di Saverio D’Eredità
Sto salendo in auto i tornanti che mi portano nella parte alta di Belluno e sono ovviamente in ritardo. La riunione inizia tra cinque minuti e non ho la minima idea di dove si trovi. Tengo il navigatore acceso – non lo faccio mai – solo per avere la certezza del mio ritardo. “Via Attilio Tissi” – dice il collega a fianco a me guardando fuori dal finestrino – “…senatore…”. Inchiodo. “Come scusa?” chiedo al collega. “Via Attilio Tissi…conosci? Mai sentito”. Guardo il cartello: riporta la data di nascita e morte. “Se è quello che penso, credo proprio di sì” dissi.
Perchè è un po’così, con gli alpinisti. Ripercorrendo le loro salite, immedesimandosi nelle paure o sensazioni provate da loro stessi nel toccare quelle pietre, pare quasi di finire per conoscerli davvero. Anche se ormai quelle tracce sono antichissime e tutto – indumenti, materiali, parole, valori – sembrano appartenere quasi ad un’altra specie. Ogni via è un viaggio nel tempo e nell’animo di qualcuno che ci ha preceduto.
Eravamo in ritardo anche quel giorno, ma non tanto sull’orario quanto sul temporale che – immancabile in quell’estate 2014 – si stava già organizzando sui Cantoni di Pelsa. Sotto di noi erano già sfilati la maggior parte dei tiri della via e degli oltre 500 metri della parete sud della Torre Venezia. Carlo si rimboccò le maniche, diede il cambio a Nicola e partì per la sequenza di tiri finali, aerei e sostenuti. Le nebbie creavano quel ben noto “muro” visivo e sonoro che rende ancor più straniante la sensazione della cordata. Uniti da un sottile spago ci sentivamo stranieri a noi stessi, eppure simbiotici nell’azione. Accrocchiato sul bordo del terrazzino lasciai cadere lo sguardo verso un oblò aperto tra le nebbie sulla parete – non lo faccio mai, per scaramanzia più che altro – gettandolo nel vuoto della parete. I giganteschi massi sotto i quali ci eravamo cambiati alcune ore fa parevano briciole. Quando la voce di Carlo filtrò tra le nebbie fuggimmo verso l’alto. Prima Nicola, poi io a seguire e recuperare il materiale. Con le punte delle scarpette appoggiate sulla ruga del terrazzino, pensai a quanto fegato doveva avere Tissi a puntare dritto a questa riga nerastra appena sotto il ballatoio. A quanto ci aveva creduto. Soprattutto dopo che, con quell’infinito traverso a destra, si era tagliato dietro i ponti, inoltrandosi in un desolante mare di placche verticali. In definitiva, più di tante questioni tecniche, gradi, ferraglie o tabelline, questa storia che c’è tra uomini e montagne si risolve in una cosa totalmente immateriale e per certi versi indiscutibile. Crederci.
Normalmente sono gli uomini a parlare delle montagne. Ma, se le ascoltiamo bene, qualche volta sono le montagne stesse a parlarci degli uomini.
Passando sotto la stele di dolomia della Torre Venezia, d’ora in poi, non potremo che notare una “assenza”: quel piccolo cuore bianco scavato nel bel mezzo della parete ha ora definitivamente cancellato una delle sue vie più importanti. Curioso come talvolta sia proprio l’assenza di qualcosa a riportare a galla la memoria del passato. Sosteremo qualche breve istante a ripercorrere la linea perduta e ricordare colui che regalò, in un giorno del 1933, una delle linee più belle a questa Torre. La linea di Attilio Tissi.

Però è vero: troppo spesso, parlando degli alpinisti, ci si ferma al crudo dato tecnico. L’elenco delle scalate, le difficoltà, la lunghezza, l’elenco delle vie salite, le imprese più importanti. Come se non ci fosse alto oltre le montagne. Mi sono sempre piaciute le vie che raccontano qualcosa e gli alpinisti che mi sanno parlare d’altro.
Il Tissi “alpinista”, ad esempio, non fu che un lampo nell’arco della sua vita: quattro stagioni ai massimi livelli per un uomo che si approccia tardi alle pareti, ma vi scopre una vocazione innata. Nel giro di poche estati individua e risolve problemi alpinistici notevoli, con uno stile e una tecnica molto avanti rispetto ai tempi. Prendete quella via sulla Torre Venezia, la via che non c’è più: una linea pressoché diretta, in parete aperta, con pochi chiodi e di straordinaria intuizione che guida attraverso quelle placche verticali e indistinte. Pochi passaggi in camini o fessure, l’arrampicata è quasi sempre esposta, esterna e libera. All’epoca ci si incastrava ancora nei camini. Invece Tissi, no. Attaccare nel mezzo e districarsi in quel mare verticale, ai tempi, doveva esser stato un bell’atto di coraggio. Una cosa per pochi. Per visionari. Per gente che sa “credere”.

Che fosse uno che “ci credeva” – sulla Torre Venezia o nel mirabolante passaggio sul Campanile di Brabante o ancora sulla Tofana, la sua scalata più sottovalutata – Tissi lo dimostrò ancor di più in seguito. Quando l’8 settembre consegna l’Italia al caos e all’invasione tedesca, Tissi – da sempre un non allineato, in odore di antifascismo e perciò sospetto alle autorità – aderisce spontaneamente alla Resistenza. “Non posso non partecipare” confidò alla moglie. Un’adesione inevitabile, che porta in sé i tratti distintivi del grande alpinista che fu. Imprenditore stimato, Tissi era uno di quei capi silenziosi che non ha bisogno di lustrini e patacche per essere rispettato. Gli anni delle imprese sulle crode erano lontani, dopo che un incidente aveva messo fine all’attività di alto livello. Continuò però a frequentarle, le montagne. Semplicemente per amore. E nel mezzo della guerra, in quella che fu l’ora più buia, riemerge in Tissi l’alpinista che si porta dentro, di chi porta con sé il senso profondo della montagna e sa quando è il momento di mettersi in gioco per difendere i propri valori e assumersi le proprie responsabilità. Non si tirò indietro, Tissi, anzi divenne un riferimento per la Resistenza nel bellunese, tanto da finire nelle mire dei nazifascisti. In una notte che poteva essere l’ultima della sua vita, decide di recidersi le vene pur di non finire sotto tortura e dover confessare. Sopravviverà quella notte e scamperà all’esecuzione per un soffio. Come al termine delle scalate più lunghe, il premio della tenacia e della Resistenza sarebbe arrivato: sarà lui presiedere la prima seduta della Deputazione provinciale nella Belluno liberata nel maggio 1945. Fu eletto senatore pochi anni dopo e da Roma lontano, ma solo fisicamente dalle Dolomiti, continuò a interessarsi delle politiche per la montagna e della legislazione del lavoro (*).
La montagna rimarrà uno sfondo negli anni seguenti, ma non il suo sentimento. Ad esse rimane legato da un filo sottile, proprio come quando condivideva un capo della sua corda con i compagni all’epoca delle grandi scalate. Rimase quindi un’altruista in ogni aspetto della sua vita: da imprenditore, alpinista e politico. Della montagna e dell’alpinismo, porta avanti un modo di pensare e di vivere il rapporto con sé stesso e la società. Non si smette mai, in fin dei conti, di essere alpinisti. Così come le montagne non smetteranno mai di raccontarci degli uomini.
* una bel ritratto di Tissi è riportato in “Alpi Ribelli” – E.Camanni, Laterza 2019
