di Saverio D’Eredità
In fondo non sono che parole. Ma le parole sono la nostra bussola nel mondo, in questo caos che cerchiamo di decifrare. La nostra più semplice ed efficace attrezzatura per affrontare i difficili percorsi della vita.
Quali sono le parole dello sci? Ne conosciamo molte, più spesso legate alla qualità della neve, alla morfologia della montagna, alle qualità degli attrezzi. Ne usiamo tante, di parole, nello sci. Ma quali sono i concetti che caratterizzano e differenziano lo sci, lo sci di montagna in particolare, da tutto il resto? Perché i semplici numeri (dislivelli, inclinazioni, scale più o meno dettagliate) non spiegano tutto e l’esperienza dello sci (che vogliamo restituire alla sua origine, ovvero lo sci “di montagna” piuttosto che affibbiare l’etichetto di “sci-alpinismo”, incompleta e limitante come accade con tanti -ismi) sembra essere qualcosa di più. Più profondo, più vasto.
La letteratura non manca di certo. Più raro però che anche gli sciatori, i grandi sciatori fossero essi i precursori della disciplina dello “ski-tour” o i “ripidisti” oggi meglio noti come “estremi”, abbiano saputo dare forma a quelle sensazioni. Non è mai facile, quando si è immersi nell’azione. Può risultare meno vivido, quando mediato dal tempo e dall’esperienza. Ci rimangono, quindi, parole. A guidarci attraverso i diversi approcci e stili, sia che siamo freerider che amanti dello sci ripido. Sci-turisti o sci-escursionisti. Guerrieri del “ravanage” o amanti di più miti ondulazioni. Lo sci di montagna è una grande comunità in cui ognuno usa però gli stessi strumenti sullo stesso terreno. Ci deve essere quindi, da qualche parte, una piccola enciclopedia da consultare, dove ritrovare parole che raccogliamo lungo le nostre tracce sulla neve. Una specie di indagine in cui raccogliamo le prove.
Ho provato a prendere solo alcune, segnalando per alcuni di questi, il luogo del ritrovamento. Questa quindi non è una scelta di itinerari (ancora!) e nemmeno una monografia. Potreste farne ognuno di voi una vostra, nei vostri luoghi, sulle vostre tracce. Ma, se volete, potete usare questa breve lista dei luoghi.
Immaginazione.
Rimarrà probabilmente uno dei temi irrisolti della nostra società capire se il “diluvio di informazioni” porti maggiore consapevolezza o una ossessiva compulsività. Un argomento da chiacchiere da salotto, verrebbe da dire, o da corsetta dell’alba (che nel mio caso ha sostituito i più intellettuali simposi) quando ti fai questa domanda irrisolta mentre schivi il camion della nettezza urbana e ti chiedi, poi, se sia davvero così importante. Vorrei chiederlo al netturbino, ma tiro l’allungo. Certo è – concludo nel mio dialogo mentale – che oggi si è proprio persa la fantasia. Io – e qui entra l’aspirante “vecchio” che è in me – ai miei tempi (ah, quanto volevo dirlo!) – aprivo una cavolo di cartina e immaginavo. Solo che avevo 14 anni, e non potevo andare proprio da nessuna parte! E invece oggi… (segue lamentela e biasimo).
Per farla breve – si dai – il punto è proprio questo: una questione di immaginazione. Che l’eccesso informativo sembra aver inibito invece che stimolato. Io invece sto ancora lì con le carte topografiche a fissarle per ore, in una specie di trip mentale. Cercando di immaginare, tra le pieghe delle curve e le macchie scure delle pareti, che mondo ci sia là sotto. La componente della fantasia, nello sci, è a mio avviso essenziale. Senza diventa un gioco riduttivo, anzi nemmeno un gioco a dire il vero. Se il gioco è – da enciclopedia Treccani – quell’ “esercizio singolo o collettivo a cui si dedicano bambini o adulti, per passatempo, svago, ricreazione, o con lo scopo di sviluppare l’ingegno o le forze fisiche”. E dietro quella cartina aperta si nascondevano miriadi di possibilità di “ri-creazione”. Tutte da verificare.
È persino commovente venire a sapere – dopo tanti anni di onorata carriera – che ci sono posti che in realtà non sono come sembrano. Che sulla carta (appunto) o da lontano (mai fidarsi delle apparenze) sono molto diversi da ciò che pensiamo.
I monti che chiudono a sud la Val Canale, a prima vista, non sembrano offrire granché: nessuna vetta di rilievo, foreste fitte, impluvi profondi. Si intuiscono catini sospesi, talvolta certe angolature di luce illuminano pendii che non capisci mai se hanno una fine o un inizio o sono solo parentesi nella montagna. Che ci sarà mai da sciare, lì? Non molto, a prima vista, ma quel poco va cercato bene e non delude. Soprattutto quando l’itinerario è tutto fuorchè scontato. E la mappa rimane approssimativa.
Il Jof di Miezegnot (per chi lo guarda da sud) o “Mittagskofel” (Cima del mezzogiorno) per chi lo guarda da nord è la più imponente tra tutte e sorveglia con quella testa calva l’intera vallata. Una “meridiana” naturale i cui valloni hanno un profumo di grande Nord e rimangono in ombra più a lungo di altri. La linea dell’autostrada che passa ai suoi piedi sembra reciderla dal resto della valle, creando un distacco fisico e sonoro. La partenza letteralmente sotto il ponte dell’autostrada e la quota piuttosto bassa, infatti, non invitano poi tanto, ma è come sempre questione di fiducia. Perché un po’ “underground” questa salita lo è tutta, da quando abbandoni la stradina per esplorare il bosco “a naso”, cercando i varchi giusti. Uscendo, poi, ad uno stupefacente circo che per un attimo disorienta: la nostra cima qual è? Ecco, ritrovare questo smarrimento è prezioso. Ti denuda e rende ricco. La traccia diventa ipotesi, la cima un punto di passaggio necessario. Scopriremo man mano che la carta alcune cose non te le fa vedere proprio e quindi bisogna recuperare vecchi istinti animali e fidarsi di tracce indurite. La ricompensa? Se dicessi al solito di una neve speciale e una sciata superlativa farei il gioco cui siamo sempre abituati. Che ci porta compulsivamente a ripetere ciò che è noto, “assicurato” (più che sicuro). Insipido. Si, abbiamo trovato bella neve (anche). Ma non è questo il punto.
Abbiamo trovato qualcosa che non sapevamo nemmeno esistere. Una montagna che è parso di conoscere solo in quel momento, aprendo la traccia nella neve, scegliendo passaggi. Linee da ricercare. Futuri da scrivere. Si è “giocato” nel senso più puro del termine. E per una volta, non sapere nulla, ma proprio nulla su ciò cui andavamo incontro è stata forse la cosa più preziosa.
(Jof di Miezegnot, Alpi Giulie)
Riappropriazione.
Succede che passi la settimana tra aeroporti e smeni vari, immerso in riunioni che a un certo punto ti chiedi “ma di cosa stiamo parlando” e non ricordi più perché sei lì. Maledici tutto quanto e pure un po’te stesso, mentre nel frattempo ti arrivano le foto degli amici, le proposte sulle gite e devi fartene (ancora una volta) un po’una ragione.
Succede che a tratti devi ammettere che il gioco quasi non ti diverte più. Ti sembra un po’sempre la stessa storia. Quasi preferivi prima, quando la neve te la dovevi cercare con pazienza e facendotela bastare per quel poco che c’era. Sognavi una discesa morbida, boschi dove non lottare e sci sempre interi. E ora che arriva il momento non ti va più. Lo preferivi prima, l’inverno, quando nessuno ci credeva.
Succede quindi che prendi un paio di amici e vai in quel posticino lì, che non ha una collocazione – chissà perché ci serve sempre una classificazione di qualche tipo – non più Carnia, non ancora Giulie. Ci vai perché se qualcosa ha un senso, in tutto questo, è almeno sforzarsi di immaginare. Ci vai perché tutto sommato ti basta poco, sei uno che si accontenta, e un “torno presto” fa sempre stare tranquilli.
E allora succede che anche gli imprevisti, alle volte, vanno presi nel verso giusto. E trovarti improvvisamente senza traccia davanti pare un dono, piuttosto che un problema. Non era quello che ti aspettavi, ma forse era quello di cui avevi bisogno.
E allora succede che tutto questo ha un nome ed è riappropriazione. Di uno spazio, di un tempo. Forse di un’idea. La fatica di una traccia diventa persino piacevole, nel trovare il varco giusto tra gli alberi intuendo una radura, nel leggere la storia di un pendio disegnato dal vento. Stabilire, in quel momento, una direzione. In definitiva, scegliere.
E’vero che lo sci è una possibilità, ma di conseguenza è anche una scelta. La traccia, la curva, la sosta e dove tirare il fiato per un sorso di tè. Aggirare quel larice da sopra o da sotto? Succede che col passare del tempo ti accorgi che queste sono forse le cose che pesano di più. Riappropriarsi dei dettagli per stupirsi ancora.
Sezione aurea.
Gli antichi Greci definirono quella che – nel linguaggio estetico e matematico – è la “sezione aurea”, ovvero quella proporzione che conferma una connessione tra il tutto e le parti. In campo artistico, la corretta proporzione che definisce il parametro dell’armonia e bellezza. Armonia e bellezza erano molto care ai Greci, quasi fossero il segreto del mondo.
Qual è la sezione aurea di una sciata? Nel senso, esiste una proporzione tra metri fatti in salita, chilometri percorsi, curve disegnate? Me lo chiedo (ultimamente sempre più spesso. Sarà la penuria di neve. Sarà l’età.) ogni qual volta preparo una gita – e potremmo anche fermarci qui: preparare la gita, come l’odore del caffè la mattina, come il giorno prima delle vacanze, già di per sé, vale un momento di insindacabile gioia. Insomma, conto le curve di livello, le quote, le esposizioni, faccio supposizioni, tiro le somme. Sempre troppo poco. Si perché lì poi spiana, là gira versante e sicuro è crosta, e poi sarà arato. E niente per finire 400 metri di stradine, quindi fine del divertimento (ma dobbiamo sempre ringraziarle, quei salvacondotti verso l’arrivo con gli sci integri). Quindi? Qual è la sezione aurea?
E’rimasto questo fazzoletto di neve, si dice, ma bella eh, non un campetto. C’è pure polvere (dicono). Saranno 200, 300 metri a dire tanto e ripellare altrettanto. E di là, il gioco si ripete: altri 200, magari 150, ma c’è pure firn (dicono). Quindi, che fare? Accettare i mille in salita per (?) quante curve effettivamente? E il tutto, poi, stringi stringi, a cosa si riduce? Quanti minuti? Quanti secondi di gioia incerta? Domande che lasciano senza fiato, che aprono voragini verso altre, più profonde, tormentate domande dell’uomo. Tuttavia rimaniamo con i piedi per terra. Parliamo di sci, perdio! Mica di teologia (anche se).
Ogni volta, quindi, mi domando chi siamo veramente. Cercatori d’oro, rabdomanti, o forse aruspici? Curioso come, nel definire la – leggera eh – compulsività dello sciatore di montagna alla ricerca di questa sezione aurea, mi vengano in mente figure appartenenti a mondi antichi, quasi mitologici. Che stride un po’ – non trovate? – con tutto il discorso dello sci, con tutta la “postura” che assumiamo. Che poi sappiamo essere un giochino per gente privilegiata, siamo onesti. Ma sotto sotto, oltre gli infiniti discorsi sui materiali, e la larghezza degli sci e il rocker, e le giacche e i colori dei pantaloni (perché dovremo pur parlare di qualcosa, salendo!) se strizzi tutto e riduci al succo, ecco: ti rimane questo. Pochi minuti, secondi persino, di pienissima, incalcolabile felicità incastrata in ore ed ore di movimenti ripetitivi, sudore, bestemmie (alcune) e pensieri intricati. Se stringi e stringi ancora, ti rimane veramente poco ma quel poco è tutto. Qual è, dunque, la nostra sezione aurea? Ecco, ci risiamo, torniamo alle grandi domande, ma ora basta mi fermo io. Rispondete voi, io ci ho provato non ci sono riuscito, il calcolo è sempre sbagliato. Ma che in un’epoca che quantifica ogni cosa, che stabilisce ciò che conviene, che produce esperienze, questa totale sproporzione, questa mano di carte sempre perdente, questo bilancio sempre in passivo, bè insomma, la trovo una cosa bellissima. Una speranza, persino. Ma non esageriamo. Sempre di sci, stiamo parlando.
(M.Floriz, Alpi Carniche)
Possibilità.
Chiudo l’ultima schermata di google sul telefono che sono ormai le 23. Tra l’ultima webcam controllata e la visione sul posto mi separano solo poche ore ormai. No, non è l’incipit di una grande impresa – lo so, siete delusi – ma solo la constatazione della mia parossistica ossessione per la preparazione delle gite. Era da tempo, del resto, che non dedicavo ogni singola briciola di tempo libero alla consultazione dei radar, dei run meteo, delle previsioni (lasciandomi persino abbindolare da siti acciappaclick come l’ultimo dei babbei “dell’internet”) e incrociando con le mie altissime aspettative. Del resto, non mi era nemmeno mai capitato di dover decidere come giocarmi l’ultima (detta anche la “issima”) sapendolo in anticipo. Un po’come l’ultima sigaretta. Di solito, che una gita fosse stata l’ultima me ne accorgevo a giugno o comunque quando nella cronologia del telefono comparivano più ricerche di vie di arrampicata che bollettin inivologici. Diciamo che la stagione si chiudeva in maniera preterintenzionale. Stavolta lo so con largo anticipo – cause di forza maggiore – e soprattutto in coda ad un anno decisamente tirchio come neve, in cui aprile è stato una specie di metadone. Scartellate di neve primaverile a caso, tanto da illuderci di averne ancora.
Quindi per questa “issima” lo scenario era il peggiore in assoluto: poca neve, compagni demotivati, countdown partito e meteo instabile. Logico che avessi iniziato a chiamare la Nasa già 3 settimane prima. O forse no. Ormai dopo tanti anni ho imparato a conoscermi – non è vero, ma volevo scriverlo: sa di uomo maturo, risolto, fatto – e assecondare certe idiosincrasie. Sì, lo ammetto, mi piace quasi di più il “prima” (le carte tabacco distese sul letto, le guide affastellate, i libri sbirciati in libreria, le ricerche compulsive) che non il durante. Se solo l’impegno profuso in queste minchiate lo avessi mai dedicato – ad esempio – a specializzarmi dal punto di vista professionale, imparare il fai da te, una lingua orientale o anche solo ad essere un vero atleta – chissà! Già, chissà cosa. Credo niente, ma forse meglio di guardare un radar. L’unica cosa che c’ho guadagnato è che colleghi e amici ogni tanto mi chiedono che tempo fa e se per andare al rifugio Zacchi servono le ciaspole.
Sono convinto che imparare ad accettarsi sia un obiettivo importante nella vita. E anche i soci, ho imparato a conoscerli. Assecondarli. Dal fanatico della prima traccia (prima traccia assoluta, non il fazzoletto risparmiato!) a quello della traccia già fatta e pure comoda. Dall’esploratore indomito disposto ad ogni tipo di ravano al preciso sulle condizioni. Passando per i seguaci delle albe a quelli della sveglia comoda, dagli estimatori di pacioccose cime austriache ai guerriglieri dei couloir. Credo che la montagna, in generale, sia un’ottima palestra per due cose che nella vita ritornano: l’accettazione delle condizioni e la tolleranza verso il genere umano.
In tutto questo vi chiederete (?) a che genere io mi iscriva e soprattutto: ma quindi, sta gita? Ecco, sulla prima non saprei davvero (chiedete ai soci di cui sopra) perché all’interno della stessa gita cerco sia la neve bella che la linea estetica che la cima che l’avventura stile “suffer fest” – avete capito perché spendo tanto tempo in elucubrazioni? Sulla seconda posso solo dire che è stato un finale in gran stile “ski kombat” con bandana in testa, coltello tra i denti e pancia a terra. Devo ringraziare Carlo che ci ha creduto comunque e non perché appartenga ad alcuna delle categorie sopra menzionate, ma solo ha mantenuto la promessa. E poi, anche a lui qualche volta basta stare in montagna.
So che di tutti questi discorsi, in realtà, alla gente interessa solo sapere delle condizioni o se ormai è finita e possiamo mettere via gli sci (su questo poi ci sarebbe da fare un discorsetto: che al più gli sci li metti in cantina ma sono sempre lì, a qualche gradino di distanza, mica nel cellofan). Ma vi posso solo dire che ci siamo innamorati perdutamente di un pendio sotto la Croda dei Toni, che già da sola è bellissima e passeresti il giorno intero a guardarla come una scultura di Canova. Che alla fine di tante idee ci siamo trovati di nuovo ad aprire la carta per scoprire come si chiamasse la forcella che avevamo visto e se quell’altro canale portava da qualche parte. Insomma, funziona che alla fine non vince né la neve né la linea né la cima e nemmeno il radar. Ma vince questa voglia di fare una traccia e fermarsi a guardarla dietro di te. Che la cosa importante, nella vita, oltre che accettarsi è anche badare al segno che hai lasciato su questa terra, più che scoprire chi sei veramente.
C’è che alla fine sta stagione l’ho chiusa un po’così, senza grandi cime, grandi linee, ma cadendo il meno possibile. Ma ho capito una cosa, ed è che sciare in fondo è una possibilità che ci viene data. Non ci sono tanti perché, qui. Ci sono due assi attaccati ai piedi, c’è uno spazio da creare. Lasciare una traccia è un venire al mondo di nuovo. Anzi, è un modo di stare al mondo. Ancora di più, più preciso. E’un modo di stare con il mondo. Stabilire una relazione e quindi – ecco, sì – creare un po’ sé stessi. Rendersi possibili.
(Forcella della Croda dei Toni, Dolomiti di Sesto)
Neve.
Si sentono, i giorni di neve. Anche se lo sapete già perché la notifica dello smartphone compare già dopo la sveglia e vi mette il cristallo di neve. Anche se la gente sta chiusa a casa o ti incrocia con lo sguardo sbalordito e ti dice “ma dove vai che c’è la neve”. Dovrebbero uscire tutti, nei giorni di neve, altroché, uscire e stare lì ad annusare l’aria – che ha un sapore diverso, si sa – e aspettare. Non c’è niente di più bello, elettrizzante, vivo, dell’attesa della neve.
Si sentono, i giorni di neve. Andate nei boschi, a sentirli. Che c’è quella specie di stasi, di sospensione che stai appeso pure tu e quasi non respiri. Che sei lì a voltarti indietro a ogni passo perché ti pare che nel bosco si muova qualcosa, o ti spii qualcuno e invece no è solo la neve che arriva.
Mi piace andare in giro nei giorni di neve, giusto un attimo prima che cominci, a sentire quell’aria, a vedere cosa resta del mondo di prima e sentirmi sopravvissuto. A lasciare le mie tracce sulla strada sapendo che tra poco saranno cancellate per sempre. Ecco, forse a rendere speciali i giorni di neve non è tanto la presenza quanto l’assenza di qualcosa. Di rumori. Di odori. Di tracce. Nel sapere che quello che è stato non sarà più, che si potrà sempre ricominciare da qualche parte e che il primo cristallo che cade è la fondazione di un mondo nuovo. Nei giorni di neve si sta lì alla finestra, a non pensare a niente e solo guardare i cristalli cadere e compattarsi e creare quel mondo di nuovo. Si muore un po’nei giorni di neve, ma senza troppo peso quasi con sollievo, affondando gli occhi nel cielo senza luce e pensando che solo per oggi, solo per un momento, la guerra è finita.
(Col dei Larici, Prealpi Carniche)
Adattamento
Adattamento. E’un’altra delle parole dello sci, ma, si badi bene, non perché esista chissà quale glossario. Sono parole che vengono fuori così, come i rametti di mughi dal manto nevoso ammorbidito. O forse sarebbe più onesto dire come i sassi, quei dentini malvagi che oggi qua e là segnavano come piccole trappole la linea della nostra discesa. Quei dentini capaci di trasformare il sorriso che stai facendo crescere in te – guarda che bel firn, ma guarda come si viene giù bene, e in che posto, toh! Guarda il camoscio – in una cupa constatazione della finitezza umana e della malinconia. Ah, ma sono diventato bravo eh a schivare i sassi. Si invecchia pure per qualcosa.
Adattamento, dicevo. Di parole ne raccogliamo, ogni tanto, sparse, più facilmente salendo. O ancora meglio ri-salendo, nel corso di una ripellata, che come gesto sta sempre a metà tra espiazione e missione. Della salita come espiazione, bè abbiamo già detto tutto a meno che non siate tutine e allora vabbè per voi il discorso è diverso. Della missione, invece, ognuno dovrebbe sapere per sé. Trovare un senso, una chiave di lettura, il codice nascosto di questa azione volutamente fine a sé stessa. E probabilmente la missione di oggi è proprio adattarsi.
L’adattamento è una parola di base, dello sci. Ci si adatta al tipo di neve per scegliere un percorso, o anche solo una tecnica. Ci si adatta al terreno, soprattutto, dato che si scia solo dove la morfologia e le leggi degli attriti consentono – ed è una cosa che oggi vedo sempre più nitida, pulita e bellissima. Una cosa che avvicina lo sci – questo sci – ad un alpinismo – ad un certo alpinismo- che oggi esiste poco.
Ci si adatta ai tempi, ai cambiamenti, a questo febbraio che pare aprile ma è pur sempre febbraio. Con la roccia calda, ma il ghiaccio sotto, con i corvi che volteggiano e i camosci non ancora di nuovo padroni. Senza il piumino, ma solo con il vento a gelare la schiena. Usiamo la gobba del Cavallo come trampolino e scendiamo nel vallone di Pricotic. Ci stupiamo della sua solitudine a due colpi di scaletta dalle piste. Lo risaliamo e naufraghiamo verso Rio Secco. E quindi riprendiamo ritorni gibbosi, mai definitivi e fino all’ultima radura improvvisati. Disegniamo un anello, adattandoci a tutto quanto insieme – neve, terreno, stagioni – trovando un nuovo appagamento. Che sta diventando un’arte minima, lo scialpinismo, questo scialpinismo, del farsi bastare poco e quindi in qualche modo liberarsi da un fardello.
Si, forse ce la stiamo facendo, ad asciugare tutto (insieme alla neve eh) da quella aria glam che pervade tutto questo mondo e le riprese con la gopro 360 e quegli omini deformi (cosa abbiamo sbagliato, ditemi, per desiderare questo?), le solite frasi e il yeah e il vez e io so’io e voi…. Trovare bello un fazzoletto di neve ancora fredda, un traverso ben riuscito, il filo di una storia raccontata. Poi, vabbè, pare sempre che la cantiamo mi direte, con questo minimalismo. Che diccelo, su, che c’è un po’di invidia per il fatto che sull’Etna non ci sei andato pure tu e quindi ci stai vendendo la Creta di Riosecco come il Montana. Può essere, eh. Ma è adattamento pure questo. Dei desideri, come dell’inventiva. L’innovazione – quella buona – nasce spesso dalla scarsezza di risorse.
Adattamento, è quello del corpo. Tutto sommato mi sono adattato ad un po’di cose, ultimamente, e per quanto rimanga – laggiù in fondo – una nota inquieta, di qualcosa che poteva funzionare meglio, a certe cose poi finisce che non ci pensi più e ti scopri persino più forte. Tipo oggi con sto casino delle stagioni (te caldo o acqua? Maglia leggera o piumino? Berretto con visiera o fascetta di lana?) non ho portato niente di giusto, sudato un sacco, preso freddo, avuto sete e pure una cavolo di vescica al mignolo che mi ha torturato per ore. Ma, in fondo, who cares? L’obiettivo è la prossima dorsale, mica la vescica. Che rimane come un rumore di fondo, trascurabile. E, più generale, certe cose che una volta parevano importantissime, delle note a margine. Una rinuncia, la scelta. Infine, una missione.
Adattamento è una parola completa, e al tempo stesso ossimora. Che contiene in sé la resa più nobile e la vittoria più piena. Ci sono un sacco di cose insieme, in quella parola, che sembrano tenere dentro la montagna intera, tutte le sue sfaccettature. Le stagioni per come sono senza quello che vorremmo che fossero. E pure, a ben vedere, dei noi stessi un po’migliori. Capaci di liberarci di un certo superfluo, di un contorno rumoroso, di andare oltre. Come la piccola vescica e questo fondo schiena sempre all’aria. Che sarai mica venuto per stare comodo e vederti bello.
Che se guardi bene, poi, c’è uno spazio dentro quella parola, tra le cose che sembrano opposte, uno spazio ancora tutto da esplorare come queste indefinite gobbe sulla dorsale, che nascondono cose stranissime, pianeti alieni, prospettive ulteriori. Come questo anello che, volendo, non fosse per la vescica e questa arsura, potrebbe quasi ripartire e non chiudersi ancora.
