di Saverio D’Eredità
Prologo
Lo zapping dopo mezzanotte può sempre rivelare delle piacevoli sorprese di fine giornata. Me lo concedo ogni tanto, a cercare uno spunto prima di rassegnarmi al sonno, magari un quesito insoluto con il quale rimuginare nella fase di dormiveglia. Bisognerebbe sempre andare a dormire con un dubbio, qualcosa di incompleto, per dare senso alla giornata.
Poco prima di arrendermi definitivamente al vuoto del palinsesto mi imbatto in documentario su Lou Reed. Interessante, penso. Le cose interessanti le piazzano sempre in sesta serata. Come se la gente non fosse in grado di capire certe cose. L’imbarbarimento comincia senz’altro dall’alto.
Lou Reed è sempre stato un maestro oscuro e silenzioso. Ne possiedo una discreta discografia e puntualmente negli anni ha accompagnato lunghi tragitti in auto come certi momenti di transizione. Non è musica da hit, questo si sa. Non ha il passo epico di gruppi coevi e forse proprio per questo affascina. È un bardo umile ed introverso, uno che ti dice le cose non per farti piacere, ma perché così le vede lui. Uno capace di mettere nello stesso album la acida “European Son” con la ninna nanna di Sunday Morning (la canzone di ogni domenica mattina dopo una sbronza), e album come Metal Machine e Berlin. Continua a leggere