Il diedro fossile e un dizionario di geologia

di Saverio D’Eredità

Arrampichiamo nel solco di un diedro fossile, le cui pareti sono plasmate da milioni di esseri viventi che popolarono il mare del Devonico.
Arrampichiamo il tempo profondo, dal passato remoto ad un presente intangibile. Ascoltiamo con le mani questa lingua antica, fatta di miriadi di gusci, conchiglie, alghe calcificate.
Mi pare di vederli lavorare, pazientemente e per migliaia, milioni di anni, scalpellare questa gigantesca scogliera come scultori certosini in quei mari caldi.
Arrampichiamo il diedro fossile e il suo tempo materializzato.
C’è stato un periodo che ho avuto anche quella di studiare geologia. Una cosa estemporanea, a dire il vero, di quelle che capitano nelle fasi di transizione dell’adolescenza, in particolare quando inizi a porti certe domande facili facili tipo “cosa fare nella vita”.
Non scherzo, a geologia ci ho pensato per davvero. Ho persino un dizionario di geologia a casa, regalatomi da qualcuno che mi aveva visto collezionare sassi di vario genere durante le camminate. Ad essere sinceri, poi, non è che mi affascinasse tanto la scienza in sé, quanto piuttosto l’idea di avere a che fare con le montagne. Non quindi le formule chimiche, la tassonomia e nemmeno la classificazione delle grandi ere, bensì l’idea di imparare quella che è in fondo è la lingua, delle montagne. L’unico problema è stato che ad un certo punto gli evidenti fallimentari risultati in matematica e materie affini, nonché l’emergere palese di una predisposizione umanista hanno reso la cosa piuttosto improbabile.
Eppure mi affascinano ancora, le pietre, le loro forme, le loro storie.
Ogni alpinista un po’geologo lo deve essere per forza. Del resto, non è un parlare alle rocce, quello che si fa ogni volta che si arrampica? Riconoscerle è come sapersi esprimere ogni volta in una lingua diversa. Senti? La logorrea tipica della dolomia. Le poche frasi, secche, delle compatte lavagne carniche, qua e là addolcite di sfumature gialle e rosa. I toni cupi del granito e il pensiero complesso delle pietre giuliane con quella loro cadenza lunare.

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Creta di Aip – parete Nord del Trogturm: Luca Brigo sulla fessura del 4° tiro (V) – foto S.D’Eredità

Mentre tasto con accuratezza i blocchetti alla mia sinistra mi viene in mente il dizionario di geologia, che dev’essere da qualche parte a casa – ricordo la copertina, gialla con quattro figure di fossili – e il fatto che tutto sommato anche se non ho poi fatto geologia qualcosa ho imparato, sulle pietre e la loro storia. Questa, ad esempio, è la classica fascia intrusiva di rocce marnose, mescolata con calcari vari (la descrizione ve la prendete com è, visto che non ho studiato geologia, alla fine) che segna una discontinuità in tutte le pareti di questa dorsale delle Carniche. Se hai la sfortuna che il passaggio duro caschi lì diventa una rogna, altrimenti è solo una breve transizione, come l’intercalare in una lingua che al momento ti sfugge. Normalmente, prima e soprattutto dopo la roccia torna ad essere meravigliosa. Ed è su questo che scommetto appena mi ribalto oltre lo spigoletto e mi innalzo nella fessura.
Ci stiamo muovendo con circospezione su questa parete di cui non abbiamo percezione.
È un monte ben strano, la Creta di Aip. Pare uno scoglio, un relitto abbandonato in mezzo alle torbiere senza che nessuno si ricordi più perchè. Tozza, squadrata, con queste pareti improvvise e l’altopiano crivellato di buchi della cima, non le daresti molto, a distanza. Però incuriosisce. Quanto ti avvicini, il chiarore delle pareti rivela tocchi rosati e quella struttura che pareva così rozza si scompone in torri, pinnacoli, pilastri monolitici.

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Creta di Aip – parete Nord del Trogturm: Luca Brigo sul terzo tiro (V+)  foto: S. D’Eredità

Ci eravamo dati tre tiri di prova. “Se butta male ed è troppo dura scendiamo” ci eravamo detti. Ma la voglia di andare a vedere oltre il bordo dello scoglio abbandonato era ancora alta.
Luca mi raggiunge nella piccola nicchia sul filo del pilastro e prosegue. Non abbiamo bisogno di usare le nostre parole. La pietra ritorna a parlare una sua lingua dolce, fatta di appigli, buchi, concrezioni di ogni tipo. Ci soffermiamo a guardare ogni singolo frammento della roccia che stiamo toccando, attratti dal particolare più che dal generale, per scoprire l’infinitamente piccolo nell’infinitamente grande.
Sbuchiamo di botto sull’altipiano. Il vento caldo del sud sospinge batuffoli di nubi oltre la scogliera. Nel chiarore del pomeriggio paiono quasi le onde di quel mare antico, in cui il nostro scoglio naufraga alla deriva del tempo.

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Altopiano sommitale della Creta di Aip

 

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Creta di Aip – parete Nord del Trogturm via Rainmen
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