Fedeltà

di Saverio D’Eredità

Aprile è un mese di opposti. Di giornate lunghe e gite che finiscono presto. Di polvere tardiva e prime gemme sui rami. Luci accecanti e ombre profonde. Ghiaccio al mattino e panna a mezzogiorno. Tè caldo e boccia d’acqua. Mete ambiziose e grandi pacchi rifilati. Aprile è contraddizione. Uno spartiacque.

Una delle funzioni di Facebook più simpatiche è quella dei ricordi. Ogni mattina basta andare nella sezione del tuo profilo dedicata e come aprendo un album ti ritrovi quello che hai fatto (o meglio pubblicato, quindi quello che in questa logica è esistito) lo stesso giorno l’anno scorso, due anni fa o così a ritroso. Chissà, magari il giorno del giudizio dio aprirà il tuo profilo e ti ricorderà così le stronzate che hai fatto. Fatto sta che questa funzione, questo trastullo da colazione, è tra le mie preferite. Vuoi perché è sempre piacevole rivedersi le foto – che è un po’come riviversi – sia perché mi fa sentire meno inadeguato, meno fallito. Se guardo le foto posso dirmi “bè, dai, in fondo non hai proprio buttato via il tuo tempo”, smentendomi circa la mia fissazione di non essere fin qui riuscito a realizzare tutti i miei progetti. Insomma, dai, è consolatorio. Si, sicuramente dio userà la funzione “I tuoi ricordi” per dirti che non puoi lamentarti troppo con lui quando sarà il momento.

C’è una costante, nella cartella “I tuoi ricordi” di questo periodo dell’anno. Ovvero che ho sempre sciato. Che sono stato sempre in Giulie. E che ognuna di queste giornate è stata frutto di un clamoroso pacco di qualche amico. Associo dunque ad uno splendido quanto improvvisato Buinz, la telefonata semi notturna dell’amico seduto sul cesso col virus intestinale. Ad un sorprendente viaggio sull’altipiano del Canin ,l’essere rimasto solo la sera prima dopo non so quante decine di messaggi senza risposta o accordi senza doppia spunta blu. Una Strugova in 40 cm di polvere immacolata a dispetto delle risatine ironiche di compagni ormai virati verso lo sbracamento primaverile

Ad ognuna di queste giornate, quindi, oltre al bel ricordo offerto dall’algoritmo con la foto più significativa – ovvero apprezzata dagli amici – associo più che altro l’incertezza, la fastidiosa incazzatura, l’incipiente senso di fallimento della giornata – che si riverbera irrazionalmente sulla stagione intera. Un senso di incompiutezza capace di generare i più foschi e malinconici pensieri sulla brevità della vita (eccetera, a vostra scelta), causato dal più temibile degli imprevisti: il “pacco”. Ora, lungi dall’essere un j’accuse tardivo (inutile perché i pacchi sono arrivati da tutti indistintamente e per i più svariati motivi) riflettevo su questa cosa più che altro per il suo significato simbolico. Insomma, anche se può sembrare che qui io voglia fare quello che ha sempre ragione (ed è chiaramente un po’ così), ciò che mi salta all’occhio, piuttosto, è questo spartiacque. Questo momento che sancisce una cesura netta nella stagione, un prima e un dopo. Come se, doppiata la boa di fine marzo – ultimo mese astronomicamente invernale – ci si guardasse indietro e si facesse la conta. Tra chi ci crede ancora e chi, alla prima incertezza, molla. Magari non molla proprio del tutto (perché sarai tu a farlo ritornare almeno un’altra volta a cercare le nevi più belle, le nevi ultime), ma abbassa di una tacca la propria motivazione.

Ma più ancora che non questo insistere nell’aver per forza ragione su qualcosa o qualcuno, questo volersi sentire giusti per non ammettere di essere ad ogni modo sbagliati, realizzo – pensando a questi giorni preziosi, a queste malinconie schivate, questi programmi fatti all’ultimo – che sia tutto sommato una questione di fedeltà. Che mi porta, ogni volta in questo periodo, a fare una scelta. Ad ascoltare un moto del cuore che va al di là di ogni ragionevole calcolo. Ecco, se c’è uno giro di boa, un punto di scavalco, uno spartiacque è qua. Che distingue. Ciò che era in qualche modo ovvio, scontato (andare a sciare d’inverno, niente di più banale) da ciò che ovvio non è. Che esige una presa di posizione. Dopo, di qua, c’è un atto di riconoscenza. Di fedeltà.

E’un principio ed una conferma di amore quello che segna giornate come queste, che sono più intense proprio perché più vicine a qualcosa che sai essere lì per finire. E che quindi, in qualche modo, tu sia chiamato a prendertene cura. C’è una linea sottile che divide il prima e il dopo, e che so di poter individuare. Sta nel momento in cui la neve trasforma, sta nel passaggio dalle tenebre alla luce. C’è un ritaglio che non trovo in nessuna delle foto, ma che ritorna ogni volta, ogni anno, puntuale. E’ un momento esatto, di più, è una curva esatta che si realizza sempre e non dove più ripido, più stretto o in generale più figo. E’una curva come tante, ma che forse mi viene meglio di altre. Sta là, dove entra di colpo il sole, su un pendio appena più morbido. Si disegna vicino ad un albero che ha appena messo fuori le gemme. E capisci che c’è solo un modo per tenersi insieme tutti questi opposti, queste contraddizioni, ed è vivendole.

Ad Aprile ci si trova spesso solo in due, gli ultimi due, ad un parcheggio in cui non c’è più nessuno, con i resti dissotterrati delle immondizie invernali, le dita dei piedi nudi che giocano a intrecciare fili d’erba nuova. Raramente si parla. Più spesso si osserva. Forse ne farai ancora una.

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