Nell’angolo – approcci di alpinismo invernale nel gruppo del Cavallo di Pontebba

di Saverio D’Eredità

1 – White Out

White-out. È una parola strana, praticamente intraducibile. White-out. Non lo capisci finchè non ci sei dentro, e allora quello smarrimento bianco ti prende la testa e lo stomaco. Ti fa girare come un ottovolante anche se non muovi un passo. Cancella i tuoi riferimenti, le tue certezze. Rende ogni passo un azzardo, ogni minuto un’infinità, ogni pensiero un’angoscia.
Credo che un po’tutti gli amanti dell’alpinismo abbiamo nel proprio retroterra letterario una dose di libri delle grandi esplorazioni: le avventure dei pionieri, uomini di un’epoca smarrita alla ricerca del “blank on the map”, figli dell’epoca vittoriana e dell’estetismo. Nessuno può essere rimasto insensibile ai racconti pieni di suspence di uno Shackleton e chiunque non può che provare solidarietà per la tragica figura di Scott.
In quelle letture masticavo per la prima volta la parola “white-out” senza capirne bene il significato. E senza sospettare che ci sarebbero voluti almeno 10 anni prima di poterla tradurre sulla mia pelle.
Quello che si avvicina maggiormente al clima e alle atmosfere della grande esplorazione è secondo me l’alpinismo invernale. Eppure oggi par diventato una sorta di cenerentola delle varie discipline alpinistiche: passata l’età degli eroi e delle grandi prime, non è rimasta granché traccia di quell’epopea. Ci avete mai fatto caso? La storia parla di prime invernali, ma raramente per non dire mai, gli epigoni desiderano calarsi nella stessa realtà ed emulare le gesta dei primi. Abbiamo migliaia di ripetizioni estive alle vie più note, ma ben più rare sono le ripetizioni invernali. Quasi come se, passata l’occasione per un po’di gloria, l’azzardo non valesse la pena? E dove mettiamo allora il valore dell’esperienza?
In ogni caso, c’è da dire che d’inverno – almeno per quanto mi riguarda – la tentazione è sempre quella di appoggiare due tavole sulla neve e disegnare qualche buona curva. A quel gioco di ghiaccio, acciaio e mani dure si riservano solo alcuni inconfessabili sogni notturni e poco più di qualche progetto abbozzato e mai portato a fondo. Ma accade – sempre più spesso – che questi inverni offrano scenari ben poco ordinari. E quando la neve latita, le solette rischiano e il divertimento simmetricamente scende, ecco che quelle “vaghe” idee ritornano a galla.
Era un inverno proprio così, quello del 2007. Ovviamente colpa mia e dello sconsiderato acquisto di un paio di sci d’alpinismo di seconda o terza mano. Mai fare acquisti avventati, comunque. Se non altro perché porta sfiga. E infatti quell’anno pregammo la neve ogni fine settimana senza vederne che pochi centimetri per volta. Le montagne erano ricoperte di uno strato appena sufficiente a salvare le apparenze, ma non la sostanza.
Non sapendo quindi in che genere di guai cacciarsi nel weekend riesumai il vecchio file delle “invernali”, che andava da banali cime tondeggianti a qualcosa di più misterioso quali canaloni o creste che mi sembravano particolarmente suggestivi in veste bianca. Il mio ruolo quella volta (ma pure un poco adesso) è piuttosto scomodo. Ovvero essendo l’unico (un poco paranoico) cui piaccia smanettare tra guide, cartine e previsioni di fatto mi veniva affibbiato l’onere della scelta: con il piccolo particolare che se la gita andava bene il merito era senz’altro della bellezza delle montagne, se qualcosa andava storto ero ovviamente io “il bocia” dell’epoca a dover render conto dell’inesperienza.
La faccia di Marino sulla gobba del Cavallo avvolta nel totale white-out era a metà tra il biasimo e la vera preoccupazione. “Se tra un quarto d’ora non saltiamo fuori iniziamo a chiamare i soccorsi”. La parola soccorsi non l’aveva mai detta nessuno prima di allora, così come la parola white-out non aveva ancora assunto un significato preciso fino a quel giorno.

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Discesa lungo lo spallone nord del Cavallo – maggio 2009, foto D.Nardin

 

Eppure la “Contin” allo spallone del Cavallo aveva tutte le carte per essere un buon test introduttivo all’alpinismo invernale: breve e non difficile, logisticamente comoda e su una bella cima panoramica. Peccato che dalla forcella Winkel in su in fitto nebbione bianco ci avesse avvolto, ingoiando spazio e riferimenti attorno a noi.
La ferrata si presentava in ottime condizioni e si lasciò salire con divertimento tra roccette verglassate e brevi traversi su neve dura. Le cose cambiarono radicalmente sul “facile”: una volta sbucati sull’altipiano davanti a noi si presentò un paesaggio da highland scozzesi. Le brughiere che ammantano la sommità del Cavallo erano completamente congelate e sferzate da un vento impetuoso che turbinava fiocchi di neve e ci avvolgeva in un chiarore accecante. Forse non stavamo prendendo la cosa veramente sul serio. Ovvero che stavamo per perderci. Seguimmo delle vaghe peste di ramponi e vecchie tracce marmorizzate dal gelo, stando all’incirca sulla dorsale o poco sotto per restare sottovento. La cima doveva essere una di quelle modeste ondulazioni eppure davanti a noi se ne palesava sempre una diversa. In realtà la cosa durò non più di un quarto d’ora, ma quanto bastò per accrescere un senso quasi claustrofobico. White out: la disperazione degli esploratori polari era adesso una sensazione tangibile e lacerante tanto quanto gli aghi di ghiaccio che sferzano la pelle. Un paletto con segno rosso. Era la direzione giusta? Scollinammo una punta e poco sotto ci apparve lo stesso paletto con il segno rosso. La cosa da preoccupante diventò allarmante. Stavamo girando in tondo.
Non ci demmo più delle seconde chances. Quando Marino ordinò il dietro front dissi soltanto: “per evitare di girare in tondo forse dobbiamo semplicemente risalire questo dosso e scendere”. Rimontammo controvento il dosso e con nostra perplessità tra gli aliti di nebbia comparve una strana struttura scheletrica di ferro. La cima!

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Foto di gruppo in cima al Cavallo di Pontebba – maggio 2009 – foto D.Nardin

Ancora oggi non mi capacito di come abbiamo potuto passare due volte dallo stesso punto senza accorgerci di essere già arrivati in cima. Molto probabilmente avevamo fatto una sorta di periplo attorno alla stessa perdendo totalmente i riferimenti.
La soddisfazione non fu tanto per la cima, quanto per il rassicurante punto fermo trigonometrico che finalmente potevamo utilizzare. Credo che quella sia stata la prima ed unica volta che ho usato la bussola in montagna!

Contin

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2.Cornici

Ci sono alcune regole non scritte eppure infallibili che bisognerebbe sempre tener presente. Ad esempio, quando si parla di sci, si potrebbe affermare tranquillamente che per quanto presto tu possa partire, c’è qualcuno che è partito prima di te (e verosimilmente si trova il pendio in condizioni migliori). Parafrasando, e applicando all’alpinismo invernale (o meglio primaverile), si può dire che per quanto presto possa partire, la parete prenderà già sole prima che tu possa arrivare all’attacco. Queste massime un po’ stile “legge di Murphy” ben si adattano all’aspirante alpinista invernale (specie se viene dalla pianura) e le abbiamo verificate varie volte. Ci abbiamo messo del nostro, per carità: sveglie sempre posticipate di quel fatal quarto d’ora, soste prolungate a far foto e chiacchiere lungo la via. Siamo pur sempre turisti.
Ma quel giorno della “Schiavi” alla Creta di Pricot ci eravamo devo dire impegnati: partenza alle 4 e parete Nord, parafrasando Livanos, mi sembrava la dimostrazione di una sana e incontrovertibile motivazione e manifestazione di impegno alpinistico. Peccato che arrivati nel vallone del Winkel con nostra sorpresa constatiamo che non solo il vallone è baciato dal sole del mattino,  ma pure la parete è ben esposta: merito di una quota non troppo alta, di un orientamento “nord ma non troppo” e della posizione molto ariosa della nostra parete. In poche parole: bisognava sbrigarsi. Era pur sempre maggio, e nonostante quel 2009 ci stesse dando l’illusione di una perenne glaciazione grazie ai diversi metri di neve caduti, l’inclinazione dell’asse terrestre se ne fregava altamente e perseguiva il proprio moto cosmico.

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Parte inferiore della Schiavi alla Creta di Pricot – maggio 2009, foto D.Nardin

All’attacco, ancora in ombra, trovammo una lunga e regolare “rigola” di ghiaccio sui 60° abbondanti e larga quasi un metro. Un “tubo” che ci permise di salire rapidamente i primi 100 metri sulle punte dei ferri, salvo cedere indecorosamente ad un pendio già marcio alle 8 di mattina. La nord (est….) della Pricot in veste “nevosa” trovo sia particolarmente scenografica: i pendii sospesi, inframezzati di lisci salti e orlati di grandi cornici ti proiettano rapidamente in una dimensione di “Nord alpina” molto accattivante. Anche l’ariosità del contesto, ben aperto e dai panorami vasti, contribuisce a dar un senso di altezza superiore alle reali dimensioni della parete, alta “appena” 400 metri.
Il canale finale presentava neve abbastanza compatta e riguadagnammo terreno fino alla gigantesca cornice finale: credo fosse la prima volta che ne vedevo una simile da vicino e dopo le varie esclamazioni (figata!guarda che roba!chissà quanti metri sporge) ci ponemmo la domanda:ok, ma come si passa? Ormai ero in testa e deciso a fare fino in fondo il “capogita”. Sul lato destro il ricciolone si compattava e diventava più simile ad un muro. Verticale, però: e chi aveva  mai salito un muro di neve verticale? Quando mi vide così deciso, il buon Marco Kulot mi disse di “star attento!”. Credo sia stata l’unica volta che ho sentito Marco dire a qualcuno di “stare attento” e la cosa mi fa ancora abbastanza ridere e pensare, perché c’era davvero da stare attenti! Per fortuna il muro teneva neve “plastica” e per quei 3 metri mi sentii un vero alpinista. Nel ribaltarmi oltre con la faccia nella neve mi pervase una sottile soddisfazione.

Schiavi

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Uscita della Schiavi, gennaio 2020 – foto F.Conta

3. Followers o Leaders?

“Don’t be followers/Be Leaders”. Certo che qualche volta Instagram spara massime che neanche la Rochefocauld. Anzi, a dire il vero, gli instragrammers (almeno quelli che bazzicano attorno ai trend topic #climbing #mountaineering etc etc) sono dei sommi formulatori di massime più o meno motivazionali, esistenzialiste o di grande insegnamento della vita. Nel caso di specie, si trattava di nonsoche top o simil top climber francese, di quelli che per mestiere da lunedi a domenica scalano e sono buoni rappresentanti dello “chamonisme” ovvero salite di facile accesso, sicura gratificazione e buona connessione 4G. In questi giorni pare che l’argomento “caldo” in posti come la Microbrasserie sia che c’è troppa gente che ripete vie tipo “Beyond Good and Evil” e questo – come dire – sta togliendo un po’di gusto a quella che un tizio di nome Twight nominò “capitale mondiale degli sport letali”. Lo stesso tizio che piazzerebbe ancora quel teschio sghignazzante nel famoso schizzo della via, vedendo affannarsi frotte di “followers” avvisati delle “good conditions” sulle Aiguille des Pelerins. Ma, del resto, che c’è di male?
In fondo va bene così. Non fareste anche voi lo stesso? Io, fossi buono, sicuro. Solo che Chamonix sta a 600 km e un buon centone a cranio di distanza. Un tantinello fuori portata, insomma.

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L’evidente gola Nord del Cavallo di Pontebba – gennaio 2020 foto S.D’Eredità

Intanto, nell’umile angolino nord orientale, nel mio piccolo vado a dormire con questo dubbio atroce: sono follower o sono leader? E soprattutto, dove andiamo a ficcarci domani? Che qua non è mica come a Cham. Se ci sono le condizioni nessuno te lo dice, e anche se scovi sui social qualche sloveno di quelli giusti riescono ad essere piuttosto evasivi. Insomma, follower o leader? Col Conta, nel frattempo, abbiamo adottato tacitamente una tattica molto paracula: non si decide più la meta ma l’ora della sveglia e in base a quella si sceglie dove andare. Che è già un’ottima scusa per dopo dire “avrei voluto, ma sai ci siamo trovati tardi…”.

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Il “Conta” all’attacco della gola Nord – foto S.D’Eredità

Per farvela breve, e per non sapere se essere più follower o più leader (e comunque leader di basso rango) siamo tornati nel nostro angolino preferito tra Carniche e Giulie, dove cerchiamo di ricreare un qualcosa che assomigli al col Flambeau, l’Argentiere o Grandes Charmoz, ma senza ingaggi e sovraesposizione chamoniarda. Siccome l’altra volta dopo la salita della Schiavi ci siamo ingolositi, stavolta abbiamo deciso di passare al canale successivo, che aveva l’idea della tipa/tipo che sta un po’in disparte e nessuno se la/lo fila anche se ha tutte le carte in regola. E poi, diciamocelo, tornare nello stesso posto ci dà quell’aria da “local” che per gente di pianura è sempre un po’eccitante.
Insomma, nel nostro piccolo (piccolissimo) abbiamo deciso di fare i leader piuttosto che i follower anche se – meglio essere onesti – dalla prima pseudo sosta ho solo pensato a come fare a scendere in caso di fastidi. E man mano che salivamo quest’idea che “sarebbe comunque meglio trovare un’uscita” ha finito per diventare vagamente ansiogena. Giusto per ricordarci che l’alpinismo ogni tanto è anche una cosa maledettamente seria e meglio usarla con cautela. E che, come mi ricorda il Conta, “per fare notte c’è sempre tempo”.
Mai come stavolta abbordare il grande pianoro sommitale, con tutte i suoi risvolti psicologici, è stato in qualche modo rassicurante e la piccola bellezza del Winkel si è ancora una volta rivelata ai nostri occhi. È vero, il cuore batte sempre a Est, verso le nobili Giulie verso le quali non mi sento mai sufficientemente degno, ma in ogni caso segnatevela. Va un po’più spesso in condizioni di tante salite blasonate, l’ambiente è suggestivo e qualche cuore impavido potrà anche sognare di sciarla. Magari non se la filerà nessuno, ma con noi, dobbiamo dirvelo è stata davvero carina. E ce ne ricorderemo.

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Dentro la gola N/E del Cavallo di Pontebba – visibile dietro la Torre Winkel – foto S.D’Eredità

Inverno in Winkel

Quest’angolo (come appunto l’origine del nome suggerisce) di montagne collocato in una zona di “transizione” tra Carniche e Giulie è molto amato dagli alpinisti friulani e austriaci in quanto presenta caratteristiche molto vantaggiose e per tutti i gusti: interessanti itinerari di arrampicata – alcune delle migliori classiche sono qui – vie sportive, percorsi di cresta e brevi ferrate. Anche d’inverno non ci si annoia e quelli qui presentati sono solo alcuni suggerimenti: fantasia e creatività possono esprimersi liberamente per creare nuove combinazioni. La relativa brevità di accessi e discese e la lunghezza contenuta degli itinerari permettono di fare interessanti salite in inverno senza gli “ingaggi” giuliani. Nondimeno i percorsi vanno studiati e monitorati, svolgendosi spesso lungo canaloni o pendii ripidi le cui condizioni come sempre vanno attentamente ponderate.

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Nei pressi della cornice finale della Creta di Pricot – foto F.Conta

Oltre a quelli descritti come “assaggi” si segnalano anche altre possibilità. Ad esempio il percorso Torre Winkel-Torre Clampil (indifferentemente approcciato dalla prima o dalla seconda) sta diventando una piccola classica del genere. Se preso da Forcella Winkel basterà risalire le balze (cavo spesso sepolto) che conducono alla Torre Clampil e da questo, dopo breve abbassamento, alla Torre Winkel. Più delicata la discesa a Nord di questa: i brevi saltini e i pendii sono spesso esposti e il cavo non sempre continuo. Utile una corda per brevi doppie. Si ritorna così alla base e da qui a seconda dei casi si può andare verso Sella Madrizze e individuare una delle tracce che scendono nella conca di Winkel (spesso passaggi di sci) o contornare uno sperone che scende dalla Torre Winkel e calare più rapidamente nella parte alta della conca. Difficoltà: AD, passaggi di I/II, brevi tratti sui 50°.

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Avvicinamento nel vallone di Winkel – foto F.Conta

In quest’inverno “particolare” le pareti hanno mostrato anche altre potenzialità, evidenziando goulotte e rampe altrimenti non fattibili per scarso (o, anche se più raro, eccessivo innevamento). Ad esempio la via “Ermanno” (Ceccon-Domenis, ott.1971, it.125f guida A.Carniche 1), ripresa in chiave invernale da Alex Franco e Massimo Candolini a fine gennaio 2019 i quali hanno dichiarato difficoltà di M4 e pendenze sui 70/80° (la via era già stata salita d’inverno da S.Della Mea, S.Di Giusto, G.Rosenwirth, O.Stoffie nell’inverno 1975). Si tratta di una regolare e ben visibile (specie se la si guarda dalla forcella Winkel, scendendo) rampa che stacca da dx a sx alla base della parete Nord Nord Est del Cavallo di Pontebba. Lunghezza: circa 250 mt.

Ampliando l’orizzonte, al di là di Passo Pramollo, anche il Gartnerkofel offre diverse possibilità di divertirsi su neve e ghiaccio senza impegni eccessivi: la vicinanza degli impianti e la facilità di discesa la rendono cima appetibile anche per le prime prove. Basti pensare alle tre gole che incidono il versante occidentale o alla cresta Nord/Ovest: percorsi di alpinismo facile, ma pur sempre invernale, quindi da affrontare con cognizione di causa, studio delle condizioni e attrezzatura adeguata.

Note tecniche

Se già è difficile dare un consiglio “univoco” sull’attrezzatura da portare per una via alpinistica (la famosa NDA o “Normale Dotazione Alpinistica” è concetto alquanto relativo…), nella veste invernale ciò diventa ancor più complesso. Condizioni, esperienza, dimestichezza possono variare moltissimo e richiedere approcci o tecniche diverse (neanche a dirlo che una via in condizione “secche” potrà essere anche più difficile di un canale ben innevato dove salire “comodamente” con due piccozze e ramponi). Cosa portare quindi? In assenza di un “protocollo” per le invernali, in queste salite ci siamo sempre mossi con una corda (anche una mezza può andare bene), due piccozze, ramponi 12 punte classici, qualche vite da ghiaccio – usate a dire il vero poco – un paio di friend da 0.3 a 0.75 (in genere le misure piccole si sfruttano di più dato che le fessure larghe son spesso intasate di neve o ghiaccio) e un paio di chiodi (che secondo me va sempre bene portare su terreni “incerti”). Per questo genere di salite che si svolgono prevalentemente su neve e pendenze non elevatissime ha poco senso portare molte viti (ma come sempre, ciò dipende dalle condizioni) mentre un “corpo morto” può risultare molto utile. Detto ciò, sta alla sensibilità ed esperienza di ciascuno valutare il tipo di materiale da portare.

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Sul pianoro sommitale del Cavallo di Pontebba

Per quanto riguarda il periodo, gli altalenanti inverni degli ultimi 20 anni danno poche certezze. Spesso queste salite sono “sfruttate” in inverni magri in alternativa alle scialpinistiche o perchè si tratta di situazioni in cui la poca neve garantisce una minor esposizione (ma non assoluta, anzi!) al rischio valanghe e una progressione più rapida. Tendenzialmente sono salite fattibili anche a gennaio, aspettando un buon periodo di assestamento dopo le ultime nevicate e ponendo attenzione alla qualità del manto nevoso (progredire nella neve leggera invernale può essere frustrante ma anche rischioso) nonchè all’esposizione: più avanti in stagione (da marzo in poi) il sole entra inesorabile nella conca, quindi valutare bene le tempistiche per una progressione più sicura e per minimizzare il rischio di scariche. Eccetto la gola Nord, le salite sono abbastanza al riparo da percorsi classici di valanghe, ma questo ovviamente non è un dato assoluto, ma solo un’osservazione.

Un invito infine a segnalarci anche notizie storiche di altre salite in zona, dato che tutta la lunga costiera dall’Anticima Est di Pricot al Cavallo offre interessanti linee di salita invernali, ma le informazioni reperite tra guide e rete rimangono piuttosto carenti.

 

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