiata al sole. Dalla porticina metallica uscì un altro ragazzo, dall’aria soddisfatta e riposata, chiedendoci dove andassimo e confessando di aver poca voglia di camminare quel giorno. Avrebbero optato per una giornata molto più “edonistica” ci disse. Adocchiando un’altra ragazza raggiungerci da dietro un dosso di mughi ci guardammo col Mose incrociando un sorriso malizioso. Non so come finimmo a parlare di Patagonia e del turchese irreale delle acque di Pehoè, aggiungendo un’altra pagina all’immaginario atlante delle montagne.
Fu proprio quel giorno nel Paine che, confessai al Mose, avvertii per la prima volta forte un senso di nostalgia per queste montagne. Era bizzarro. Mi trovavo dove da sempre volevo essere, eppure il pensiero ritornava alle Giulie. La giornata era tipicamente, direi quasi orgogliosamente patagonica. In realtà il maltempo non durò che l’arco di una mattinata, battuta dal vento e dal pioggia orizzontale. Graziella forse non apprezzava così tanto quell’ immersione repentina nella “cartolina” patagonica quanto me invece, bramoso di sperimentare un briciolo di quella leggendaria avversità. Era poca cosa, tuttavia, costeggiare le acque azzurine del lago, rispetto a quanto doveva accadere mille metri più in alto. Le pareti bicolori dei Cuernos, infatti, sfuggivano tra vampate di bufera che qua e là lasciavano intravedere uno spesso strato di smalto biancastro. Noi invece, ben al riparo dei lengues australi potevamo tranquillamente passeggiare di campo in campo, incanalati nel gioioso flusso globale di trekkers. Superammo così un paio di posti di bivacco, che assomigliavano più a certi campeggi scout che a precari campi base. Capannelli di griffatissimi hikers improvvisavano eroiche soste per fare il te a un’ora dall’ultimo rifugio e un’altra dal prossimo. Come bambini la mattina di Natale scartavano i propri zaini ordinati e sgargianti (per contro ho sempre avuto degli zaini grigi, sformati e disordinatissimi) mettendo in bella mostra il campionario da escursionista globale. Tirammo avanti, quel giorno, mentre si insinuava in me un vago senso di lontananza per i fianchi brulli e scoscesi del Martuljek e il giorno dopo, volutamente, ci distaccammo preferendo ritardare i tempi pur di sfuggire al flusso. La nostra alba non sarebbe stata memorabile, ma almeno solo nostra. Il giorno dopo, alla Laguna Torre, arrivammo quando tutti erano già scesi.
Percorsa la larga cengia spiovente che contorna la Dolkova Spica, ci affacciammo nel catino meridionale della Skrlatica. Tra i vapori del mattino, sorgevano come tanti spicchi di luna le placche della cresta sud.
Un giorno Jerica, camminando tra i valloni di Martuljek, si perse. Tra le cenge della Škrlatica si imbattè in una capanna all’interno della quale trovò, stesa sul letto, una donna pallida e malata. Era lei, proprio lei, Skrlatica, la fata della montagna che ogni cento anni si ammalava gravemente. Dal momento che fino ad allora nessun animo gentile era salito fino al capanno per portarle la sua medicina, la fata era ormai sul punto di morire. Se ciò fosse accaduto, una grande sventura si sarebbe abbattuta sugli abitanti delle sue valli. Jerica chiese alla pallida fata cosa potesse fare per lei. E allora Škrlatica le confessò che l’unica cura che potesse tenerla in vita stava in un fiore, la primula della Carniola, che cresceva su certe cenge esposte della montagna. Immediatamente Jerica usci dal capanno e iniziò a risalire i canaloni scoscesi che accedevano ai catini più nascosti. Percorse una cengia, in bilico sopra strapiombi friabili, e lì vi trovo i fiori di Carniola. Non senza pericoli ridiscese al capanno, dove la fata riposava nel buio, ormai senza quasi più vita. Jerica le porse i fiori e pregando per lei uscì dal capanno. La mattina seguente, quando si ridestò, vide una donna dal volto meraviglioso e rosato, vestita di uno splendido abito, rosso scarlatto. Era lei, la fata Škrlatica, che guarita si mostrava in tutta la sua bellezza. Come segno di riconoscenza, donò a Jerica un bocciolo del magico fiore, la primula della Carniola e un vestito di porpora, identico al suo. Da allora, la sera, la fata Škrlatica mostra tutta la sua bellezza e gratitudine avvampando di rosse le pareti della montagna.

Approcciamo le prime rocce e da subito si allargò un sorriso sui nostri volti. La pietra, sorprendentemente solida, assomigliava ai lati migliori della Chianevate o della Marmolada. Un favoloso calcare finemente intarsiato a gocce, lame, tacche, tanto ruvido da mangiare la pelle come carta vetrata sui polpastrelli. Percorremmo il primo camino, verticale ma appigliato, e capimmo da subito che con una roccia come quella ci saremmo presto dimenticati del cordino di emergenza. Scalammo con piacevole fluidità, dimentichi che fosse una salita marginale e di dettaglio, godendo appieno di ogni appiglio, ogni rugosità che si offriva sensualmente sotto le mani. Le fessure, squadrate e regolari, lasciavano immaginare una scalata quasi granitica. Attorno a noi placche verticali e nere rigole di stillicidio si perdevano tra le nebbie lasciandoci fantasticare chissà quali linee. Seguivamo un ritmo del tutto scoordinato. Ora accelerando, ora perdendoci, ora indugiando su particolari minimi.
Ogni tanto il sole usciva più convinto dallo spesso strato di nebbie. In uno di questi momenti mi girai verso il Mose, che nel frattempo si era concesso alcuni estemporanei movimenti in spalmo sulle placche, e scattai una foto col telefono. Rivedendola notammo un particolare curioso. Per una strana inclinazione del sole l’ombra proiettata sulla parete non sembrava rispecchiare la sua postura. Mentre infatti lui perdeva lo sguardo verso immaginarie linee sulle placche, l’ombra pareva chinata nell’atto di salire. Evidentemente non riuscivamo a capirci nemmeno con le nostre ombre. Chissà cosa avrebbe pensato Peter Pan.
Giungemmo forse troppo presto sulla cresta sommitale. Ma come ogni buona cresta delle Giulie ci sembrò interminabile. Era forse l’inganno della dama bianca della leggenda a rendere anormalmente lungo quel semplice ultimo tratto. Ci ritrovammo soli sulle rocce rossastre della vetta. I fumi ormai si sollevavano decisi e ci lasciarono sbirciare dall’alto sui segreti catini chiusi del Martuljek, decifrare la singolare orogenesi di creste frantumate o ripercorrere a ritroso certe tracce misteriose solcate su ghiaioni sospesi sul nulla. Contrariamente a quel giorno sulla Sfinge ci pervase una singolare calma che ci fece indugiare su dettagli minimi, andando avanti e indietro tra le pagine dell’immaginario atlante.
Davanti a noi, guardando verso sud, riuscivamo finalmente a scollinare con lo sguardo le distese sommitali del Triglav. Ad esempio, se dovessimo da qui ricostruire l’atlante, dove finirebbero le Giulie? Me lo sono chiesto tante volte, camminando per Trieste e alzando gli occhi al ciglio del Carso, là dove si colgono certi scorci tra le rive e i palazzi. Strano come una città, che è antitesi della natura stessa, possa invece essere così ricca di assonanze. Sarà forse per il colore delle rocce che la circondano, o certi cieli ripercorsi dagli stessi venti. È la spina dorsale delle Giulie che lì trova la sua radice, crescendo lentamente tra i tavolati del Carso, sollevandosi in gobbe ispide sopra la Vipava e l’Isonzo quindi percorrendo quella lunga e larga spirale che si accentra sul Triglav? Dove finiscono veramente le Giulie? Me lo sono chiesto, talvolta calpestando la terra rossa dell’Istria o osservando le coste ombrose del Montenegro, e ancora più in là scendendo lungo l’illeggibile morfologia dei Balcani nelle foreste cupe che ricordano le valli che convergono ai piedi del Triglav. Finiscono davvero le Giulie? O il loro è uno sfumare lento, a fondersi con altre montagne portando con sé quelle stesse luci e una certa inspiegabile rudezza, intrecciandosi come rime ad altre montagne e così all’infinito?
Un’altra domanda sarebbe rimasta sospesa, ma stavolta fluttuava leggera. Scesi nel catin
o racchiuso tra la Škrlatica e la colate infuocate della Rdcka Škrbina ci voltammo ancora una volta a guardare le pareti tra le quali si snodava la via di salita. Per quanto ci sforzassimo sembrava impossibile aver scalato così naturalmente tra quei torrioni, increspati come onde in verticale. La via sembrava essersi richiusa d’improvviso. Poco prima di voltare l’angolo che impediva lo sguardo ci voltammo un ‘ultima volta. Non solo non si scorgeva più la via, ma nemmeno le pareti erano più le stesse.
Nella luce precoce della sera, un abito di porpora le rivestiva completamente.
