Un vecchio maglione di lana

Un omaggio a un mondo che non c’è più

di Marco Berti

Introduzione di Carlo Piovan

L’erto sentiero che sale da San Vito di Cadore al rifugio San Marco, finalmente si concede meno ripido negli ultimi cento metri, cosi da lasciarmi la possibilità di riprendere fiato. Le fronde degli abeti lasciano spazio alla vista del piccolo rifugio in pietra, adagiato su un prato verdissimo. Mi avvicino con mio papà alle panchine di legno poste all’esterno. C’è molto movimento attorno al rifugio, le tavole sono imbandite di fette di salame e uova sode, le bottiglie di vino rosso passano di mano in mano. Una voce profonda, che sovrasta le altre, attrae la mia attenzione di timido quattordicenne. – Pare canta pian che no te senta – è un signore anziano dal fisico robusto e dai lineamenti marcati a pronunciarle, riferendosi al suo interlocutore (un poco stonato) per poi proseguire, lui stesso, nel canto. Mio papà si affianca al coro da poco costituito ed io mio siedo silenzioso ad ascoltare. Non conosco quella persona ma so perfettamente che fa parte del gruppo rocciatori gransi del Cai di Venezia, ho visto il maglione blu con ricamato un granchio bianco sul braccio, che indossa. Alla fine dei canti mi sarà presentato come Orso alias Plinio Toso. Quella giornata si terminò con quella conoscenza, per me nuova e assolutamente ignara di chi era il “signor” Orso. Solo qualche anno dopo nelle mie voraci letture di libri di alpinismo arrivai a capire chi realmente fosse, troppo tardi, purtroppo, perché in quegli articoli c’era anche il necrologio apparso sulla rivista Le Alpi Venete. Al di là delle mille domande che avrei voluto fargli se l’avessi rincontrato, mi rimaneva soltanto il ricordo di aver bevuto un “rosso” assieme (gentilmente permesso nell’occasione da mio papà) e avere fatto la sua conoscenza. Molti anni dopo mi è stato concesso l’onore di indossare un maglione come il suo, simile ma non eguale, perché ogni maglione racchiude un significato per chi lo indossa e per chi lo conserva con sé. Nelle righe a seguire Marco Berti ci riporta attraverso la storia di un vecchio maglione nelle pieghe di un alpinismo che ha fatto storia.

Oggi, dopo una chiacchierata con un amico, ho preso una decisione: ho messo via, riposto in un bel baule di famiglia risalente agli anni ‘20, chiuso in un sacchetto con l’antitarme, un vecchio maglione di lana che mi ha fatto sognare nei racconti di chi l’aveva portato prima di me. Sono passati quasi 30 anni dalla prima volta che l’ho indossato. Blu con un bel segno distintivo bianco sul braccio, un gransio, un granchio veneziano. Adesso ha qualche buco, ha visto un po’ di mondo, belle montagne, vicine e lontane. Un tempo lo indossavo con orgoglio.

A casa, nell’armadio, ha sempre vissuto vicino ad un suo simile, un maglione uguale che era stato vestito quando si salivano le montagne con le braghe alla zuava. Un vecchio maglione che profumava di chiodi e moschettoni pesanti, di corde di canapa manila, di allegre bevute, di cante, di un tempo in cui le montagne godevano di tanto silenzio.

Quel vecchio e storico maglione, con il gransio bianco sulla manica sinistra simile al mio, mi era stato regalato da un alpinista noto a tutti come l’Orso anche se di nome faceva Plinio Toso.

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Plnio Toso “Orso” fonte paretiverticali.it

Un maglione fatto a mano da sua mamma, una mamma dell’isola di Murano nella laguna di Venezia, un mondo d’acqua da dove le montagne si vedono e che si sono dimostrate potenti calamite. Il regalo era accompagnato da un piccolo biglietto scritto con un italiano stentato in cui sentii tutto l’affetto di quell’uomo dal viso segnato,  dalle mani grandi e nodose che non rinunciavamo mai di tenere tra le dita un bicchiere di rosso o una sigaretta senza filtro.

 

Quel vecchio e storico maglione che ha vissuto accanto al mio negli ultimi tre decenni, accompagnò l’Orso durante un’indimenticabile salita sugli strapiombi nord del Campanile di Val Montanaia. Prima ascensione che è raccontata su wikipedia con una citazione di Mauro Corona: “Nel … ‘59 mi ritrovai dietro alla schiena due simpatici personaggi. L’uno di Murano: Plinio Toso, maestro vetraio e pescatore, l’altro, che non pesava più di 40 chili, era Bepi Faggian di Pordenone. Lavorarono per più giorni con staffe e chiodi ma toccarono il ballatoio con una via diretta al centro della parete nord”.

Il vecchio maglione dell’Orso partì con me per il Tibet, verso il mio primo sogno di ottomila metri, perché solo più tardi mi venne consegnato un maglione tutto mio.

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foto archivio M. Berti

Nel novembre del 2013, il mio maglione ha riassaporato il profumo delle alte quote dell’Himalaya rimanendo semplicemente nello zaino, senza indossarlo nel rispetto delle regole del Gruppo Rocciatori. L’ho portato come un fratello, ricordando i vecchi tempi sull’imponente Kangchenjunga e quando, da soli, salimmo il gelido Salbachum che in quei giorni faceva capolino da dietro una parete che guardava il campo base della nuova montagna che stavo affrontando.

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Berti sul Kangchenjunga 1991 – foto archivio M. Berti

Non ci può essere una risposta ad ogni cosa, ad ogni perché. A volte le domande non hanno risposte perché risposte non ci possono essere se non quelle stupide, quelle che fanno solo sorridere. Da un bel giorno quel maglione dovette rimanere riposto nell’armadio vicino a quello dell’Orso ma non smise mai di profumare di roccia graffiata da un chiodo battuto con decisione da un martello, di erba bagnata e del ghiaccio più freddo ma soprattutto di luoghi sognati e di sogni realizzati. Ho imparato a dare il vero valore alle cose e soprattutto alle persone. Tutto deve essere messo al suo posto perché la mia barba sta diventando bianca e mi godo quello che è stato, vivo serenamente il quotidiano e le montagne che riesco a salire o semplicemente ammirare, e non pretendo niente da quello che sarà. Lascio ad ognuno il suo piccolo spazio perché ho avuto la fortuna di godere di spazi infiniti diventandone parte, godendone nei ricordi e delle emozioni che ormai sono parte di me. Un simbolo vale nella credibilità del presente, un valore che è eccellenza, un alto valore qualitativo.

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Campo base parete sud ovest Kangchenjuna durante una pausa nel “sali-scendi” in parete – foto archivio M. Berti

Quando il reale valore di un simbolo rimane nel passato, sopravvive unicamente nella memoria storica, così viene vestito come le divise garibaldine nelle ricostruzioni storiche delle feste di piazza. In quel simbolo tutto è solo memoria grazie a quelli che sono stati i miei indimenticabili punti di riferimento. Punti di riferimento del grande alpinismo veneziano, riferimenti per più di una generazione passata: e così è grazie alla storia e alla personalità dell’Orso, di suo fratello Fagio Dino Toso, arrampicatore dotato ed elegante, dalle grandi mani e con gli occhi sempre sorridenti, Vittorino Penzo, solitario negli anni ’50 sulla Simon-Rossi sul Pelmo e sulla nord dell’Agner e su molti altri difficili itinerari, Ada Tondolo, una delle prime donne sestogradiste che ne ’92 fu con me in Nepal lungo la Valle del Langtang così come Franco Battaglia Barufa e Gianni Franzoi, Alessandro Masucci, alpinista completo che per me rimane indimenticabile come Masu Norbu, soprannome che gli dettero quando raggiunse il colle sud dell’Everest senza ossigeno nel 1980, Elvio Terrin, alpinista e rocciatore fortissimo che affrontò nel 1978 in stile alpino il Manaslu lungo la difficile cresta est, Giorgio Sent Pepo, alpinista dal grande cuore e di grande signorilità, senza dimenticare Maurizio Nane Venzo guida alpina veneziana che ha salito le difficili Torri del Trango in Pakistan. Quando sei giovane hai bisogno di riferimenti e non di memorie. Chi più, chi meno loro sono stati i miei riferimenti ma io ho la barba quasi bianca e quell’élite se n’è andata o fa parte di una generazione, di un modo di fare e vivere l’alpinismo che non è quello di oggi: i ventenni di oggi a torto o a ragione, guardano altrove.

Berti con A. Tondolo, F. Battaglia e V. Penzo

Così i due maglioni sono entrati nel baule dei ricordi, uno a fianco dell’altro, tra jellabiye yemenite, calzature tibetane, giacche sherpa e mantelli beduini. Mi hanno guardato sorridendo e strizzandomi l’occhio. Ho risposto con un sorriso e una carezza. Chiuso il baule ho sentito il maglione dell’Orso rivolgersi al mio: “vien qua frate* che se bevemo ‘na ombra de rosso e se femo compagnia”.

* Fratello

2 risposte a "Un vecchio maglione di lana"

  1. inglassa.wordpress.com 25 gennaio 2017 / 14:33

    Bellissimo questo stralcio di vita, grazie per averlo scritto e per aver deciso di condividere con un pò di lettori parte della sua vita

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  2. Franco Roverato 25 gennaio 2017 / 14:43

    …..bell’articolo!….sono abbastanza vecchio per gustarmi la storia della montagna dei Gransi…..vissuta nel mondo delle terre alte…

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