Sciogliere i nodi

di Saverio D’Eredità

Non ho mai fatto un errore del genere. Nemmeno i primi tempi. Nemmeno per sbaglio. Nemmeno quando ero stanco. Ritiro la corda ad ampie bracciate, mentre dall’alto inizia a correre acqua giù dalla parete infilandosi nelle maniche, scorrendo tra i pantaloni e l’imbrago fin dentro le mutande. Ritiro ancora più veloce, nel frastuono di tuoni che rimbalzano tra i versanti. Ad ogni occhiata in su vedo lampi attraversare il cielo e mille pensieri che si riversano in testa. Che non si sta fuori durante i temporali. Che sei vicino ad un albero – ma vabbè dai, non è proprio un albero-albero, è un alberello – che sei pieno di robe metalliche e chi la racconta poi sta storia e con che faccia “imbecille rimane ustionato durante temporale” – no no no per carità  – che vai a spiegarlo, poi, che eri soltanto in falesia. Che ti ricordi, poi, come è finita a Lomasti?

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Sette anni: il Laila, il NOF e noi

di Saverio D’Eredità

Sette anni fa, il Laila Peak è entrato nelle nostre vite prendendo il posto della nostra innocenza. Non tanto perché fossimo più giovani e nemmeno perché fossimo così ingenui da pensare di essere immortali. Ma, questo è certo, qualcosa in noi è cambiato. Il giorno in cui il Laila è entrato, trasformandosi dal sogno della cima più bella alla cruda realtà di una notizia secca ed inappellabile, si è portato con sé anche una certa consapevolezza. Il giorno in cui abbiamo capito che Leo, il più bambino il più entusiasta di tutti, non sarebbe tornato ecco, forse quel giorno tutti siamo diventati un po’più grandi. Ma non meno innamorati.

Poteva finire tutto, e invece non è stato. Potevamo rimanere lì, attoniti come quando ricevetti il messaggio, sentire quella brezza leggera che sembrava soffiare sulle cose di colpo finire lasciando un vuoto, un silenzio, un non sapere cosa dire. Un mese dopo o poco più, ricordo bene, eravamo al Gilberti, sempre lì dove c’eravamo lasciati, pronti a riprendere il filo delle cose. Non come se nulla fosse stato, ma proprio perché qualcosa c’era stato. E toccava a noi alzarsi da quella pietra e andare avanti.

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Estate su una spiaggia solitaria

di Saverio D’Eredità

Quando è, come è che succede, che gli esseri umani perdono l’amore? Dove sta l’innesco del distacco, il fattore scatenante, dove nel corso del tempo, si perde la cura, l’affetto, l’attenzione per le cose, per i luoghi?

Ho sempre avuto una predilezione per i luoghi – per così dire – perduti. Non brutti, e nemmeno sfigati. Diciamo quei posti che una bellezza pure ce l’avevano – una loro bellezza – che è sfiorita o è solo passata di moda o magari chissà, nessuno capisce più come certe lingue antiche. I luoghi perduti – ci metterei dentro anche certe vallate un po’ “degagè”, case abbandonate, aree industriali dismesse – sono lì che ti guardano con occhi da cane di strada, pronte ad accoglierti con quel poco che hanno.

Ho conosciuto Premariacco uno di quei pomeriggi di gennaio dalla luce corta e l’umidità feroce. Con Loris accendemmo un fuoco con i rami trovati sul greto del torrente, annidati nei buchi da dove usciva l’odore pesante di piante marcite e ci sedemmo sulla spiaggetta a raccogliere quel po’di calore e quel tanto di fumo che il nostro fuoco emanava. Mi mostrò la sequenza dei traversi e mi disse che questo era un buon allenamento se rimanevo da solo. Senza saperlo, stavo apprendendo un’altra delle diverse declinazioni dell’arrampicare, quel “boulder” che poi sarebbe diventato una disciplina a sé stante, che una volta era solo un gioco e che anni io anni prima, istintivamente, praticavo sui muretti del parco. Senza saperlo, forse nemmeno volerlo, Loris mi stava predicendo un futuro inevitabile.

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Perseveranza

di Saverio D’Eredità

Una dote che sono certo si riconoscano gli alpinisti è la perseveranza. Del resto, quale pratica è più perseverante dell’alpinismo? Dove trovi gente capace di stare ore con il muso schiacciato contro un pendio o una parete e macinare chilometri e dislivelli per una montagna? O dormire 2 ore sotto un telo di plastica e con i sassi sotto la schiena e svegliarsi comunque pronta a camminare tutto il giorno. E’ così emblematica la nostra perseveranza che recentemente, visitando una mostra interattiva sul potenziale umano, ho notato come l’icona rappresentativa di questa dote fosse proprio un omino che pianta la bandiera su una montagna.  Dopo essermi agilmente auto assegnato un alto punteggio sulla perseveranza, ho effettuato il test di verifica. Il risultato è stato un po’deludente. La mia perseveranza è infatti risultata “Media”: nonostante il test mi dicesse “vai alla grande, Saverio! Riprova!” in realtà mi aveva abbattuto. Non sono così perseverante come credevo. Forse non sono manco così alpinista.

Che poi, chissà perché gli alpinisti si conferiscono le migliori qualità possibili. Sono pronto a scommettere che, oltre alla perseveranza, molti di noi diranno che sono amanti della solitudine e del silenzio (salvo poi intrupparsi su una cima peggio che sul Venezia-Trieste delle 18.14), della natura incontaminata (vedi buste della spesa che emergono come relitti dalle morene) e che vogliono stare lontani “dalla frenesia della vita moderna” (ma a questo ci aveva già pensato il Cynar). Tutte cose che ho visto o, meglio, non ho visto salendo sul Gran Paradiso.

La parete Nord Ovest del Gran Paradiso vista dal basso ghiacciaio del Laveciau – foto M.Simeoni

Il Gran Paradiso, per la Nord, era nella mia “wishlist” da tempi del tutto irragionevoli. Tempi in cui le viti da ghiaccio mi sembravano solo dei grandi cavatappi e in cui il meglio della mia attrezzatura era composto dal meglio delle sottomarche in commercio. Tempi in cui quel tipo di salite era per me assolutamente fuori portata e quindi costava poco metterle in lista. Tempi passati soprattutto a sfogliare libri. Ricordo di aver scoperto questa parete dal libro fotografico di Marco Bianchi “Sulle vette delle Alpi”, un elegante formato A5 con scatti panoramici di creste e pareti particolarmente estetiche. La Nord del Gran Paradiso veniva proposta in una tonalità rosa pastello dell’alba, che avvolge l’occhio del lettore tanto da lasciarlo minuti a contemplare quel lenzuolo steso sulla mole del “Gran Pa”, come quelli usati per coprire le opere d’arte. Ma in questo caso era il lenzuolo stesso l’opera d’arte. A suggerire un’idea di bellezza. A proposito, c’è ancora quella bellezza?

Negli anni ho man mano derubricato questa via a favore di altre mete più à la page diciamo, magari trascinato da ingiustificabili entusiasmi e autovalutazioni errate. In attesa di ricevere la nomina al Piolet d’or (stando per lo più a casa), la parete rimaneva lì preda di altre ossessioni e dei cambiamenti climatici. Ero forse diventato più bravo (suggerimento: no) o forse solo più snob (molto probabile)?

Gran Paradiso, parete Nord Ovest – foto M.Simeoni

Talvolta, più che gli anni, le capacità o le occasioni, sono gli eventi a cambiarti le domande. E se non ci fosse rimasto più tanto tempo per questo genere di salite? Se questo alpinismo un po’retrò – quello sì, perseverante, un tempo fatto di gradini nella neve, corda in vita, nessuna vite da ghiaccio ed estati fresche – fosse giunto al termine? Negli anni periodicamente buttavo un occhio alla webcam puntata sulla parete, notando come il lenzuolo si afflosciasse sempre più. Neanche più la luce rosa lo tingeva. Un miscuglio di ghiaccio nero e sassi lo rendeva cupo, vecchio e triste. Cambiavi webcam e te ne dimenticavi. E se non ci fosse più tempo? Se tutto questo, questa bellezza, domani sparisse?

Una primavera inaspettatamente fresca e nevosa mi ha fatto rimettere la pagina della webcam tra i preferiti del browser e riacceso il desiderio di salire quella parete. Perseveranti, abbiamo incastrato minuti, impegni e meteo per cogliere l’ultima finestra possibile prima di ricacciare in basso nella wishlist questa parete e, in un certo senso, rassegnarsi.

Vista della nord ovest del Gran Paradiso dal sentiero che sale al Rifugio Chabod – foto M.Simeoni

Prime luci dell’alba. Mentre risalgo scivolo della Nord, cercando di mantenere la concentrazione sulla sequenza passo, picca, picca, passo mi torna in mente il test della perseveranza. Per farlo devi individuare un tema e pensarci intensamente. Davanti a te c’è un tubo in cui una pallina da baseball si alza quando la tua concentrazione sale e cade quando pensi ad altro. “E’ importante non farsi distrarre per raggiungere il massimo livello” recitano le istruzioni. La mia pallina restava su qualche secondo poi piombava giù. Il grafico della mia perseveranza era piuttosto piatto. Nessun picco di concentrazione elevata, ma nemmeno cedimenti. Un po’come oggi. Non sono certo diventato più bravo, ma non ho mai smesso di pensare con desiderio a questo lenzuolo che si tinge di rosa al mattino. Ad essere parte di quel preciso momento, essere parte della sua bellezza.

Perseverare può pure essere diabolico. Ma talvolta è necessario. Perché funziona come antidoto all’inesorabile macchina del tempo. Vuol dire non cedere alla stanchezza e persino ad un certo conformismo. Vuol dire, in fin dei conti, essere riconoscenti. La perseveranza è una delle tante testimonianze dell’amore.

Gran Paradiso mt. 4061

Parete Nord Ovest

Una classica tra le vie di neve ghiaccio delle Alpi, che un tempo si presentava più ripida ed impegnativa e che oggi, con i cambiamenti climatici, sta mutando la sua fisionomia. Il richiamo estetico di questo scivolo regolare ed elegante è però ancora fortissimo, tanto che la via è sempre molto ripetuta negli ormai brevi periodi di buone condizioni. Per una salita ideale, infatti, sarebbe consigliabile avere nevi trasformate che permettono una progressione veloce ed altrettanto sicura.

La via più seguita è quella tracciata da Bertolone, Cappa e Giorda nel 1958 che affronta la parete al centro su pendenze omogenee tra i 45° e i 55°. La parete era stata tuttavia affrontata originariamente lungo le logiche costole di sinistra (Cretier-Chabod-Bon nel 1930) e destra (Adami-Ceresa, 1935) oggi generalmente disertate. La via viene anche scesa sporadicamente con gli sci (i primi furono Heini Holzer con Sigi Wald e Helmut Vitroler nel 1975).

Difficoltà: D, 45°-55° (qualche tratto può raggiungere i 60° a seconda delle condizioni e della traiettoria scelta), dislivello dalla base alla vetta 600 mt, di cui 400 lungo lo scivolo vero e proprio e 100 lungo l’estetica cresta sommitale che conduce su una cima probabilmente di poco più alta della più famosa “Madonnina” ,dove si concentra la stragrande maggioranza degli alpinisti. Discesa semplice lungo la normale.

Cresta sommitale del Gran Paradiso – foto M.Simeoni

Una lunga giornata – un viaggio solitario sulla ovest del Canin

di Piero Surace

Le giornate lunghe mi son sempre piaciute, come molti provo una qualche forma di piacere quando arrivo alla sera completamente distrutto, con le palpebre che si chiudono da sole sulla via di ritorno da una arrampicata o da una scialpinistica. Non so di preciso cosa mi attragga con tale forza verso queste esperienze, non so neanche se è importante capirlo ma sono sicuro che non sono l’unico a pensarla così.

Sciare la parete Ovest Del Kanin è un’avventura che potrebbe diventare una di quelle giornate, una giornata lunga. Già in fase di pianificazione ci si rende conto che, come usiamo dire, è un bel viaggio, a maggior ragione se fatto in totale autonomia e facendo coincidere punto di partenza e punto di arrivo.

Nel suo diario Mauro Rumez, il primo ad aver percorso con gli sci questa parete, racconta di non essere sceso fino a fondovalle in Val Resia ma di essere risalito fino a Sella Grubia per poi attraversare tutto l’altipiano che porta a Sella Bilapec o Sella Ursic per raggiungere Sella Nevea. È facile immaginare che le pagine scritte da Rumez le ho consumate a forza di sfogliarle, d’altronde Rumez era un triestino come me e pioniere dello sci ripido.

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La scelta di ripercorrere le sue orme è stata resa particolarmente facile dall’estetica della parete: entrare in Val Resia senza accorgersi della Ovest è impossibile come è impossibile non innamorarsene. Sbam, ti si para di fronte, bellissima e attorniata da pareti bellissime, in una valle incantevole. Decido di partire un sabato mattina da  Sella Nevea con relativa calma. Alle 7:30 ho le pelli sotto gli sci e inizio la risalita verso il Rifugio Gilberti pianificando di proseguire verso Sella Ursic. In mia casuale compagnia c’è Giorgio, scialpinista udinese appena conosciuto e anche lui alle prese con un avventura solitaria. Curioso condividere una parte della salita con un altro che ha deciso di andare per i fatti suoi, al suo ritmo e con le sue autonome scelte. Sul momento le chiacchiere che facciamo non mi fanno pensare più di tanto alla particolarità di questo breve incontro. Le nostre strade si dividono in Sella Ursic e proseguo da solo verso l’attacco della ferrata Divisione Julia, la risalgo interamente e mi ritrovo sulla estetica cresta del monte Kanin.

Le giornate lunghe non richiedono fretta e la fretta in quel momento non la contemplo minimamente: nulla mi vieta di stappare una birretta in cima, il tempo non mi manca e spero che col passare del tempo la neve si trasformi quanto basta per permettermi una discesa sicura e godibile.

Piero Surace sulla ovest del Canin – foto P.Surace

Si fa l’una del pomeriggio, penso che il sole potrebbe aver già scaldato la parete. Comincio a prepararmi: chiodi in tasca, corda pronta, picca nello spallaccio, attacchini chiusi e via, dopotutto sono stufo di aspettare! Da subito mi rendo conto che le speranze di trovare neve ammorbidita dal sole sono state mal riposte ma per fortuna un minimo di crosta permette alle lamine di tenere discretamente bene. Le prime curve si fanno su una pendenza costante e decisa, da metà in poi diventa meno ripido e da qui anche la neve inizia a perdonare qualcosa in più, il sole ha fatto il suo dovere e io posso far correre un po’ gli sci. Non ho neanche il tempo di godere per un po’ delle buone condizioni della neve che la mia discesa è temporaneamente finita.

Per ripercorrere i passi di Rumez devo scendere con una calata in doppia, sciare ancora qualche curva e poi lentamente rientrare verso Sella Nevea. Da quanto mi è stato riferito dovrei trovare la sosta per la calata sulla destra ed abbastanza in basso, capita però, che nelle giornate lunghe alcuni aspetti sembrino non voler girare nel verso giusto: la sosta infatti non si fa trovare. Poco male, mi accontento di un solido spuntone e inizio a calarmi con gli sci in spalla. Mi dico che “kevlarino” da 5 e una ghiera in vita saranno sufficienti, sono sicuro di non essere l’unico a propendere per uno zaino leggero. Inizio a scendere ma dopo soli cinque metri di calata sento un boato sopra di me.

Riconosco il rumore e spero con tutto me stesso che la valanga non mi stia seguendo nello stesso canalino nel quale mi trovo. Ho solo il tempo di pensare a tutto questo, vengo travolto da una scarica di neve, ghiaccio e pietre.

Quanto sarà durata? Un minuto? Tre minuti? A me è sembrata un’ora.

Fortunatamente rimango appeso alla corda fino alla fine della scarica. La sosta improvvisata tiene e maledico un po’ la scelta minimale in termini di attrezzatura, sento il sangue che mi esce dalla testa e cola verso il collo, mi stupisco di quanto sono stato fortunato a non svenire. Mi dico che non è il momento per perdersi in dubbi e domande, riprendo a calarmi fino alla base della parete e dopo essermi raccapezzato in qualche modo, continuo la discesa su uno dei firn più belli mai sciati. Devo ammettere che forse questo mio giudizio è influenzato dalla gioia di essere quasi del tutto integro seppure un po’ ammaccato.

Nelle giornate lunghe si cerca l’avventura e quando si cerca l’avventura spesso la si trova, infatti il cellulare non ha linea e so che non l’avrà fino a fondo valle. Fino a lì devo arrangiarmi da solo. Mi faccio forza pensando che in fondo sto vivendo esattamente quello che cercavo, seppure con qualche imprevisto. Da quel punto la soluzione migliore sarebbe rientrare a casera Kanin e da lì puntare a malga Coot per farsi venire a prendere da qualche generoso amico in automobile o sperare in un passaggio in autostop.

Non credo di essere nelle mie migliori condizioni, ma ricordo di un vecchio sentiero che porta a Rio Runk: inizio a cercarlo ma neanche questo sentiero vuole farsi trovare, mi ritrovo in piena parete con la certezza di dover fare almeno un altra doppia, per giunta da attrezzare. Cerco invano di piantare qualche chiodo ma nessuna fessura è così generosa da accoglierne.

La ovest del Canin in un anno di “magra” visto dal Picco di Carnizza – foto S.D’Eredità

Dopo una buona mezz’ora di tentativi individuo una vaga traccia, probabilmente battuta da qualche cacciatore. Decido quindi di abbandonare il piano della calata e di seguire questo percorso che un pò faticosamente mi porta al sentiero diretto a Coritis. Percorrendo questo sentiero mi volto per osservare la linea di discesa appena abbandonata e realizzo che è stata una fortuna non essere riuscito a piantare nemmeno un chiodo in quel punto: mi trovavo espostissimo sopra uno strapiombo e con una corda sicuramente troppo corta per raggiungere la base della parete. Una bella fortuna, dico tra me e me.

Continuo nel mio faticoso percorso e finalmente raggiungo un punto coperto da linea telefonica, approfitto subito per chiamare un’amica che accetta generosamente di venirmi a prendere.

Al nostro incontro vedo il terrore nei suoi occhi, la visione che le propongo deve essere più splatter di quel che pensavo, cerco di rincuorarla sulle mie condizioni ma le mie parole non sono sufficienti: Non riesco a convincerla di non portarmi in ospedale, ha tutte le ragioni del mondo per accompagnarmi al pronto soccorso. La mia giornata lunga, o forse ormai lunghissima  si conclude con qualche punto di sutura sulla testa e questa storia da raccontare. Il giorno dopo parlo della mia disavventura a Saverio, lui mi dice che “è la valanga della montagna che ti vuole bene”. Io ascolto in silenzio, dentro di me credo sia uno strano modo per dimostrare affetto.

Appendice

Il Lato Selvaggio – Canin, parete Ovest

Nel mondo dello sci ripido tutto è capovolto. Sia perché il senso del percorso è inverso rispetto all’alpinismo (dall’alto verso il basso), sia perché i tratti salienti vanno letti al contrario. Simile è la dinamica, opposta la direzione. Lo scalatore, come lo sciatore, individua i punti deboli di un percorso. Interpreta il terreno. Individua le vie d’uscita. Nella scalata si risolvono in un passaggio, una fessura che permette di proteggersi, una cengia che evita un tratto inscalabile. Nello sci ripido, invece, le cose si fanno un po’ più complicate. Ci sono le condizioni della neve, l’interazione con in raggi solari, la temperatura dell’aria, l’umidità. L’andamento dell’inverno, dei venti, dell’innevamento e di una miriade di componenti che fanno di questa disciplina un’arte.

Ci sono discese in cui l’uscita è un’enigma. Che tiene il fiato sospeso anche al più esperto, audace e preparato degli sciatori. La ovest del Canin è, in questo senso, emblematica. Non basta avere il coraggio di affacciarsi in questo imbuto aperto a ventaglio sulla val di Resia. Bisogna andare proprio alla strozzatura dell’imbuto, nel punto dove la gravità e l’inclinazione convogliano il peso della montagna. Dove sta la porta di uscita dalla parete.

La parete ovest del Canin

Selvaggia, misteriosa, tanto evidente quanto enigmatica, la “ovest” del Canin è forse una delle pareti più ignorate e al tempo stesso ambite a seconda degli occhi che si usano per guardarla. Anonimo pendio di sassi, rocce ed erba, fasciato dalle regolari sedimentazioni calcaree, si illumina solo nei tramonti delle giornate estive. Imbuto raccapricciante e seducente quando lo si guarda nelle corte giornate invernali, ricoperto di neve tanto da farlo apparire come un unico lenzuolo se visto da lontano. Ma quel lenzuolo è sospeso sopra un salto di almeno 20 metri che separa la parete dall’ampia conca sottostante. Una parete del genere non può che stuzzicare i sogni degli sciatori del ripido. Se la parete sud del Canin Basso è certamente più attraente per la sua eleganza e continuità, la “ovest”, girata in maniera quasi altezzosa conserva tutto la sua anima selvaggia. E quel salto in fondo non fa che aumentare la curiosità.

Curiosità che nel maggio del 1991 fu tolta da un fuoriclasse assoluto del ripido: Mauro Rumez. Il 22 maggio di quell’anno, infatti, Rumez sale in vetta al Canin per la via normale ed affronta per la prima volta l’imbuto. Quando la parete si stringe mancano 20, 30 metri alla “carnizza” sottostante dove terminano le difficoltà: Rumez attrezza una doppia e risolve il passaggio. Aveva trovato la “porta”, e anche se la corda si era resa necessaria (interrompendo quindi la linearità e continuità della discesa) rimaneva una impresa notevole, di grande valore esplorativo. L’impresa di Rumez viene ripetuta 5 anni più tardi da un’altra grande figura del ripido: Luciano De Crignis. Exploit notevole quello del maestro di sci carnico, che concatena (supportato però dall’elicottero) le due pareti, ovest e sud, nella stessa giornata: 1700 metri di sciata tra i 45 e i 55 gradi in poche ore!

Non passano tanti da queste parti, come si sa. La val di Resia non spicca certo tra le mete dei “top skiers” e la nostra parete rimane affare per pochi. Passa una generazione ed emergono nuovi sciatori del livello adeguato a questa sfida: il 3 aprile del 2014, al termine di un inverno memorabile, Andrea Fusari ed Enrico Mosetti si aggiudicano la seconda ripetizione, ma prima nello stile di Rumez, con salita in vetta per la normale. Ultimo in ordine di tempo (e per quanto si sappia!) il nostro Piero Surace “Pierin” che da solo si è lanciato giù dalla ovest nel 2021.

Difficilmente vedremo da queste parti frotte di specialisti affannarsi a cogliere le condizioni perfette, ammesso che esistano per una discesa del genere le cui caratteristiche sono quanto mai problematiche e legate alla quota, l’esposizione e le peculiarità di una montagna con pochi eguali come il Canin. Ma del resto non c’è da stupirsi ed in fondo va bene così. Per apprezzare una parete così riservata ed austera, che sembra quasi nascondersi, bisogna essere un po’come lei ed accettarne le regole. Solo così si potranno fare due passi “sul lato selvaggio” e cogliere il senso di un avventura che, talvolta, è difficile esprimere a parole.

Canin mt.2587 – parete Ovest

Dislivello: 700 metri

Difficoltà: 5.4, E4 (fino a 55°)

Prima discesa: Mauro Rumez, 22/05/1991

Fedeltà

di Saverio D’Eredità

Aprile è un mese di opposti. Di giornate lunghe e gite che finiscono presto. Di polvere tardiva e prime gemme sui rami. Luci accecanti e ombre profonde. Ghiaccio al mattino e panna a mezzogiorno. Tè caldo e boccia d’acqua. Mete ambiziose e grandi pacchi rifilati. Aprile è contraddizione. Uno spartiacque.

Una delle funzioni di Facebook più simpatiche è quella dei ricordi. Ogni mattina basta andare nella sezione del tuo profilo dedicata e come aprendo un album ti ritrovi quello che hai fatto (o meglio pubblicato, quindi quello che in questa logica è esistito) lo stesso giorno l’anno scorso, due anni fa o così a ritroso. Chissà, magari il giorno del giudizio dio aprirà il tuo profilo e ti ricorderà così le stronzate che hai fatto. Fatto sta che questa funzione, questo trastullo da colazione, è tra le mie preferite. Vuoi perché è sempre piacevole rivedersi le foto – che è un po’come riviversi – sia perché mi fa sentire meno inadeguato, meno fallito. Se guardo le foto posso dirmi “bè, dai, in fondo non hai proprio buttato via il tuo tempo”, smentendomi circa la mia fissazione di non essere fin qui riuscito a realizzare tutti i miei progetti. Insomma, dai, è consolatorio. Si, sicuramente dio userà la funzione “I tuoi ricordi” per dirti che non puoi lamentarti troppo con lui quando sarà il momento.

C’è una costante, nella cartella “I tuoi ricordi” di questo periodo dell’anno. Ovvero che ho sempre sciato. Che sono stato sempre in Giulie. E che ognuna di queste giornate è stata frutto di un clamoroso pacco di qualche amico. Associo dunque ad uno splendido quanto improvvisato Buinz, la telefonata semi notturna dell’amico seduto sul cesso col virus intestinale. Ad un sorprendente viaggio sull’altipiano del Canin ,l’essere rimasto solo la sera prima dopo non so quante decine di messaggi senza risposta o accordi senza doppia spunta blu. Una Strugova in 40 cm di polvere immacolata a dispetto delle risatine ironiche di compagni ormai virati verso lo sbracamento primaverile

Ad ognuna di queste giornate, quindi, oltre al bel ricordo offerto dall’algoritmo con la foto più significativa – ovvero apprezzata dagli amici – associo più che altro l’incertezza, la fastidiosa incazzatura, l’incipiente senso di fallimento della giornata – che si riverbera irrazionalmente sulla stagione intera. Un senso di incompiutezza capace di generare i più foschi e malinconici pensieri sulla brevità della vita (eccetera, a vostra scelta), causato dal più temibile degli imprevisti: il “pacco”. Ora, lungi dall’essere un j’accuse tardivo (inutile perché i pacchi sono arrivati da tutti indistintamente e per i più svariati motivi) riflettevo su questa cosa più che altro per il suo significato simbolico. Insomma, anche se può sembrare che qui io voglia fare quello che ha sempre ragione (ed è chiaramente un po’ così), ciò che mi salta all’occhio, piuttosto, è questo spartiacque. Questo momento che sancisce una cesura netta nella stagione, un prima e un dopo. Come se, doppiata la boa di fine marzo – ultimo mese astronomicamente invernale – ci si guardasse indietro e si facesse la conta. Tra chi ci crede ancora e chi, alla prima incertezza, molla. Magari non molla proprio del tutto (perché sarai tu a farlo ritornare almeno un’altra volta a cercare le nevi più belle, le nevi ultime), ma abbassa di una tacca la propria motivazione.

Ma più ancora che non questo insistere nell’aver per forza ragione su qualcosa o qualcuno, questo volersi sentire giusti per non ammettere di essere ad ogni modo sbagliati, realizzo – pensando a questi giorni preziosi, a queste malinconie schivate, questi programmi fatti all’ultimo – che sia tutto sommato una questione di fedeltà. Che mi porta, ogni volta in questo periodo, a fare una scelta. Ad ascoltare un moto del cuore che va al di là di ogni ragionevole calcolo. Ecco, se c’è uno giro di boa, un punto di scavalco, uno spartiacque è qua. Che distingue. Ciò che era in qualche modo ovvio, scontato (andare a sciare d’inverno, niente di più banale) da ciò che ovvio non è. Che esige una presa di posizione. Dopo, di qua, c’è un atto di riconoscenza. Di fedeltà.

E’un principio ed una conferma di amore quello che segna giornate come queste, che sono più intense proprio perché più vicine a qualcosa che sai essere lì per finire. E che quindi, in qualche modo, tu sia chiamato a prendertene cura. C’è una linea sottile che divide il prima e il dopo, e che so di poter individuare. Sta nel momento in cui la neve trasforma, sta nel passaggio dalle tenebre alla luce. C’è un ritaglio che non trovo in nessuna delle foto, ma che ritorna ogni volta, ogni anno, puntuale. E’ un momento esatto, di più, è una curva esatta che si realizza sempre e non dove più ripido, più stretto o in generale più figo. E’una curva come tante, ma che forse mi viene meglio di altre. Sta là, dove entra di colpo il sole, su un pendio appena più morbido. Si disegna vicino ad un albero che ha appena messo fuori le gemme. E capisci che c’è solo un modo per tenersi insieme tutti questi opposti, queste contraddizioni, ed è vivendole.

Ad Aprile ci si trova spesso solo in due, gli ultimi due, ad un parcheggio in cui non c’è più nessuno, con i resti dissotterrati delle immondizie invernali, le dita dei piedi nudi che giocano a intrecciare fili d’erba nuova. Raramente si parla. Più spesso si osserva. Forse ne farai ancora una.

Inverno Liquido – reimmaginare l’inverno è possibile?

di Saverio D’Eredità

Una perturbazione si avvicina alle Alpi. Inizia a nevicare. Dapprima a quote alte, altissime. Sotto i 2000 piove. Ma siamo quasi abituati. Purché nevichi. Purché piova. Domani forse vedremo nuovamente l’arco alpino nella sua veste più consona. Per qualche giorno volteremo le spalle alla realtà, ci accontenteremo della neve caduta, delle sciate finalmente di nuovo possibili. Durerà qualche giorno, forse. Il tempo per dimenticarsi che il problema è ancora lì. Presente. Futuro. Non passato.

Domenica 12 marzo 2023 si sono tenute diverse manifestazioni in varie località dell’arco alpino e appenninico dal titolo “Re-imagine winter”, promosso dal movimento di “The Outdoor Manifesto” (https://www.theoutdoormanifesto.org/azioni/reimagine-winter-basta-nuovi-impianti/). Neanche a farlo apposta (ma non ci voleva molto) in molti di questi luoghi erano già fioriti i crocus e lo scenario più tardo primaverile che invernale sembrava uno sfondo ideale ai temi della manifestazione. Re-immaginare l’inverno. Prendere coscienza del cambiamento. Intervenire. Cambiare.

Il movimento che – genericamente – definiremmo “ambientalista” (anche per affibbiargli una categoria e liquidarlo così più facilmente) negli ultimi anni ha cambiato pelle. Merito o causa di una generazione diversa (vorrei ora dire, con un pizzico di rivendicazione: la nostra) che ha preso in mano quelle cause e ha saputo aggiornarle ai tempi odierni. A quei movimenti ho sempre rimproverato una certa auto-referenzialità e l’incapacità di catturare un pubblico diverso da quello che già crede o si riconosce nei suoi valori. Rischiando sempre di rimanere a parlarne tra quattro gatti. Ma le cose stanno cambiando. Una generazione più a suo agio con la comunicazione di massa, forte dei dati (ormai incontrovertibili) che certificano un netto cambio delle tendenze climatiche, e forse anche più disinibita, sta cercando di portare il discorso su un altro livello.

Ricordate Mountain Wilderness? I blitz sui piloni della funivia del Bianco? Ecco, quel tipo di movimentismo è forse passato, all’azione “dimostrativa” si va via via sostituendo una proposta ponderata. Razionale. Basata sui dati e sui modelli economici.

Ecco, qui sta il punto. Se agitare spettri di apocalisse, predicare decrescite (felici o infelici che siano), drammatizzare sullo stato (effettivamente comatoso) degli ecosistemi può non far presa sulle coscienze (perché – diciamolo – fare i rompiscatole quando vorremmo goderci una giornata sulla neve senza pensieri non è esattamente il modo per farsi ascoltare), forse la strategia può essere diversa. Agire sulla leva economica. Usare codici e parametri tipici della nostra società (capitalista, liberale e aperta) per iniziare a ragionare verso prospettive diverse. Mercati diversi.

In queste settimane ho avuto modo di leggere un libro-inchiesta, piuttosto interessante e oggettivo, che andrebbe letto serenamente, proprio per documentarsi e senza che questo imponga a prescindere una posizione. “Inverno liquido – La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa” (Maurizio Dematteis e Michele Nardelli, ed. Derive Approdi, 2022) è un saggio-inchiesta su un modello economico e culturale che oggi pare avviato alla sua fine. Questo non implica necessariamente la sua scomparsa. Ma un suo aggiornamento. Per dirla in termini imprenditoriali un “cambio del modello di business”. Lo sci, prodotto che in termini economici possiamo definire “maturo”, necessita di un cambiamento. Che non può per ragioni ancora più che climatiche (per chi non vuole crederci, nonostante i dati) bensì economiche reggersi su quei parametri che lo hanno sorretto finora. Ovvero sull’investimento “pesante” fatto di infrastrutture, di bacini di raccolta delle acque per l’innevamento artificiale, di consumo di suolo. Un modello altamente dispendioso, “energivoro” come si usa dire oggi e soprattutto con enormi limiti di “ritorno” del profitto. Parliamoci chiaro: quanti investitori oggi punterebbero i propri capitali su questo tipo di turismo? Con le prospettive di aumento delle temperature e riduzione delle precipitazioni che generano sempre maggiori costi di gestione? E’ ancora, quello del turismo invernale di tipo sciistico, un prodotto promettente?

Sembra di no. Ed ecco perché il cambio di discorso, porre il problema su questo piano può essere davvero l’approccio giusto per innescare il cambiamento. Parliamo di un modello economico che ha letteralmente tirato fuori dalla povertà buona parte dell’arco alpino. Ma rischia di diventare la causa di un nuovo impoverimento. Cosa faremo quando dalla semplice alternanza di annate buone e meno buone, passeremo a bienni o trienni di assenza di precipitazioni?

Il libro compie un viaggio per le Alpi, toccando nel cuore le ferite, andando a scoprire i costi dei comprensori e scoprendo che spesso è il sistema pubblico (la collettività!) a tenere artificialmente in vita queste economie. E che – qua e là, proprio come i crocus – stanno emergendo alternative non solo affascinanti, ma anche economicamente attraenti. Val Maira, Valpelline sono solo alcuni esempi di come fare ancora ricchezza grazie alle attrattive naturali, ma diversificando l’offerta. E scoprendo che al “cliente” non va imposto un prodotto, ma data possibilità di scelta. E tutto sommato noi, su queste pagine, ne avevamo parlato in tempi in cui l’argomento era – come al solito – relegato tra le fila dei “menagrami” che dicevano “no” a tutto. Non era esattamente così. https://rampegoni.wordpress.com/2016/02/02/miopia-bianca/

Non siamo ingenui: tutti noi abbiamo imparato a sciare prendendo almeno uno skilift e su una pista battuta. Diverso è però il cosidetto “accanimeto terapeutico”, laddove la materia prima manca del tutto. Diverso è dire che è questa l’unica soluzione. Che è inevitabile. Oggi, di inevitabile, c’è solo questa pioggia che tocca quota inimmaginabili. Di inevitabile c’è l’adattarsi a condizioni sempre più difficili.

Mi soffermo ancora un momento sull’ottica del cliente, senza annoiarvi: è vero che ci sono tanti modelli di turismo sostenibile che si potrebbero tenere workshops e pubblicare papers per i prossimi 5 anni. Ma i “clienti” siamo noi (ci piaccia o meno definirci così). Ed è la nostra testa che va cambiata. Nel surreale inverno della pandemia 2020-21, un inverno beffardamente ricco di neve, i boschi e le vallate erano – nei limiti delle restrizioni – affollati di persone di ogni tipo. Gli “elitari” avranno storto il naso. Io invece lo trovavo consolante. Persino promettente. Di fronte all’assenza di impianti e pacchetti preconfenzionati le persone erano tornate a passeggiare. Scoprendo la bellezza semplice di un bosco. Non serve dire altro.

Skipedia – appunti per un’enciclopedia minima dello sci di montagna

di Saverio D’Eredità

In fondo non sono che parole. Ma le parole sono la nostra bussola nel mondo, in questo caos che cerchiamo di decifrare. La nostra più semplice ed efficace attrezzatura per affrontare i difficili percorsi della vita.

Quali sono le parole dello sci? Ne conosciamo molte, più spesso legate alla qualità della neve, alla morfologia della montagna, alle qualità degli attrezzi. Ne usiamo tante, di parole, nello sci. Ma quali sono i concetti che caratterizzano e differenziano lo sci, lo sci di montagna in particolare, da tutto il resto? Perché i semplici numeri (dislivelli, inclinazioni, scale più o meno dettagliate) non spiegano tutto e l’esperienza dello sci (che vogliamo restituire alla sua origine, ovvero lo sci “di montagna” piuttosto che affibbiare l’etichetto di “sci-alpinismo”, incompleta e limitante come accade con tanti -ismi) sembra essere qualcosa di più. Più profondo, più vasto.

La letteratura non manca di certo. Più raro però che anche gli sciatori, i grandi sciatori fossero essi i precursori della disciplina dello “ski-tour” o i “ripidisti” oggi meglio noti come “estremi”, abbiano saputo dare forma a quelle sensazioni. Non è mai facile, quando si è immersi nell’azione. Può risultare meno vivido, quando mediato dal tempo e dall’esperienza. Ci rimangono, quindi, parole. A guidarci attraverso i diversi approcci e stili, sia che siamo freerider che amanti dello sci ripido. Sci-turisti o sci-escursionisti. Guerrieri del “ravanage” o amanti di più miti ondulazioni. Lo sci di montagna è una grande comunità in cui ognuno usa però gli stessi strumenti sullo stesso terreno. Ci deve essere quindi, da qualche parte, una piccola enciclopedia da consultare, dove ritrovare parole che raccogliamo lungo le nostre tracce sulla neve. Una specie di indagine in cui raccogliamo le prove.

Ho provato a prendere solo alcune, segnalando per alcuni di questi, il luogo del ritrovamento. Questa quindi non è una scelta di itinerari (ancora!) e nemmeno una monografia. Potreste farne ognuno di voi una vostra, nei vostri luoghi, sulle vostre tracce. Ma, se volete, potete usare questa breve lista dei luoghi.

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L’uomo sulla piroga

di Saverio D’Eredità

Al di là di ogni tentativo di trovare una definizione o una categoria, per quanto ci si sforzi di descrivere le sensazioni che si provano, credo che sciare sia, essenzialmente, una possibilità. Non una cosa utile, né tantomeno necessaria. Divertente, spesso. Altre, a dire il vero, un po’frustrante. Altre ancora un tentativo o forse una scommessa. Eppure.

Eppure succede ogni volta di nuovo. Che quando hai quei due assi ai piedi, quando il “clak” degli attacchi sancisce il tuo legame, quando hai davanti un pendio, in quel preciso istante ciò che hai davanti è soprattutto qualcosa che ha a che fare con le possibilità. Di sicuro qualcosa succede, in te. Qualcosa che d’un colpo amplia la sfera del possibile e – in qualche modo – la sfera di te stesso. Anche se lì per lì assomiglia più ad un istinto incontrollabile, animale quasi, a metà tra infantile incoscienza e consapevole coraggio. Qualcosa che ci aggancia alla parte nascosta di noi, quella che ricacciamo sempre dentro a pugni. Perché non è bene. Perché non si fa. Perché. Perché.

Non ci sono perché, qui. Ci sono due assi attaccati ai piedi, c’è uno spazio da creare. Lasciare una traccia è un venire al mondo di nuovo. Anzi, è un modo di stare al mondo. Ancora di più, più preciso. È un modo di stare con il mondo. E ‘stabilire una relazione e quindi – ecco, sì – creare un po’ sé stessi. Rendersi possibili.

Creste Bianche – foto Saverio D’Eredità

A me, sciare, il percorrere uno spazio bianco decidendo – solo io, e solo per quel momento – la mia traiettoria, ricorda sempre la sensazione che ho provato il giorno in cui ho imparato ad andare in bici. Ve lo ricordate, voi, quando avete imparato ad andare in bici? Vi avranno tolto il ruotino senza dirvelo o un adulto premuroso vi avrà tenuto per il sellino, immagino. Io me lo ricordo bene, ahimè, un po’perché ero già grandicello e poi perché a dire il vero non c’è stato né ruotino né adulto premuroso. Ho imparato su una bici che non aveva freni e a casa di un compagno di classe, un 25 aprile della terza media. Del resto, la sola bici che poteva prestarmi l’amico era uno scassone senza freni e poi – a pensarci bene – per imparare qualcosa non deve essere sempre tutto perfetto. Non dobbiamo avere sempre tutto.

Ecco, il momento in cui son riuscito a fare due pedalate in equilibrio è stato soprattutto un momento in cui ho percepito delle “possibilità”. Ricordo che ho iniziato a prendere tutte le strade che mi capitavano e il mio amico Paolo mi inseguiva e rideva di me che pedalavo come un forsennato perché i freni non ce li avevo e non potevo che pedalare e basta. Ecco con lo sci è più o meno lo stesso. Cioè è ogni volta come imparare ad andare in bici la prima volta. Non so se mi riuscirà la prima curva. Non so se riuscirò a non cadere. È questo che lo rende interessante a mio modo di vedere. C’è uno spazio non del tutto noto. Un universo di possibilità.

Deve essere qualcosa che si è sovrascritto nei geni dell’essere umano. Almeno dal momento in cui il primo uomo ha intuito come un tronco potesse trasportarlo sull’acqua. Ve lo vedete il primo uomo su una piroga? Qualche volta me lo immagino, quell’essere un po’rozzo e non molto evoluto che – inconsapevole di varcare una soglia epocale – con uno sguardo determinato, spinge quel tronco scavato nell’acqua e ci si getta sopra. Me lo vedo si, quello sconosciuto antenato dai denti storti, la pelle sporca, i peli ruvidi e gli occhi colmi di stupore, che si allontana sull’acqua, il cuore un tumulto di paura e mistero verso quella sponda ignota che lo attende. Lo sapeva, quell’essere umano di migliaia di anni fa, che quello stesso gesto, quello stesso sguardo, quelle stesse indecifrabili sensazioni si sarebbero ripetute un numero infinito di volte per centinaia e centinaia di generazioni? Che quella piccola spinta avrebbe determinato il futuro del pianeta nudo che aveva davanti?

Come l’uomo sulla piroga, anche lo sci ci offre un varco attraverso il quale ci è dato espandere la conoscenza e la consapevolezza dello stare al mondo. È una possibilità che si ripropone indefinite volte, basta saperla cogliere. Saperla leggere, come possibilità.

Tutto sommato però sciare non è che una delle declinazioni possibili di questa possibilità. Un modo come molti altri (bè, forse più affascinante, di altri) di attraversare quel varco che ci permette di proiettarci verso dimensioni nuove e diverse di noi stessi. Qualcosa di necessario. Talvolta quel varco, quel breve spiraglio in cui intravediamo una possibilità, è l’unica cosa che ci rimane. E a cui ci aggrappiamo con tutte le nostre forze.

Scendendo da Forca La Val – foto Marco Battistutta

Sto esagerando. Non è solo lo sci che ti permette di varcare quella soglia. Ma la sensazione, ecco, quella sensazione – ci siamo capiti – potete cercarla dove vi pare, con chi vi pare, con l’attrezzo che preferite o anche senza niente. E la cosa sorprendente è che accade senza che tu possa deciderlo. In qualsiasi momento e ovunque. Una mattina d’estate in una stanza senza suoni e senza finestre. Lungo strade polverose, dove ti chiedi se ancora qualcosa di puro è rimasto. Può essere dietro ad una telefonata, tra le carte di un ufficio, all’uscita da scuola lungo la strada che fai sempre e un giorno – clack, il suono degli scarponi che ritorna, tin-tin, i bastoncini che sbattono a scrollarsi la neve, l’occhio che coglie una luce particolare su un particolare insignificante – invece ti apre quella possibilità. E sei di nuovo l’uomo sulla piroga.

Un giorno siamo saliti sul solito monte dove vanno tutti. Dove siamo andati centinaia di volte e torniamo quasi come se ci fosse, tra le strade, nelle indicazioni stradali, nei nostri umori, una sorta di declivio che ci lascia scivolare da quella parte. Siamo saliti lungo la solita strada, misurato per l’ennesima volta passi, curve, dossi, alberelli e radure. Notato, nell’intercapedine degli anni, qualcosa che ci era sfuggito e qualcosa che non c’è più. Siamo arrivati in cima, il solito giro di panorama, il solito commento che pare veniamo qui per ridire le stesse cose sempre. Ma stavolta su quel monte ci siamo girati dall’altra parte. E la vista di quel pendio – e la solita domanda: hai mai provato a scendere di là? – è stata irresistibile. Come sempre. Ma come nessuna altra volta prima di allora, abbiamo voltato le spalle alle tracce conosciute e ci siamo rivolti a quel fazzoletto sospeso verso non-so-dove. Non abbiamo bisogno sempre di saperlo, come non abbiamo sempre bisogno di tutto. Come i freni della bicicletta quando ho imparato ad andarci.

Quel gesto, quell’unico gesto, ha cambiato tutto. Come una lampadina accesa d’improvviso in una stanza buia, ci ha fatto capire che non eravamo venuti per percorrere la stessa traccia, ma per vagliare delle possibilità. Abbiamo chiuso gli scarponi, allineato le tavole, pulito gli attacchi dalla neve. In quella cura c’era la nostra responsabilità. In quella scelta un principio di libertà.

Proprio come l’uomo sulla piroga, lasciandoci scivolare lentamente sul pendio abbiamo ripetuto quel gesto antico. Allontanato la riva andando verso spazi bianchi, senza sapere esattamente cosa ci sarebbe stato oltre la linea d’orizzonte. Come avremmo attraversato il limite di quel bosco che pareva un muro senza crepe. Se ci sarebbe stato possibile raggiungere la valle da lì. Per sentirci nuovamente, selvaggiamente, il primo uomo o ogni uomo sulla Terra, una mattina di cinquemila anni fa da qualche parte in Indonesia o forse chissà in Mesopotamia. O anche adesso, in ogni luogo dove qualcuno cerca una via d’uscita. Un po’più vicini a quell’uomo, e forse un passo più lontani dal morire. O almeno, illudendoci di esserlo.

Quattro chiacchiere e un po’di “jamming” con Samuel Straulino

di Saverio D’Eredità

Quando si parla di Carnia, in fatto di scalata, di solito vengono in mente le placche e rigole di Avostanis, o gli esigenti monotiri della Scogliera in Pal Piccolo. Gli alpinisti che masticano vie classiche avranno sicuramente passato momenti “riflessivi” sugli spalmi e altri meno riflessivi, ma piuttosto avventurosi, cercando di venire a capo delle ostiche fessure, ora esaltanti ora disperanti, specie quando – succede sempre- la roccia presenta i bordi svasi che sembrano non andare d’accordo né con le mani né con le protezioni. Insomma, la fessura carnica è una categoria a sé stante, sicuramente un bel banco di prova per quanti li affrontano e che, una volta superatolo, non temeranno di misurarsi con i luoghi di elezione di questo tipo di scalata come il Piemonte, la Val Di Mello, il Bianco o perchè no, la mitica Yosemite.

Ho incontrato per la prima volta Samuel alla base del Salto, struttura rocciosa strapiombante nell’area del Pal Piccolo. Notammo questo ragazzo intento a scalare con calma e determinazione, una fessura dall’apparenza ostile. I sassetti che cadevano ci fecero capire che non stava salendo qualcosa di molto ripetuto. Margherita, che lo assicurava alla base, ci disse infatti che stavano aprendo dei tiri in stile trad (http://quartogrado.com/cargiul/relazioni%20montecroce/Pal%20Piccolo_Falesia%20del%20Salto.htm)e ci invitò a provare una fessura che poteva fungere da variante d’attacco alla via del Sandwich che nelle nostre intenzioni più “plaisir” ci accingevamo a salire quel giorno. I 3 friends appesi al nostro imbrago sarebbero stati sufficienti per quei 15 metri. E in effetti lo furono, dato che potemmo piazzarli in maniera ottimale sul fondo della fessura. Meno sufficiente fu la mia tecnica, di colpo costretta a misurarsi con quel tipo di scalata per noi inusuale, pregiudicando un po’ la resa sui tiri successivi. Non siamo certo specialisti! Rimasi quindi colpito dallo stile di Samuel che, scoprii dopo, con Margherita Della Pietra si stava dedicando ad aperture in stile “yosemitico” sulla difficile roccia di Carnia. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere in stile “jamming”, quella particolare tecnica che si applica sulle vie di fessura, parlando del suo percorso, le sue aperture, scoprendo come anche in Carnia ci si può confrontare con questa scalata “occidentale” immaginando quella “valley uprising” che popola i sogni di tanti di noi.

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Straulino su Ain’t no easy way out, sulla Creta di Collina – 340 mt, VIII

Quando si parla di Carnia non si pensa di certo alle fessure: eppure tu sei uno specialista di questo tipo di strutture, con un bel carnet di itinerari aperti con questo stile di scalata su queste montagne. La domanda che sorge spontanea è: come hai capito il potenziale dell’arrampicata in fessura in Carnia? E cosa ti ha spinto a specializzarti?

Quando ho cominciato a scalare il pane quotidiano per me erano i video di master of stone e tutti i video riguardanti lo Yosemite e le mitiche imprese di Tommy Caldwell e Dean Potter: quindi per me la scalata era scalare in fessura! Da qui poi ho cominciato a ripetere tutte le grandi classiche delle Carniche, scoprendo come le vie in montagna di stampo classico differiscano dalla falesia proprio per la ricerca dei punti più deboli delle pareti. Sfruttando prevalentemente fessure, camini e diedri ho iniziato a comprenderne la logica e a quel punto mi si è aperto un mondo: avevo “trovato” la mia Yosemite in Carnia! Più esperienza facevo e più cercavo di ripetere vie di maggiore difficoltà. Avendo poi scalato tanto con Roberto Mazzilis e quindi imparato moltissime cose da lui e dallo stile con cui apre le sue vie in montagna, ho cominciato a fantasticare e a cercare nuovi itinerari nello stile che mi piace di più. Così ho scoperto che le nostre pareti carniche hanno ancora delle linee che non sono state scalate con fessure strepitose!

In cosa differisce questo tipo di scalata sulle pareti carniche da quella più classica che si può trovare altrove, tanto su granito quanto su dolomia? Come ti muovi per affrontarle? Tecnica, protezioni, materiali…

Certamente c’è una gran differenza tra le fessure granitiche rispetto a quelle calcaree e dolomitiche. Innanzitutto per le caratteristiche della roccia: il granito presenta fessure regolari che corrono su pareti generalmente lisce (a seconda della grana più o meno grossa), quindi per scalarle si ricorre a tutti i tipi d incastri, da quello di mano alle tecniche di incastro su fessure “offwidth”, mentre nei calcari le fessure sono irregolari e per loro caratteristica offrono appoggi e tacche in parete, quindi non sarà sempre necessario incastrare mani e piedi. Per quanto riguarda la proteggibilità, il fatto che su granito le fessure sono più regolari fa si che sia più facile e immediato usare protezioni veloci, mentre su calcare e dolomia serve maestria nel piazzarle, spesso in fessure che risultano molto “svase”. Io cerco sempre di usare il più possibile friend e dadi per proteggermi, dove non è possibile ovviamente uso martello e chiodi.

E ora una domanda classica e scontata: dicci il tiro più bello e la via più bella (sempre parlando di fessure) che hai scalato!

Come tiro direi “Separate reality”(*) in Yosemite , mentre parlando di via direi Astroman (**)sempre in Yosemite.

(*) Separate Reality: celebre monotiro scalato da Ron Kauk nel 78 (diff. originaria 5.12, 7a+), immortalato in numerose foto che hanno fatto la storia dell’arrampicata americana. Mitica la prima free solo di Gullich nel 1986.

(**) Sulla Washington Coloumn, Astroman è una delle vie più importanti dello Yosemite, aperta nel 1959 da Warren Harding, Glenn Denny e Chuck Pratt, valutata 5.11 c (corrisponde all’incirca a un 6c+ in scala francese, ma su una scalata molto specifica)

Parlaci di te, del tuo percorso e delle tue esperienze: hai viaggiato molto per andare a provare le scalate “iconiche” in fessura, ad esempio. Quali sono i luoghi da non perdere per questo tipo di scalata?

Fin da bambino ho iniziato a frequentare la montagna sia con escursioni estive che d’inverno sugli sci assieme ai miei zii. Ho cominciato a scalare a vent’anni da autodidatta e divorando tutti i video che trovavo sullo Yosemite e tutte le più famose bigwall al mondo, quindi per me la scalata era…scalare in fessura! Dopo pochi mesi ero già pronto per andare a ripetere vie classiche in montagna, la falesia era solo allenamento per riuscire ad alzare il grado sulle vie. Durante i primi anni di scalate ho avuto la fortuna di conoscere il fuoriclasse Roby (Roberto Mazzilis) e da li è cominciata una vera e propria saga di vie nuove aperte insieme a lui. Scalando con Roberto ho imparato tante cose e sopratutto ho avuto la fortuna salire dove nessuno era stato prima. Quella sensazione di novità, avventura e di mettersi totalmente in gioco che si prova soltanto in montagna mi ha rapito fin da subito. Quindi ho cercato di far più esperienza possibile per poi trovare le mie nuove linee, cercando le fessure ancora inviolate sulle pareti vicino casa. E appena ho potuto sono volato oltre oceano per visitare la mitica valle che ho sempre sognato: lo Yosemite. Qui ho ripetuto tante vie classiche e anche monotiri che hanno fatto la storia, come Separate Reality. Una grande avventura è stata la via “Astroman”, sia per la via in sé, una bellissima scalata tra diedri infiniti ed incastri in fessure di ogni larghezza, sia per il fatto che avevamo portato pochissima acqua con noi per non avere tanto peso con la conseguenza che arrivammo in cima disidratati e sfiniti. Un altro posto molto bello per le vie lunghe è il Zion National Park, dove consiglierei Moonlight Buttres e Tatooine. Il viaggio è finito con le fessure più perfette che si possano desiderare, in un ambiente magico quale il deserto a Indian creek, dove ho scalato veramente tantissimo ripetendo un sacco di vie dalle classiche “iconiche” a quelle meno conosciute. Sicuramente ci tornerò, secondo me sono posti magici!

Poi però sei tornato a casa, dove hai continuato una incessante opera di individuazione ed apertura di vie di stampo tradizionale, prediligendo lo stile “americano”, quindi arrampicata tendenzialmente “clean” e ricerca di fessure. Domanda d’obbligo: quale tra le vie da te aperte consideri la migliore?

Tra quelle che ho fatto, direi proprio l’ultima sulla parete sud della Creta di Collina, un luogo speciale per me (qui Samuel ha aperto Ain’t no easy way out e Hotshots, nonché raddrizzato la classica Viaggio ad Oxford – ndr) dove ho aperto “Be the Change”, 230 mt difficoltà massima di VIII+. Qui ho trovato dei tiri in fessura davvero spettacolari, ma anche passi in placca non da meno. Peccato solo che la parete di per sé non sia molto alta, se vogliamo è l’unico difetto che posso trovarle. Però ci tengo a ricordare anche un’altra via, che ho soltanto ripetuto, ma che ha rappresentato molto per me. Si tratta di “Laura”, sulla sud del Gamspitz (via storica, aperta da Mazzilis e Di Gallo nel 1984 dove per la prima volta su queste montagne si è sfiorato l’ottavo grado: la via infatti presenta un passo di VIII- e conta pochissime ripetizioni tutt’ora -ndr): non la più dura che ho salito, ma la più desiderata sicuramente. Ripeterla con l’autore, Roberto Mazzilis, è stata un’emozione particolare.

L’arrampicata cosiddetta “trad” sta avendo un grande interesse negli ultimi anni: secondo te come mai?

Io penso che l arrampicata “trad” possa darti molto di più a livello di “avventura” e quindi di coinvolgimento mentale, dove oltre al gesto tecnico sei tu a decidere dove e quanto proteggere un tiro. Oltre al fatto di riuscire a farti crescere mentalmente e stimolarti a ripetere vie sempre più dure.

Come vedi l’evoluzione di questo stile applicato alle falesie come ad esempio fanno da sempre in Uk, ma anche tu hai aperto dei tiri trad in Pal Piccolo. Secondo te avrà futuro o sarà sempre una nicchia?

Certamente in Uk c’è una lunga tradizione sul fatto di scalare “clean”, ma c’è anche una roccia diversa dalla nostra, quindi forse più “portata” a questo stile. Non va dimenticato comunque che anche da noi negli anni ottanta, assieme alla nascita delle falesie attrezzate a spit in Pal Piccolo sopravvivevano parecchie fessure protette solo con nut ed exentrics. Successivamente – purtroppo secondo me – anche da noi si è un po’abusato di questo strumento: su placche altrimenti impossibili da proteggere va benissimo, ma su moltissime fessure non li avrei usati. Questo perché oltre a sminuirle nell’impegno, tolgono anche la possibilità a molti di imparare ad usare le protezioni veloci e a conoscere un modo diverso di scalare. Infatti qua da noi in Friuli poca gente ha una serie di friend nella propria attrezzatura, quindi almeno qui da noi il “trad” farà molta fatica ad avere successo, se non tra i pochi appassionati.

Tu sei anche guida alpina: se un cliente volesse iniziare a provare a scalare tiri in fessura, cosa consiglieresti? come lo guideresti?

Le fessure carniche non sono certo come le fessure che si possono trovare in granito, dove si ha una scalata in fessura più completa, però secondo me si potrebbe tranquillamente cominciare con le nostre pareti, magari proprio in Pal Piccolo zona “Scogliera” per poi passare alla mia falesia trad e finire con l arrivare a ripetere qualche multipitch zona Salto (vedi https://rampegoni.wordpress.com/2020/12/06/ritorno-al-futuro-arrampicata-trad-sulle-pareti-del-pal-piccolo/). Se invece si cerca il granito, la”Mecca” qui in Italia è il Piemonte con la valle dell Orco, dove ci sono sopratutto multipitch, oppure le falesie di Cadarese e Yosesigo con i suoi monotiri e le fessure perfette!

Insomma, non resta che fasciarvi le mani, appendere i friends all’imbrago e lanciarsi in quell’avventura intensa e leale che questa arrampicata sa regalare. Immaginando per un momento di trovarsi in una nostra piccola Yosemite a nordest.

Samuel in apertura sulla falesia del Salto